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Mutilazione genitale femminile, è possibile ottenere la protezione internazionale?

Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.7022 del 15/03/2024

È legittimo il riconoscimento della protezione internazionale alla cittadina straniera, precedentemente sottoposta a mutilazioni genitali femminili (MGF), che teme future persecuzioni e trattamenti discriminatori o inumani in caaso di rimpatrio?

Si occupa della questione la recente sentenza della Cassazione n. 7022 del 15 marzo 2024.

Il caso di specie riguardava il ricorso di una donna nigeriana contro il decreto del Tribunale di Roma che aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiata o della protezione sussidiaria. La ricorrente sosteneva che la sottoposizione a MGF indicasse un trattamento discriminatorio ingiustificato, lamentava la mancata considerazione di tale aspetto e del contesto di discriminazione di genere nel suo paese di origine, nonché un'errata valutazione del suo percorso di integrazione in Italia.

La Corte ha basato la sua decisione su diversi principi di diritto internazionale e nazionale, riconoscendo che le MGF costituiscono una "grave violazione dei diritti umani" e un "atto persecutorio" ai sensi del D. Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 7 e 14. La sentenza sottolinea l'importanza di valutare non solo il rischio di subire nuovamente pratiche di infibulazione ma anche il pericolo di altri trattamenti discriminatori o inumani a causa della storia personale e delle peculiarità culturali della richiedente.

La donna aveva argomentato che, a causa della sua esperienza di vita, compreso il rifiuto del matrimonio tradizionale e le difficoltà incontrate nel perseguire il suo percorso religioso, avrebbe affrontato gravi discriminazioni e pericoli in caso di rimpatrio. La Corte ha riconosciuto la validità di questi argomenti, evidenziando la necessità di un'indagine approfondita sul contesto socio-culturale di provenienza della richiedente e sulla sua storia personale.

La soluzione adottata dalla Corte consiste nell'accoglimento dei motivi di ricorso, enunciando il principio che, in tema di protezione internazionale, il "pericolo per la richiedente di subire ulteriori trattamenti discriminatori di genere o trattamenti inumani e degradanti" deve essere valutato considerando anche il suo "pregresso vissuto" e le "peculiarità della sua storia personale".

Protezione internazionale, mutilazioni genitali femminili, rimpatrio, pericolo di ulteriori trattamenti discriminatori di genere o trattamenti inumani e degradanti, valutazioni

In tema di protezione internazionale, ove risulti che la ricorrente abbia subito mutilazioni genitali femminili, il pericolo per la richiedente di subire in caso di rimpatrio ulteriori trattamenti discriminatori di genere o trattamenti inumani e degradanti, pure di tipologia diversa da quelli già patiti, deve essere valutato anche con riguardo all'eventualità che ella possa subire tali trattamenti a causa del pregresso vissuto e delle peculiarità della sua storia personale e il rischio prognostico così individuato va accertato tramite le fonti di conoscenza sul contesto sociale e culturale di provenienza, in relazione anche alla possibilità di ottenere adeguata protezione da parte della autorità locali.

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Cassazione civile, sez. I, ordinanza 15/03/2024 (ud. 25/01/2024) n. 7022

FATTI DI CAUSA


1. Con decreto emesso in data 11/05/2023 nel procedimento R.G. n. 56043/2021 il Tribunale di Roma rigettava il ricorso di Of.Ek., nata in Nigeria il 14.09.1966 (alias Omissis, nata in Nigeria il Omissis), avente ad oggetto il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, all'esito del rigetto della sua domanda di protezione internazionale da parte della competente Commissione Territoriale, mentre accoglieva la domanda della ricorrente concernente il riconoscimento della cd. protezione speciale.

2. Avverso il suddetto provvedimento, la ricorrente propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi nei confronti del Ministero dell'Interno, che è rimasto intimato.

3. Il ricorso è stato fissato per l'adunanza in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ. .

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.La ricorrente denuncia: i) con il primo motivo "Art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c. Violazione e falsa applicazione artt. 2,3,7,8 e 14 D.Lgs. 251/2007. Violazione art. 60 Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Violazione art. 3 CEDU Violazione art 1 Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951 ratificata in Italia"; ii) con il secondo motivo l'"omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c. per non aver il giudice tenuto in considerazione il contesto socio-culturale del paese di origine e il rischio di subire gravi discriminazioni fondate sul genere"; iii) con il terzo motivo "Art. 360 n. 3: Violazione e falsa applicazione art. 35-bis co. 11 D.Lgs. 25/2008. Mancata audizione della ricorrente"; iv) con il quarto motivo nArt. 360 n. 3 c.p.c. Violazione e falsa applicazione art. 19 co. 1 e 1.1 D.Lgs. 286/98". La ricorrente, illustrando i primi due motivi, deduce che la sottoposizione alla pratica della mutilazione genitale femminile di seguito per brevità MGF) deve portare al riconoscimento dello status di rifugiata, laddove la pratica sia svolta nel paese di origine realizzando un trattamento ingiustamente discriminatorio della donna. In tale ottica, ad avviso della ricorrente, è fondamentale esaminare quale sia il contesto socio-culturale di appartenenza, al fine di verificare se le donne siano discriminate nel godimento e nell'esercizio dei diritti fondamentali (Cass. civ. 11091/2023). Per tale ragione, nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado si era ampiamente allegata e descritta l'esistenza di un contesto profondamente discriminatorio della donna in Nigeria, il quale, ad avviso della ricorrente, emerge con tutta evidenza dalle fonti disponibili. Con il terzo motivo si denuncia la mancata audizione della ricorrente e si deduce che le MGF si inseriscono in un contesto di profonda discriminazione nei confronti delle donne, che - seppur allegato nel ricorso - non era stato tenuto in considerazione nella decisione impugnata, che aveva valutato solo le potenziali persecuzioni della richiedente in quanto monaca e religiosa. Infine, le MGF sono idonee a rivelare una condizione di vulnerabilità fisica e psicologica, su cui la ricorrente non era mai stata ascoltata e che pure avrebbe dovuto costituire oggetto di valutazione. Con il quarto motivo si deduce che la protezione speciale era stata riconosciuta esclusivamente sulla base del percorso di integrazione della donna in Italia e sul rispetto dell'art. 8 CEDU, senza valorizzare il vissuto e la profonda vulnerabilità della ricorrente, nonché il contesto esistente nel Paese di origine.

2. I motivi primo e secondo, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono fondati.

2.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte a cui il Collegio intende dare continuità, ove la ricorrente alleghi di aver subito mutilazioni genitali femminili, il Tribunale è tenuto ad accertare la fondatezza del rischio in caso di rimpatrio, anche in relazione ai costumi sociali del paese d'origine e alla possibilità di ottenere protezione effettiva da parte delle autorità locali tenuto conto che le MGF integrano un atto persecutorio del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 7, ovvero un danno grave di cui dell'art. 14 D.Lgs. cit., lett. b) (cfr. da ultimo Cass.22658/2023). Come già ricordato da questa Corte (Cass. n.30631/2021), la nota orientativa dell'UNHCR (2009) sulle domande di asilo riguardanti la mutilazione genitale femminile considera le MGF come una forma di violenza basata sul genere che infligge grave danno, sia fisico che mentale, e costituisce persecuzione in quanto vìolano una serie di diritti umani delle ragazze e delle donne, tra cui il diritto alla non discriminazione, alla protezione dalla violenza fisica e mentale, ai più alti possibili standard sanitari e, nei casi più estremi, il diritto alla vita. In materia di MGF, la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta ad Istanbul l'11/05/2011 e ratificata dall'Italia con L. n. 77 del 2013, definisce le MGF come grave violazione dei diritti umani delle donne e delle ragazze e come principale ostacolo al raggiungimento della parità tra i sessi. All'art. 60, rubricato "richieste di asilo basate sul genere", onera le Parti contraenti ad adottare le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basate sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo ad una protezione complementare/sussidiaria. Infine, la Risoluzione del Parlamento Europeo del 14/06/2012 sull'abolizione delle mutilazioni genitali femminile, dà atto che le MGF sono indice di una disparità nei rapporti di forza e costituiscono una forma di violenza nei confronti delle donne, al pari di altre gravi manifestazioni di violenza di genere, e che è assolutamente necessario inserire sistematicamente la lotta alle mutilazioni genitali femminili in quella più generale contro la violenza di genere e la violenza nei confronti delle donne (cfr. Cass. 29971/2021 e pronunce sopra citate).

2.2. Occorre ulteriormente precisare che il pericolo per la richiedente di subire in caso di rimpatrio ulteriori trattamenti discriminatori di genere oppure trattamenti inumani e degradanti deve essere valutato non solo con riferimento all'eventualità, più frequente nella casistica giudiziaria, che ella sia sottoposta nuovamente alla pratica dell'infibulazione, ma anche con riguardo all'eventualità che possa subire tali trattamenti a causa del pregresso vissuto e delle peculiarità della sua storia personale, mediante idoneo approfondimento al riguardo tramite le fonti di conoscenza sul contesto sociale e culturale di provenienza.

2.3. Nel caso di specie, il Tribunale ha escluso il rischio in caso di rimpatrio svolgendo l'indagine limitatamente a profili discriminatori legati allo status di religiosa della ricorrente, affermando che in base alle COI "non risultano discriminazioni nei confronti di monache e religiose (nel sud est della Nigeria, zona da cui la ricorrente proviene e dove tornerebbe) o che le stesse siano destinatarie di uno stigma sociale, tanto da rendere probabile un rischio persecutorio o di danno grave".

L'indagine così svolta non corrisponde alle allegazioni della ricorrente e alle caratteristiche specifiche della sua storia personale, la cui credibilità non è posta in discussione, e della sua attuale condizione. La ricorrente così ha illustrato la propria vicenda personale: "Quando l'odierna ricorrente è ancora piccola, la stessa viene sottoposta - secondo una tradizione dominante in Nigeria - a mutilazioni genitali femminili di II tipo, in vista di un eventuale futuro matrimonio (Doc. 2). Tuttavia, la sig.ra Offor non si sposerà mai e al contrario nel 1993 entra nel Monastero Santa Scolastica di Umuoji. Nel 1997 emette per la prima volta i voti, che avrebbe poi dovuto rinnovare nel 2000. Nel 2000, prima della cerimonia per il rinnovo dei voti, la sig.ra Offor subisce un'operazione per la rimozione di un fibroma all'utero. Le viene successivamente impedito di rinnovare i voti a causa del dissenso di un membro della congregazione e viene allontanata dal monastero. Inizia quindi a insegnare in una scuola primaria, ma, decisa a proseguire il proprio percorso religioso, fa giuramento primario attraverso il vescovo della propria parrocchia. Qualche anno dopo conosce una monaca che stava per trasferirsi in Italia e la mette in contatto con il monastero di Maria Franconi a Frosinone. Il monastero decide di ammetterla e le favorisce l'ingresso in Italia inviandole una lettera di invito e pagandole il viaggio. La sig.ra Offor arriva in Italia con un aereo il 27.01.2015, ottiene un permesso di soggiorno per motivi religiosi ed entra nel monastero di Maria Franconi. Qui viene rassicurata del fatto che avrebbe potuto fare la professione solenne (emissione dei voti perpetui) dopo tre anni dal suo ingresso. Tuttavia, trascorsi tre anni, alla sig.ra Offor viene nuovamente impedito di rinnovare i voti. Nel 2019, a seguito di un episodio violento seguito a molestie sessuali che aveva coinvolto un'altra suora nigeriana, si libera un posto in un altro monastero, dove la sig.ra Offor viene trasferita. Ben presto tuttavia le viene detto che non avrebbe potuto fare la professione solenne, a causa della decisione della Madre Superiora di non far più fare la professione alle suore nigeriane. Posta innanzi alla prospettiva di non poter emettere i voti solenni, a marzo 2019 la sig.ra Offor decide di lasciare il monastero. Alcuni mesi dopo il suo allontanamento, la stessa ha iniziato un percorso con operatrici specializzate in violenza di genere presso il Centro "Prendere il volo", gestito dall'associazione Differenza Donna ONG"(pag. 2 ricorso).

Ora, il Tribunale ha dato atto del motivo dell'espatrio (prosecuzione del percorso religioso in Europa) ed ha escluso la configurabilità di rischi prognostici al rientro nella zona di provenienza (Anambra State) prendendo in considerazione solo quelli legati alla condizione di religiosa della ricorrente.

Tuttavia il rischio in caso di rimpatrio non è stato prospettato dalla ricorrente in relazione a discriminazione legata al suo status di religiosa, dato che, anzi, ella ha allegato di essere stata rifiutata dall'ambiente religioso in Nigeria e per questo di essere fuggita in Italia.

Il rischio prognostico è stato, infatti, prospettato in relazione a discriminazione di genere in tesi dipendente: (a) dalla storia personale della richiedente, connotata dall'iniziale scelta di non sposarsi, ossia di intraprendere un percorso di vita opposto a quello che prende avvio, nel contesto di provenienza, con la pratica della MGF a cui ella era stata sottoposta in tenera età, e dalla successiva impossibilità di realizzare in Nigeria il suo progetto religioso; (b) dalla sua attuale condizione di donna non sposata e neppure monaca o suora, in quanto rifiutata dall'ambiente religioso del suo Paese.

Dunque, ribadita l'indubbia valenza della MGF quale indice di una grave disparità nei rapporti di forza e forma di violenza nei confronti delle donne, è rispetto alla suindicata storia personale e all'attuale condizione della richiedente che avrebbe dovuto svolgersi l'indagine del Giudice di merito, al fine di verificare la sussistenza del pericolo per la stessa di subire ulteriori trattamenti discriminatori di genere oppure trattamenti inumani e degradanti nel contesto socio-culturale caratterizzante il suo Paese, per mezzo dell'acquisizione di fonti aggiornate e precise sulla zona di provenienza, in relazione anche alla possibilità di ottenere adeguata protezione da parte della autorità locali.

In altre parole, il Tribunale avrebbe dovuto accertare se effettivamente la ricorrente, in ragione del suo vissuto e della sua attuale condizione, possa ritenersi appartenente ad un particolare gruppo sociale nei cui confronti siano di fatto attuati trattamenti discriminatori, diretti o indiretti, nel libero godimento e nell'esercizio dei diritti fondamentali, ai fini del riconoscimento del rifugio ai sensi dell'art. 7, lett. a) ed f), del d. l.gs. n. 251 del 2007, e ciò mediante l'esercizio dei poteri istruttori ufficiosi circa l'esistenza di disposizioni normative o di pratiche tollerate o non adeguatamente osteggiate nell'Anambra State di rilevanza nel caso concreto e nei termini precisati.

Sull'appartenenza di genere come concetto riferibile al particolare gruppo sociale la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che, seppur la definizione di rifugiato di cui agli artt. 1 A (2) della Convenzione di Ginevra del 1951 e 2 comma 1 lett. e) D.Lgs. 251 del 2007 non preveda espressamente l'appartenenza di genere tra le cause di persecuzione, una prima integrazione della disciplina sull'asilo in relazione al genere era stata fornita dalle Linee guida dell'UNHCR sulla persecuzione di genere nel contesto dell'articolo 1° (2) della Convenzione del 1951, con le quali si evidenziava la necessità di interpretare la disciplina dell'asilo anche in un'ottica di genere, che deve essere inteso come status di appartenenza sociale, economica e culturale, e non come grossolana differenziazione soltanto biologica e chimica tra sessi opposti (Cass. 16172/2021). Con la conseguenza che l'appartenenza di genere ben possa (ed anzi debba) essere considerata, in determinate condizioni, come riferibile "ad un particolare gruppo sociale", che può essere oggetto di persecuzioni già ai sensi dell'art. 1 A (2) della Convenzione di Ginevra.

In via gradata, il Tribunale avrebbe dovuto accertare se la ricorrente, sempre in ragione del suo vissuto e della sua attuale condizione, possa nuovamente subire nel proprio Stato un trattamento oggettivamente inumano e degradante, anche di tipo diverso da quello già patito, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale sussidiaria ex art. 14, lett. b), del D.Lgs. n. 251 del 2007, e ciò mediante l'esercizio dei poteri istruttori ufficiosi di cui si è detto.

3. La Corte ritiene di dover enunciare il seguente principio di diritto ex art.384 cod. proc. civ.:

"In tema di protezione internazionale, ove risulti che la ricorrente abbia subito mutilazioni genitali femminili, il pericolo per la richiedente di subire in caso di rimpatrio ulteriori trattamenti discriminatori di genere o trattamenti inumani e degradanti, pure di tipologia diversa da quelli già patiti, deve essere valutato anche con riguardo all'eventualità che ella possa subire tali trattamenti a causa del pregresso vissuto e delle peculiarità della sua storia personale e il rischio prognostico così individuato va accertato tramite le fonti di conoscenza sul contesto sociale e culturale di provenienza, in relazione anche alla possibilità di ottenere adeguata protezione da parte della autorità locali".

4. Alla stregua delle considerazioni che precedono, vanno accolti i motivi primo e secondo di ricorso, dichiarati assorbiti gli altri, il decreto impugnato va cassato nei limiti dei motivi accolti e la causa va rinviata al Tribunale di Roma, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie i motivi primo e secondo di ricorso; dichiara assorbiti gli altri; cassa il decreto impugnato nei limiti dei motivi accolti e rinvia la causa al Tribunale di Roma, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, lì 25 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2024.

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