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Impresa familiare: piena tutela anche al convivente di fatto

Corte di Cassazione, sez. Unite Civile, Ordinanza n.11661 del 04/05/2025

Anche il convivente di fatto può far parte dell’impresa familiare.

Lo hanno affermato le Sezioni Unite civili della Cassazione con l’ordinanza 4 maggio 2025, n. 11661, richiamando i principi sanciti dalla Corte costituzionale nella storica sentenza n. 148/2024.

La vicenda

Una donna, dopo anni di convivenza stabile con un uomo e di lavoro continuativo nell’azienda agricola di quest’ultimo, chiedeva il riconoscimento della sua partecipazione all’impresa familiare e la liquidazione della quota spettante. La Corte d’appello di Ancona, confermando il primo grado, rigettava la domanda poiché:

  • il convivente di fatto non era qualificabile come "familiare" ai sensi dell’art. 230-bis c.c.;

  • la convivente aveva intrattenuto un rapporto di lavoro subordinato con l’azienda;

  • risultava titolare di un altro impiego presso la Regione Lombardia;

  • la convivenza era cessata prima dell’introduzione della disciplina dell’impresa familiare per i conviventi (l. 76/2016).

La svolta in Cassazione

La convivente proponeva ricorso per cassazione. La Sezione Lavoro della Suprema Corte, con ordinanza interlocutoria n. 2121/2023, rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, sollevando dubbi di costituzionalità sull’esclusione del convivente di fatto dall’ambito di applicazione dell’art. 230-bis c.c.

Le Sezioni Unite, con ordinanza n. 1900/2024, sospendevano il giudizio e rimettevano la questione alla Corte costituzionale, rilevando che l’assenza di una tutela per il convivente di fatto che avesse prestato attività lavorativa continuativa nell’impresa si poneva in contrasto con:

  • gli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost.,

  • la Carta dei diritti fondamentali dell’UE,

  • la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in particolare agli articoli 8 e 12.

Il pronunciamento della Corte costituzionale

Con sentenza n. 148/2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale:

  • dell’art. 230-bis, terzo comma, c.c., nella parte in cui non includeva tra i "familiari" anche il convivente di fatto;

  • dell’art. 230-ter c.c., per aver previsto una tutela ridotta per il convivente rispetto a quella dei familiari.

La Consulta ha affermato che negare la tutela al convivente che contribuisce stabilmente all’attività economica viola il diritto al lavoro, alla giusta retribuzione e il principio di uguaglianza sostanziale.

La decisione delle Sezioni Unite

Alla luce della pronuncia della Consulta, le Sezioni Unite hanno accolto il ricorso della convivente, cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, per un nuovo esame.

Il giudice del rinvio dovrà accertare:

  • l’effettività e continuità dell’apporto lavorativo della convivente nell’impresa;

  • l’eventuale incidenza del contributo sulla produttività dell’azienda.

Un principio di portata generale

Con questa decisione, le Sezioni Unite sanciscono un principio di grande rilevanza sistemica: il convivente di fatto che abbia prestato un apporto effettivo e continuativo nell’impresa familiare deve essere riconosciuto e tutelato al pari del coniuge o dei parenti.

Si realizza così una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 230-bis c.c., che riflette il mutamento dei costumi e l’evoluzione giurisprudenziale e normativa, valorizzando la realtà sostanziale della vita familiare rispetto ai suoi soli aspetti formali.

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Cassazione civile, sez. un., ordinanza 04/05/2025 (ud. 11/03/2025) n. 11661

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d'Appello di Ancona confermava la decisione del Tribunale di Fermo, che aveva respinto la domanda proposta dalla sig.ra Ub.Ir. nei confronti dei figli-eredi del sig. Du.Er., volta ad accertare l'esistenza dell'impresa familiare relativa all'azienda agricola "Il Poggio del Belvedere di Du.Er." nel periodo dal 2004 al 28.11.2012, data del decesso del sig. Du.Er., nonché ad ottenere condanna dei coeredi del Du.Er. alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipe all'impresa.

La ricorrente aveva dedotto di aver convissuto con il sig. Du.Er. - già sposato con altra donna - sin dall'anno 2000 dopo aver intrapreso con lui, nel 1988, una relazione sentimentale.

La convivenza stabile, iniziata in località (Omissis), era poi proseguita a M ove la coppia si era trasferita nel 2008, avendo il Du.Er. acquistato un fondo rustico al quale erano via via susseguite altre acquisizioni e la costruzione di una cantina per la produzione del vino oltre che avviata un'attività di ricezione turistica.

La Ub.Ir. aveva, quindi, dedotto di aver prestato attività lavorativa in modo continuo nell'azienda del Du.Er. denominata "Il Poggio del Belvedere di Du.Er.", e ciò dal 2004 (anno di iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012 (anno di decesso del Du.Er.).

Il Tribunale aveva respinto la domanda rilevando che il riconoscimento della quota di partecipazione all'impresa familiare ex art. 230-bis cod. civ. presuppone la sussistenza di un rapporto di coniugio o di parentela o affinità a termini dell'art. 230-bis cod. civ. e ritenendo non applicabile detta disciplina alla convivenza.

2. Egualmente la Corte territoriale, per quanto qui rileva, riteneva che l'art. 230-bis cod. civ. non trovasse applicazione nei confronti del "convivente di fatto", non potendo quest'ultimo essere considerato "familiare" ai sensi del comma 3 dell'art. 230-bis cod. civ.

Evidenziava che, in ogni caso, emergevano plurime circostanze ostative alla ipotizzata partecipazione all'impresa familiare: - l'essere il sig. Du.Er. rimasto fino alla morte formalmente legato in matrimonio con Gr.Ma.; - l'essere stato stipulato, sia pure per un periodo più limitato rispetto a quello dedotto dalla ricorrente (dal 2004 al 2012), un contratto di lavoro subordinato tra la sig. Ub.Ir. e l'azienda, condizione escludente l'applicazione dell'art. 230-bis cod. civ., che espressamente prevede una residualità della disciplina dell'impresa familiare (comma 1: "Salvo che non sia configurabile un diverso rapporto..."); - l'essere risultata la sig.ra Ub.Ir. regolarmente assunta presso la Regione Lombardia.

Aggiungeva che non poteva trovare applicazione l'art. 230-ter cod. civ., essendo il rapporto di convivenza cessato nel 2012, ossia prima dell'entrata in vigore della legge n. 76/2016 che ha esteso ai conviventi la disciplina dell'impresa familiare.

3. Avverso tale sentenza Ub.Ir. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

4. Du.Cr., Du.So. e Du.Ma. hanno resistito con controricorso.

5. Il Collegio della Sezione Lavoro di questa Corte ha, quindi, emesso l'ordinanza interlocutoria n. 2121/2023, depositata in data 24 gennaio 2023, con cui ha disposto la trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

L'ordinanza, dopo aver ricordato l'orientamento di legittimità secondo il quale presupposto per l'applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l'esistenza di una famiglia legittima con la conseguenza che l'art. 230-bis cod. civ. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta "di fatto", trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica (così Cass., 29 novembre 2004, n. 22405), ha ritenuto che lo stesso fosse meritevole di una revisione alla luce sia degli interventi legislativi e/o per via giurisprudenziale realizzanti una "apertura" nei confronti della convivenza more uxorio.

Ha così richiamato la recente introduzione dell'art. 230-ter cod. civ., ad opera dell'art. 1, comma 46, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), che ha previsto per il convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, salvo che tra i conviventi non esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.

Ha, inoltre, richiamato le pronunce della Corte costituzionale che hanno attribuito rilevanza alla convivenza more uxorio nelle ipotesi in cui venga in considerazione la lesione di diritti fondamentali come il diritto sociale all'abitazione (sentenza n. 559 del 1986 e n. 404 del 1988) ovvero il diritto alla salute (sentenza n. 213 del 2016) nonché quelle che, nel settore penale, hanno affermato che può beneficiare della scriminante di cui all'art. 384, comma 1, cod. pen. anche il convivente more uxorio (sentenze n. 416 e n. 8 del 1996; ordinanza n. 121 del 2004; sentenza n. 140 del 2009).

Considerata, poi, l'impossibilità di applicare retroattivamente la disciplina del 2016 e dato atto dell'evoluzione che si è avuta nella società con sempre maggiore diffusione della convivenza more uxorio (di cui hanno tenuto conto sia il legislatore con la riforma del 2016 sia la Corte costituzionale) ha sottolineato che una esclusione del convivente che per lungo tempo abbia lavorato nell'impresa familiare dalla tutela di cui all'art. 230-bis cod. civ. si porrebbe in contrasto non solo con gli artt. 2 e 3 Cost. ma soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE.

Ha richiamato Cass. Pen., Sez. Un., 17 marzo 2021, n. 10381 che, in difformità rispetto ai precedenti di legittimità nel senso della insuscettibilità di una interpretazione estensiva o analogica, ha affermato che l'art. 384, comma primo, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi abbia commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente "more uxorio" da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore.

Ha evidenziato che in detta pronuncia il Giudice di legittimità ha precisato come la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di "vita familiare" ormai da tempo elaborata dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell'art. 8, par. 1, CEDU.

Ha sottolineato che la Corte EDU, pur avendo ricondotto la tutela dei vincoli affettivi discendenti dalla convivenza di fatto, ha tuttavia considerato legittima la limitazione di tale diritto (ad esempio, in ragione dell'esigenza di tutelare gli interessi connessi all'amministrazione della giustizia penale) riconoscendo altresì la possibilità di bilanciamenti differenziati per le coppie sposate e le convivenze di mero fatto, secondo la discrezionale valutazione del legislatore.

Ha ritenuto perciò indispensabile un intervento nomofilattico al fine di chiarire "se l'art. 230-bis, comma terzo, cod. civ. possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione del mutamento dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli artt. 2,3,4 e 35 Cost. sia all'art. 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità", questione "di massima di particolare importanza", da sottoporre alle Sezioni Unite.

6. Il Primo Presidente, in ragione della particolare importanza della questione di massima, ha assegnato la controversia a queste Sezioni unite.

7. Fissata l'udienza di pubblica discussione e discussa la causa all'udienza del 24.10.2023, con l'acquisizione delle conclusioni anche scritte del procuratore Generale (che ha chiesto rigettarsi il ricorso) questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 1900/2024, ha sospeso il giudizio e rinviato gli atti alla Corte costituzionale.

Ha premesso che nel caso in esame, sul presupposto della inapplicabilità ratione temporis al caso di specie dell'art. 230-ter cod. civ. e della impossibilità di un'applicazione estensiva dell'art. 230-bis cod. civ. (nel senso di estendere al convivente di fatto la medesima tutela prevista per il familiare), era stato del tutto pretermesso (verosimilmente proprio in ragione del condizionamento derivante dalla ratio decidendi costituita dall'impossibilità di qualificare la Ub.Ir. come familiare ai sensi dell'art. 230-bis cod. civ.) ogni accertamento in concreto circa l'effettività e la continuatività dell'apporto lavorativo della predetta nell'impresa familiare, apporto che si assume determinativo dell'accrescimento della produttività dell'impresa.

Ha valutato la non incidenza, ai fini della rilevanza, degli ulteriori elementi indicati dalla Corte territoriale (a) l'esistenza di un formale rapporto di coniugio del titolare dell'impresa; b) l'aver avuto, la ricorrente, un rapporto di lavoro subordinato, ancorché per un periodo limitato; c) l'avere in corso, la ricorrente, un rapporto di lavoro con la Regione Lombardia), dovendosi ricordare che l'art. 230-bis al comma 3 qualifica la partecipazione del convivente familiare quale "collaborazione" all'attività economica.

Ha quindi posto, ritenendola non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 230-bis cod. civ. nella parte in cui non include nel novero dei familiari anche il convivente di fatto per violazione degli artt. 2,3,4,35 e 36 Cost., nonché dell'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E., ed ancora, per il tramite dell'art. 117, comma 1 Cost., degli artt. 8 e 12CEDU. Ha, altresì, evidenziato che le prospettate censure di incostituzionalità si riverberavano, in termini di illegittimità derivata, anche sull'art. 230-ter cod. civ. che non ha riconosciuto al convivente di fatto la stessa tutela del coniuge/familiare ma una tutela differenziata ed inferiore (il che non rendeva percorribile, data l'insuperabilità della lettera dell'art. 230-bis cod. civ. e gli evidenziati rischi di distonia del sistema, la strada di una interpretazione della disposizione qui in esame conforme alla Costituzione ed alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea).

8. La Corte costituzionale, con sentenza n. 148 del 2 luglio 2024, depositata in data 25 luglio 2024, pubblicata in G.U. 31 luglio 2024 n. 31 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevedeva come familiare anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto, ciò per la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.), nonché per violazione dell'art. 3 Cost.; ha dichiarato, altresì, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11.3.1953 n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-ter codice civile.

9. È stato presentato ricorso in riassunzione da Ub.Ir. successivamente illustrato da memoria.

10. È stata fissata l'adunanza camerale con rituale invio dell'avviso alle parti costituite.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.

Sostiene che il rapporto di lavoro con la Regione Lombardia (iniziato nel 1989 e proseguito con contratto di lavoro al 100% fino al 31.12.2020, e poi, a partire dal 01.01.2012, con contratto part-time verticale al 50%) non abbia influito sulla sua partecipazione all'azienda, profusa sia nell'intrattenimento di rapporti esterni con i vari enti (Comune, Provincia, Regione, Asur ecc.), clienti, fornitori, professionisti e nell'organizzazione di eventi promozionali e nella creazione e sviluppo dell'azienda sotto il profilo della costituzione della rete commerciale, sia nella diretta attività nei campi (nei periodi di raccolta delle uve e delle olive) insieme con i braccianti che in precedenza aveva assunto e selezionato.

Assume, inoltre, che il rapporto di lavoro subordinato intrapreso per brevi periodi con l'azienda agricola del Du.Er. sia stato simulato ai soli fini assicurativi e, pertanto, lo stesso dovrebbe essere letto nella prospettiva delle condizioni familiari in cui si è svolto.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 230-bis cod. civ., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.

Deduce che la Corte territoriale ha statuito erroneamente laddove non ha considerato le mutate sensibilità sociali in materia di convivenza, oltre che le aperture della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzionale verso il convivente more uxorio; in tal senso, secondo la ricorrente, la disciplina dell'impresa familiare dovrebbe trovare applicazione anche in mancanza di una norma rivolta espressamente al convivente, in base ad una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 230-bis cod. civ.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 230-bis e 230-ter cod. civ. e dell'art. 11 delle Preleggi.

Sostiene che, in ambito civile, il principio di irretroattività non è presidiato da una norma costituzionale e, pertanto, può essere derogato purché ciò risponda a criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia.

4. Alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 148 del 2024 il ricorso, in tutti i motivi in cui è articolato, deve essere accolto.

Le censure ruotano su una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 230-bis cod. civ., anche in relazione all'art. 230-ter cod. civ., e pongono in rilievo la circostanza che la Corte territoriale, sul presupposto della inapplicabilità ratione temporis al caso di specie dell'art. 230-ter cod. civ. e della impossibilità di un'applicazione estensiva dell'art. 230-bis cod. civ. (nel senso di estendere al convivente di fatto la medesima tutela prevista per il familiare), ha del tutto pretermesso (verosimilmente proprio in ragione del condizionamento derivante dalla ratio decidendi costituita dall'impossibilità di qualificare la Ub.Ir. come familiare ai sensi dell'art. 230-bis cod. civ.) ogni accertamento in concreto circa l'effettività e la continuatività dell'apporto lavorativo della predetta nell'impresa familiare, apporto che si assume determinativo dell'accrescimento della produttività dell'impresa.

È evidente che l'intera ratio decidendi va rivista alla luce del pronunciamento della Corte costituzionale.

5. Da tanto consegue che il ricorso va accolto con cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa alla dinanzi alla Corte d'Appello di Ancona che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame tenendo conto della pronuncia del Giudice delle leggi interpretativa additiva dell'art. 230-bis terzo comma cod. civ. ed in via conseguenziale demolitoria dell'art. 230-ter cod. civ.

6. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per il regolamento delle spese, alla Corte d'Appello di Ancona, in diversa composizione.

Così deciso, in Roma, l'11 marzo 2025.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2025.

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