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Spese di giustizia: gli effetti della clausola “o quella maggiore o minore ritenuta di giustizia”

Corte di Cassazione, sez. Unite Civile, Sentenza n.20805 del 23/07/2025

Come si determina il valore della causa, ai fini della liquidazione delle spese, quando l'attore chiede una somma precisa ma aggiunge la formula "o quella maggiore o minore ritenuta di giustizia"?

La risposta arriva dalle Sezioni Unite civili con la sentenza n. 20805 del 23 luglio 2025, che risolve un contrasto giurisprudenziale.

La vicenda

Il caso nasce da un giudizio promosso da TOD'S S.p.A. e De.Va. per danni da diffamazione, con richiesta di risarcimento per complessivi 36 milioni di euro, accompagnata dalla clausola suddetta. La domanda è stata rigettata integralmente e la Corte d'appello ha liquidato le spese come se si trattasse di causa di valore indeterminabile. Il Codacons, parte vittoriosa, ha impugnato la decisione.

I principi in materia

In base all'art. 10 c.p.c., il valore della causa si determina dalla domanda. Per le cause in cui si chiede una somma, l'art. 14 c.p.c. stabilisce che conta la somma indicata.

Il D.M. n. 55/2014, all'art. 5, distingue tra:

  • valore della causa a carico del soccombente: in base alla somma attribuita (criterio del "decisum")

  • valore a carico del cliente: in base alla somma domandata (criterio del "disputatum")

Tuttavia, in caso di rigetto integrale della domanda, il valore va stabilito sulla somma domandata, altrimenti risulterebbe pari a zero. Questo principio è consolidato (Cass. n. 28417/2018; n. 22462/2019; n. 10984/2021).

Il nodo giurisprudenziale riguarda il significato della clausola di chiusura "o quella maggiore o minore ritenuta di giustizia": si tratta di clausola di stile (quindi irrilevante) o rende effettivamente indeterminabile il valore della causa?

La decisione della Corte

Le Sezioni Unite ritengono che non si possa automaticamente attribuire valore indeterminabile alla causa solo per la presenza della formula flessibile.

La Corte distingue due situazioni:

  • se la somma indicata è inferiore ai massimali per le cause di valore indeterminabile, si può considerare la clausola e applicare lo scaglione più favorevole;

  • se invece la somma è superiore, si deve applicare lo scaglione corrispondente alla somma specificata.

Questo perché l'avvocato della parte convenuta struttura la difesa sulla base di quella richiesta. Inoltre, permettere sempre l'uso dello scaglione più basso favorirebbe comportamenti opportunistici, riducendo artificiosamente il valore della causa per limitare le spese.

La Corte valorizza anche l'art. 1367 c.c., secondo cui le dichiarazioni vanno interpretate in modo da dare loro effetto, ma sottolinea che la clausola generica non può annullare la richiesta specifica.

Infine, il principio è coerente anche con il versamento del contributo unificato, che deve basarsi sulla somma richiesta, nonostante la presenza della formula di chiusura.

Conclusione

La clausola flessibile "o quella maggiore o minore ritenuta di giustizia" non trasforma automaticamente la causa in una di valore indeterminabile.

Se la somma chiesta è chiara e supera i limiti dello scaglione per cause di valore indeterminabile, le spese si liquidano secondo il valore richiesto.

Domanda di pagamento di una somma determinata di denaro, istanza di condanna alternativa al «diverso importo che dovesse risultare dovuto in corso di causa», rigetto integrale della domanda, liquidazione delle spese di lite

In una causa relativa a somma di denaro (nella specie, a titolo di risarcimento di danni), qualora la domanda attrice, che contempli la richiesta di pagamento di un determinato importo, contenga anche la generica istanza “ovvero nel diverso importo che dovesse risultare dovuto in corso di causa, e/o comunque nel diverso importo che dovesse essere liquidato dal giudice con valutazione equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c.” ( o similare), in caso di integrale rigetto della domanda, la liquidazione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa deve avvenire sulla base dello scaglione corrispondente alla somma specificamente indicata dall’attore, ove lo stesso attribuisca compensi superiori rispetto a quelli accordati per le cause di valore indeterminabile.

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Cassazione civile, sez. un., sentenza 23/07/2025 (ud. 10/06/2025) n. 20805

FATTI DI CAUSA

1. TOD'S Spa e De.Va. convennero in giudizio dinanzi al Tribunale di Fermo il ricorrente, lamentando che la diffusione sul sito internet del convenuto di due comunicati stampa, aventi ad oggetto un'attività di sponsorizzazione dei lavori di restauro del Colosseo, aveva contenuto diffamatorio. Chiesero la condanna al risarcimento di tutti i danni patiti e patendi, da quantificarsi, per TOD'S Spa, nella misura di Euro 30.000.000,00, e per De.Va., nella misura di Euro 6.000.000,00, ovvero per entrambi "nel diverso importo che dovesse risultare dovuto in corso di causa, e/o comunque nel diverso importo che dovesse essere liquidato dal giudice con valutazione equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c., il tutto oltre interessi e rivalutazione monetaria". Il Tribunale pervenne al rigetto della domanda e la Corte d'Appello di Ancona, con la sentenza n. 211 del 21 febbraio 2022, confermò tale rigetto.

Per quanto rileva in questa sede, il Codacons propose appello incidentale avverso il capo relativo alle spese di lite, lamentando che la relativa liquidazione, pur a fronte di una domanda dell'importo di 36 milioni di euro, fosse avvenuta in base allo scaglione previsto per le cause di valore indeterminabile. La Corte d'Appello rigettò tale censura, richiamando l'orientamento più recente di questa Corte, secondo cui, quando la domanda attorea sia stata rigettata, il valore della causa va determinato in base al "disputatum" e non al "decisum". La presenza di una clausola che affianchi l'indicazione di una somma determinata e richieda di procedere alla liquidazione di quella maggiore o minore somma ritenuta di giustizia comporta che la causa debba essere ritenuta di valore indeterminabile, posto che la clausola, alla quale deve annettersi comunque un'efficacia, esprime la volontà della parte di rimettere al giudice la quantificazione del dovuto, avendo fornito solo un valore orientativo.

Confermò, perciò, il capo delle spese della sentenza del Tribunale e compensò per un quarto le spese del giudizio di appello, ponendo la residua parte a carico degli attori e provvedendo alla liquidazione sempre in base allo scaglione previsto per le cause di valore indeterminabile.

Avverso la sentenza della Corte d'Appello è stato proposto ricorso per cassazione dal Codacons sulla base di un motivo. Gli intimati hanno resistito con controricorso. Il ricorrente ha depositato istanza di rimessione alle Sezioni Unite ex art. 376 c.p.c., in relazione alla questione di diritto posta dal ricorso, avendo anche il Pubblico Ministero, nelle conclusioni scritte depositate in vista dell'adunanza camerale nella quale la causa era stata fissata, sollecitato la rimessione alle Sezioni Unite.

Il Presidente Aggiunto, con decreto del 25 ottobre 2024, ha disposto la rimessione della causa alle Sezioni Unite ai fini della risoluzione del contrasto venutosi a creare tra varie pronunce delle Sezioni semplici.

Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte e le parti hanno depositato memorie in prossimità dell'udienza.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l'unico motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 10 e 14 c.p.c. nonché degli artt. 5 e 6 del DM n. 55/2014. Si lamenta che i giudici di appello, sebbene la domanda originaria degli attori prevedesse la quantificazione del danno richiesto nell'importo complessivo di Euro 36.000.000,00, abbiano ritenuto di dover liquidare le spese di lite in danno della parte soccombente in base allo scaglione previsto per le cause di valore indeterminabile, avendo gli attori inserito nelle conclusioni il richiamo al potere del giudice di procedere alla quantificazione del danno nella minore o maggiore somma ritenuta di giustizia. La sentenza impugnata, pur partendo dalla corretta premessa per la quale, in caso di rigetto della domanda, occorre far riferimento al criterio del "disputatum", ha però aderito al principio affermato da Cass. n. 10984/2021, secondo cui la presenza della detta clausola rende di per sé la causa di valore indeterminabile. Il ricorrente assume che trattasi di una conclusione che contrasta con la precedente giurisprudenza di questa Corte ed è profondamente iniqua, in quanto, anche a fronte di richieste risarcitorie di importi esorbitanti, l'attore potrebbe sottrarsi alle conseguenze pregiudizievoli della condanna alle spese di lite, apponendo alla richiesta di liquidazione del danno la detta formula, che imporrebbe al giudice di doversi attenere allo scaglione previsto per le cause di valore indeterminabile, con un evidente contenimento della quantificazione delle spese di lite rispetto a quanto previsto ove si fosse fatto riferimento alla somma specificamente indicata.

2. In via preliminare deve essere disattesa l'eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa dei controricorrenti. Ad avviso della Corte, il mezzo di impugnazione proposto soddisfa ampiamente i requisiti di forma e di sostanza dettati dall'art. 366 c.p.c., e si deve ritenere che la critica non investa l'interpretazione della domanda, ma ponga una questione

di diritto, correlata alla corretta interpretazione delle norme in materia di liquidazione delle spese in favore della parte vittoriosa.

3. La controversia viene alle Sezioni Unite a seguito del decreto del Presidente Aggiunto del 25 ottobre 2024, che, su sollecitazione della parte ricorrente, ha ritenuto opportuna la trattazione in questa sede del ricorso, ai fini della risoluzione del contrasto tra diverse pronunce della Corte.

Il provvedimento ha segnalato che il Codacons si duole della qualificazione come indeterminabile del valore della causa, ai fini della liquidazione delle spese processuali, in ragione della formula usata dalle parti richiedenti il risarcimento del danno, ancorché in citazione fosse stata quantificata puntualmente la somma risarcitoria e fosse stata utilizzata solo una formula di stile relativa al maggiore o minore danno riconoscibile dall'organo giudicante.

Il decreto ha segnalato il contrasto tra la pronuncia di Cass. Sez. 1, n. 10984 del 26.4.2021 e quella di Cass. Sez. 3, n. 35966 del 27.12.2023, ed ha evidenziato come la risoluzione del contrasto sia necessaria in ragione della rilevanza numerica dei ricorsi concernenti la quantificazione dell'onorario di avvocato e la individuazione del corretto scaglione tariffario di riferimento, nonché in ragione delle ricadute anche di carattere fiscale sul pagamento del contributo unificato e sul concetto di indeterminabilità ai fini della competenza per valore.

4. La questione di diritto che il ricorso pone all'attenzione della Corte può sintetizzarsi nell'individuazione del corretto scaglione sulla scorta del quale procedere alla liquidazione delle spese in favore della parte vittoriosa, nel caso in cui la domanda di

condanna al pagamento di una somma di denaro avanzata dall'attore sia stata integralmente rigettata, vi sia stata l'indicazione di una specifica somma di denaro, come oggetto della richiesta di condanna, ma vi sia stata la precisazione da parte dello stesso attore della richiesta "di quella maggiore o minore somma, ritenuta di giustizia" (o clausola di analogo tenore).

Il contrasto, in particolare, si acuisce nella peculiare ipotesi in cui la somma specificamente indicata porti all'applicazione di uno scaglione tariffario i cui importi siano superiori a quelli dettati per le cause di valore indeterminabile, in quanto, secondo l'orientamento cui hanno aderito i giudici di merito, la apposizione della detta clausola, lungi dall'essere di mero stile, impone di ritenere la causa di valore indeterminabile. L'opposto orientamento, invece, reputa che l'indicazione specifica offerta dalla parte non possa essere pretermessa e che, quindi, occorra far applicazione dello scaglione più elevato correlato alla richiesta specifica.

5. L'art. 4 del D.M. n. 55 del 2014, prevede espressamente, infatti, che "Ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività prestata, dell'importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell'affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate. In ordine alla difficoltà dell'affare si tiene particolare conto dei contrasti giurisprudenziali, e della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti. Il

giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle allegate, che, in applicazione dei parametri generali, possono essere aumentati ((fino al 50 per cento)), ovvero possono essere diminuiti in ogni caso non oltre il 50 per cento".

L'art. 5 dello stesso d.m., dettato ai fini della determinazione del valore della controversia, prevede, inoltre, che "Nella liquidazione dei compensi a carico del soccombente, il valore della causa -salvo quanto diversamente disposto dal presente comma - è determinato a norma del Codice di procedura civile. Nei giudizi per azioni surrogatorie e revocatone, si ha riguardo all'entità economica della ragione di credito alla cui tutela l'azione è diretta, nei giudizi di divisione alla quota o ai supplementi di quota o all'entità dei conguagli in contestazione. Quando nei giudizi di divisione la controversia interessa anche la massa da dividere, si ha riguardo a quest'ultima. Nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni, si ha riguardo di norma alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata. In ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del Codice di procedura civile o alla legislazione speciale.

2. Nella liquidazione dei compensi a carico del cliente si ha riguardo al valore corrispondente all'entità della domanda. Si ha riguardo al valore effettivo della controversia quando risulta manifestamente diverso da quello presunto anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti. 3. Nelle cause davanti agli organi di giustizia, nella liquidazione a carico del cliente si ha riguardo all'entità economica dell'interesse sostanziale che il cliente intende perseguire; nella liquidazione a carico del soccombente si ha riguardo all'entità economica dell'interesse sostanziale che riceve tutela attraverso la decisione. In relazione alle controversie in materia di pubblici contratti, l'interesse sostanziale perseguito dal cliente privato è rapportato all'utile effettivo o ai profitti attesi dal soggetto aggiudicatario o dal soggetto escluso. L'utile effettivo e i profitti attesi si intendono di regola non inferiori al 10 per cento del valore dell'appalto, salvo che non siano ricavabili dagli atti di gara. 4. Nelle cause davanti agli organi di giustizia tributaria il valore della controversia è determinato in conformità all'importo delle imposte, tasse, contributi e relativi accessori oggetto di contestazione, con il limite di un quinquennio in caso di oneri poliennali. 5. Qualora il valore effettivo della controversia non risulti determinabile mediante l'applicazione dei criteri sopra enunciati, la stessa si considererà di valore indeterminabile. 6. Le cause di valore indeterminabile si considerano (...) a questi fini di valore non inferiore a Euro 26.000,00 e non superiore a Euro 260.000,00, tenuto conto dell'oggetto e della complessità della controversia. Qualora la causa di valore indeterminabile risulti di particolare importanza per lo specifico oggetto, il numero e la complessità delle questioni giuridiche trattate, e la rilevanza degli effetti ovvero dei risultati utili, anche di carattere non patrimoniale, il suo valore si considera (...) a questi fini entro lo scaglione fino a Euro 520.000,00".

Le norme citate, che appaiono sostanzialmente in linea di continuità con le previsioni tariffarie previgenti, pongono in tal modo la regola secondo cui nei rapporti tra difensore e cliente si

tiene conto del "disputatum", e cioè del valore della domanda originaria (ma con la possibilità di adeguare il valore a quello effettivo, qualora esso risulti dalla liquidazione in una misura sensibilmente diversa da quella oggetto della domanda; cfr. ex multis Cass. n. 28885/2023), mentre nei rapporti con il soccombente si ha riguardo al "decisum" e cioè, nei giudizi aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, alla somma attribuita alla parte vincitrice.

Il richiamo alle norme del codice di procedura civile impone ex art. 10 c.p.c. di dover far riferimento, in materia di cause relative a somme di denaro, a quanto previsto dall'art. 14 co. 1, c.p.c. che prevede che il valore della causa si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato dall'attore (cd. disputatum).

6. Le Sezioni Unite di questa Corte sono in passato intervenute sul tema affermando (Cass. S.U. n. 19014/2007) che ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia va fissato - in armonia con il principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell'opera professionale effettivamente prestata, quale desumibile dall'interpretazione sistematica dell'art. 6, primo e secondo comma, della Tariffa per le prestazioni giudiziali in materia civile, amministrativa e tributaria, contenuta nella delibera del Consiglio nazionale forense del 12 giugno 1993, approvata con D.M. 5 ottobre 1994, n. 585 del Ministro della giustizia, avente natura subprimaria regolamentare e quindi soggetta al sindacato di legittimità ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. - sulla base del criterio del "disputatum" (ossia di quanto richiesto nell'atto introduttivo del giudizio ovvero nell'atto di impugnazione parziale della sentenza), tenendo però conto che, in caso di accoglimento parziale della domanda ovvero dell'impugnazione, il giudice deve considerare il contenuto effettivo della decisione (criterio del "decisum"), salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio. In questo caso il giudice, richiestone dalla parte interessata, terrà conto non di meno del "disputatum", ove riconosca la fondatezza dell'intera pretesa. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, inoltre, precisato che, ove il giudizio prosegua in un grado di impugnazione soltanto per la determinazione del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il differenziale tra la somma attribuita dalla sentenza impugnata e quella ritenuta corretta secondo l'atto di impugnazione costituisce il "disputatum" della controversia nel grado e sulla base di tale criterio, integrato parimenti dal criterio del "decisum" (e cioè del contenuto effettivo della decisione assunta dal giudice), vanno determinate le ulteriori spese di lite riferite all'attività difensiva svolta nel grado (conf., da ultimo, Cass. Sez. 3, 07/11/2023, n. 30999; Cass. n. 35195/2022; Cass. n. 29420/2019).

Il precedente citato, però, non si occupa specificamente dell'ipotesi in cui la domanda di pagamento sia stata integralmente rigettata. Costituisce un punto di partenza comune anche ai vari orientamenti contrapposti la conclusione per cui in questo caso non è dato ricorrere, anche nei confronti del soccombente, al criterio del decisum ma deve essere recuperato quello del disputatum.

Anche Cass. n. 10984/2021 in motivazione sottolinea che, per questa situazione, "si debba tenere conto della somma di cui alla domanda, allorché essa sia stata respinta, per la ragione sottesa secondo cui - ove si seguisse, alla lettera, il criterio del decisum previsto dall'art. 5 cit. - in tali cause il valore sarebbe matematicamente pari a zero, con conseguente mancata liquidazione di un compenso.

La regola tratta da tale precedente, invero, è nel senso che "In caso di rigetto della domanda, nei giudizi per pagamento di somme o risarcimento di danni, il valore della controversia, ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato a carico dell'attore soccombente, è quello corrispondente alla somma da quest'ultimo domandata, dovendosi seguire soltanto il criterio del disputatum, senza che trovi applicazione il correttivo del decisum", onde il valore della controversia è quello corrispondente alla somma domandata dall'attore (Cass. 7 novembre 2018, n. 28417; Cass. 30 novembre 2011, n. 25553; Cass. 11 marzo 2006, n. 5381; Cass. 15 luglio 2004, n. 13113; in tal senso, anche Cass. 9 settembre 2019, n. 22462)." Le Sezioni Unite ritengono che debba darsi continuità a tale principio. Ad opinare diversamente, si esporrebbe il sistema alla soluzione paradossale per la quale, in ogni caso di rigetto della domanda, il difensore della parte vittoriosa non avrebbe diritto alla liquidazione del compenso, ovvero la stessa dovrebbe avvenire sulla base dello scaglione minimo, e ciò nonostante l'esito del giudizio sia ricollegabile al fruttuoso svolgimento dell'attività difensiva ed all'impegno professionale speso, con la evidente frustrazione del diritto all'adeguatezza del compenso rispetto all'importanza ed alla rilevanza dell'attività svolta.

Né deve trascurarsi che in tal modo, operando nei rapporti interni tra cliente e difensore il criterio del disputatum, il secondo potrebbe pretendere la liquidazione dei compensi ragguagliati al valore della domanda, scaricando in maniera determinante sul cliente il peso economico della controversia, quanto al profilo relativo ai costi della difesa, senza poi possibilità di recupero nei confronti del soccombente, per il quale resterebbe vincolante la liquidazione operata nel provvedimento che abbia definito il giudizio.

Va pertanto ribadito che, in caso di rigetto della domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro, la liquidazione delle spese in danno della parte soccombente deve avvenire sulla base del cd. disputatum (v. Cass., 31/5/2021, n. 15106; Cass., 26/4/2021, n. 10984; Cass., 9/9/2019, n. 22462; Cass. n. 15857/2019; Cass., 7/11/2018, n. 28417; Cass. n. 2407/1998).

7. Parte della dottrina ritiene che fra le cause di valore indeterminabile non potrebbero annoverarsi tutte quelle nelle quali sia solo il valore economico della domanda ad essere incerto o non immediatamente percettibile, così che andrebbero ritenute di valore indeterminabile solo quelle domande aventi ad oggetto o diritti non suscettibili di valutazione pecuniaria; perciò in tutti i | casi in cui il quantum sia suscettibile alla fine di essere determinato dal giudice, la controversia dovrebbe essere sempre ritenuta di valore determinato.

Questa tesi è stata anche fatta propria da alcuni precedenti di questa Corte (Cass. n. 1499/2018), nei quali si è sostenuto che per domande di valore indeterminabile, con applicazione del conseguente scaglione tariffario, deve intendersi la domanda il cui valore non può essere determinato, non anche quella di valore indeterminato e da accertarsi nel corso dell'istruttoria, il cui ammontare può essere fissato fino al momento della precisazione delle conclusioni (Cass. n. 3372/2007). Tuttavia, non mancano altri precedenti che invece affermano che (cfr. Cass. n. 14586/2005) la determinazione del valore della causa, anche ai fini dell'individuazione dello scaglione tariffario applicabile, va effettuata a norma del codice di procedura civile, con la conseguenza che, in mancanza di concreti ed attendibili elementi per la stima precostituiti e disponibili fin dall'introduzione del giudizio, deve ritenersi di valore indeterminabile la domanda di risarcimento, nella quale gli elementi di valutazione del danno, del quale si chiede il ristoro, costituiscano l'oggetto, o uno degli oggetti, dell'accertamento e della quantificazione rimessi al giudice (in termini in parte analoghi, e cioè circa la necessità che la causa possa essere reputata di valore determinato solo all'esito delle indagini commesse al giudice, si veda Cass. n. 25553/2011, secondo cui lo scaglione tariffario relativo alle cause di valore indeterminabile è applicabile anche nel caso in cui questo valore, da accertarsi in corso di causa, sia rimasto non determinato in conseguenza dell'accoglimento di un'eccezione preliminare di merito, quale l'eccezione di prescrizione).

Tuttavia, ai fini che rilevano per la decisione della controversia, e soprattutto nei giudizi risarcitori, ove la domanda sia stata rigettata, il giudice di norma non si pone il problema della quantificazione del danno, sicché l'individuazione dello scaglione resta in primo luogo correlato alla quantificazione della domanda che l'attore abbia fatto nell'atto introduttivo del giudizio (o nei limiti della sua successiva specificazione nel rispetto delle preclusioni).

8. Il contrasto che ha determinato la rimessione della controversia a queste Sezioni Unite è però sorto nell'ipotesi in cui la determinazione del quantum operata dall'attore in termini specifici sia accompagnata dall'invito al giudice a riconoscere "quella maggiore o minore somma ritenuta di giustizia" (ovvero clausola di analogo tenore), occorrendo verificare se ed in che termini tale clausola possa incidere sul valore della controversia ai fini del disputatum.

Autorevole dottrina assume che a siffatta clausola non potrebbe annettersi alcuna efficacia, occorrendo dare sempre prevalenza alla individuazione dell'ammontare della richiesta formulata in termini espressi dalla parte, ma segnala altresì come la giurisprudenza di questa Corte non abbia assunto posizioni univoche in ordine alla portata effettuale della detta clausola. Si tratta, nello specifico, di verificare se la stessa abbia una valenza di mera clausola di stile, e come tale priva di sostanziale efficacia, ovvero se le si possa attribuire una sua utilità. Il precedente costituito da Cass. n. 7255 del 30.03.2011 ha espressamente affermato che "In una causa relativa a somma di denaro (nella specie, a titolo di risarcimento di danni), qualora la domanda attrice, dopo la richiesta di pagamento di un determinato importo, contenga anche la generica istanza "per la somma maggiore o minore che sarà accertata e ritenuta più giusta ed equa", il valore della domanda medesima, ai fini della competenza, va fissato con riferimento all'importo specificato e non può essere presunto di ammontare pari al limite massimo della competenza del giudice adito, ove risulti, in relazione ai fatti esposti dall'attore ed alle prove offerte, che detta istanza generica costituisca una mera formula di stile e non una concreta ed espressa riserva per il conseguimento dell'eventuale maggior somma che possa risultare dovuta all'esito dell'istruttoria", in motivazione Cass. n. 505/1976 e Cass. n. 1744/1973 che hanno optato per il carattere curiale della formula in esame e, quindi, per la sua sostanziale inidoneità ad influire sul valore della causa. In linea di continuità si pone altresì Cass. n. 16318/2011 che ha affermato che "In una causa nella quale l'attore indica con precisione l'ammontare del suo credito e chiede che quell'ammontare gli sia attribuito dal giudice, la formula che nel gergo forense si suole aggiungere "o quell'altra maggiore o minore somma che risulterà in corso di causa" ha natura di un clausola di stile ed è inidonea ad influire sulla determinazione della competenza per valore, sicché quest'ultima resta delimitata dalla somma specificata, non potendo la controversia essere considerata di valore indeterminabile".

In senso difforme si colloca una diversa serie di precedenti che hanno invece reputato che (cfr. Cass. n. 12724/2016) la formula "somma maggiore o minore ritenuta dovuta" o altra equivalente, che accompagna le conclusioni con cui una parte chiede la

condanna al pagamento di un certo importo, non costituisce una clausola meramente di stile, quando vi sia una ragionevole incertezza sull'ammontare del danno effettivamente da liquidarsi, specificando però che tale principio non si applica se, all'esito dell'istruttoria, sia risultata una somma maggiore di quella originariamente richiesta e la parte si sia limitata a richiamare le conclusioni rassegnate con l'atto introduttivo e la formula ivi riprodotta. L'omessa indicazione del maggiore importo accertato nel giudizio evidenzia, infatti, la natura meramente di stile dell'espressione utilizzata, così che la sua effettività appare oggetto di una valutazione ex post, e cioè rimessa all'espressa volontà della parte di avvalersi della riserva formulata, ma solo ove l'ammontare del danno emerso all'esito dell'istruttoria si riveli superiore rispetto alla richiesta specifica e di tale incremento la parte intenda avvalersi (in senso conforme Cass. n. 4727/1984; Cass. n. 6350/2010; Cass. n. 2641/2006; Cass. n. 22330/2017). La ratio sottesa all'attribuzione di rilievo di tale clausola risiede nella considerazione che spesso l'attore non è in grado di precisare puntualmente l'entità della domanda, salvo che non si tratti di una somma di denaro in senso stretto. Per tale motivo, fornisce una indicazione al giudice, senza privarsi, tuttavia, della possibilità di ottenere, una somma maggiore, ove emerga dall'istruttoria o da valutazioni dello stesso giudice, omettendo di vincolarlo alla propria richiesta iniziale.

Una netta presa di posizione a favore dell'impossibilità di attribuire alla formula in esame il valore di mera clausola di stile è stata assunta da Cass. n. 10984/2021, che ha peraltro ispirato anche la sentenza oggi oggetto di impugnazione.

La massima tratta dalla sentenza recita che: "Ai fini della determinazione dello scaglione degli onorari di avvocato per la liquidazione delle spese di lite a carico della parte la cui domanda di pagamento di somme o di risarcimento del danno sia stata rigettata, il valore della causa, che va determinato in base al "disputatum", deve essere considerato indeterminabile quando, pur essendo stata richiesta la condanna di controparte al pagamento di una somma specifica, vi si aggiunga l'espressione "o di quella maggiore o minore che si riterrà di giustizia" o espressioni equivalenti, poiché, ai sensi dell'art. 1367 c.c., applicabile anche in materia di interpretazione degli atti processuali di parte, non può ritenersi, "a priori" che tale espressione sia solo una clausola di stile senza effetti, dovendosi, al contrario, presumere che in tal modo l'attore abbia voluto indicare solo un valore orientativo della pretesa, rimettendone al successivo accertamento giudiziale la quantificazione". Pur partendo dal dato, che si è visto essere pacifico, per cui, in caso di rigetto della domanda di pagamento di una somma di denaro, occorre guardare al valore della domanda rigettata, la pronuncia sottolinea che, quando l'attore integra e completa una richiesta, specificamente quantificata nel suo ammontare con l'indicazione di una somma determinata, con una ulteriore sollecitazione diretta al giudice, finalizzata a ricevere il dovuto in quella somma maggiore o minore che verrà determinata in corso di causa, o ritenuta di giustizia, questa seconda indicazione deve interpretarsi in senso sostanziale. Poiché la formula in questione esplicita la ragionevole incertezza della parte sull'ammontare del danno effettivamente da liquidarsi ed ha lo scopo di consentire al giudice di provvedere alla liquidazione come risulterà corretto, senza essere vincolato all'ammontare della somma determinata che è stata indicata nelle conclusioni della parte, la stessa non è riconducibile ad una clausola di stile. Si richiama allo scopo la regola interpretativa, per la quale, ai sensi dell'art. 1367 c.c., "prima di giudicare priva di effetti una locuzione utilizzata dal dichiarante è necessario che essa debba reputarsi con certezza utilizzata senza reale intenzione, al contrario dovendovi ricollegare qualche effetto, piuttosto che nessuno", regola suscettibile di trovare applicazione anche agli atti processuali. L'utilizzo di detta formula aperta evidenzia una "cautela dell'attore, il quale, altrimenti, da un lato potrebbe avere errato in eccesso nella indicazione della pretesa, e, dall'altro lato, potrebbe aver errato per difetto, con il rischio così di non vedere riconosciute le maggiori somme spettanti, come accertate solo nel corso del processo.

In definitiva la "richiesta alternativa si risolve in una mancanza di indicazione della somma domandata, con la conseguenza, nel caso di liquidazione delle spese processuali, della qualificazione della pretesa come di valore indeterminabile". All'orientamento espresso da Cass. n. 10984/2021 hanno aderito, oltre che parte della giurisprudenza di merito, anche alcune successive pronunce di questa Corte (cfr. Cass. n. 11213/2022; Cass. n. 32443/2022; Cass. n. 227/2024; Cass. n. 23322/2024). Si è posta in contrasto invece Cass. n. 35966/2023 che ha affermato "...la considerazione che, laddove la parte precisi la sua domanda con la richiesta di una determinata somma, anche laddove aggiunga contestualmente il riferimento ad una "somma maggiore o minore ritenuta di giustizia", deve dirsi certamente determinato il valore del disputatum, almeno nel suo importo minimo, in quanto la somma "eventualmente minore ritenuta di giustizia" può costituire solo una domanda subordinata: come dimostra il fatto che, in una situazione del genere, laddove intervenisse una condanna per importo inferiore a quello minimo richiesto espressamente dalla parte, di certo non potrebbe ritenersi inammissibile l'appello volto ad ottenere il riconoscimento del maggiore importo che era espressamente stato domandato".

9. Presenta affinità con il tema oggetto della presente decisione, quello relativo alla natura determinata o meno della domanda di liquidazione dei compensi avanzata dal professionista nel caso in cui ad una domanda di valore determinato (per essere stata specificamente indicata la somma richiesta) si affianchi una domanda invece di valore indeterminato.

Cass. n. 16318/2011, già citata, pur avendo affermato che in una causa nella quale l'attore indica con precisione l'ammontare del suo credito e chiede che quell'ammontare gli sia attribuito dal giudice, la formula "o quell'altra maggiore o minore somma che risulterà in corso di causa" ha natura di clausola di stile ed è inidonea ad influire sulla determinazione della competenza per valore, sicché quest'ultima resta delimitata dalla somma specificata, ebbe però anche ad esaminare la diversa questione della proposizione di più domande, alcune di valore indeterminabile, ed una di risarcimento dei danni, di valore determinato, per concludere nel senso che la causa andava complessivamente ritenuta di valore indeterminabile.

La successiva Cass. n. 4187/2017 ha però inteso specificare tale affermazione, evidenziando che la regola sopra esposta trova applicazione solo nel caso in cui l'applicazione dello scaglione tariffario previsto per le cause di valore indeterminabile consenta il riconoscimento di compensi superiori rispetto a quelli che deriverebbero facendo applicazione dello scaglione applicabile in ragione del cumulo delle domande di valore determinato. In motivazione ricorda che già Cass. n. 9975/16 aveva chiarito che il principio espresso dalla sentenza n. 16318/11 risultava correttamente applicato solo nel caso in cui, tenuto conto del valore della controversia scaturente dalla domanda di carattere determinato, l'applicazione dello scaglione tariffario previsto per le cause di valore indeterminabile consenta il riconoscimento di compensi maggiori rispetto a quelli che deriverebbero facendo applicazione dello scaglione applicabile in ragione del cumulo delle sole domande di valore determinato. Ad opinare diversamente, e cioè a reputare che debba sempre applicarsi il criterio di liquidazione previsto per le controversie di valore indeterminabile, anche quando ciò non rechi alcun vantaggio al professionista (il quale anzi vedrebbe liquidate le sue competenze sulla base di criteri riduttivi rispetto a quelli da seguire cumulando le sole domande di valore determinato), si addiverrebbe alla conclusione, del tutto priva di razionalità e giustificazione, secondo cui l'attività professionale connotata da maggiore complessità (in quanto contemplante la necessità di approntare difese, oltre che per le domande di valore determinato, anche per quella di valore indeterminabile) sarebbe compensata con una somma inferiore rispetto a quella riconoscibile per l'attività difensiva relativa alle sole domande di valore determinato (in senso conforme successivamente si veda anche Cass. n. 22719/2022).

10. Il Collegio reputa che i precedenti da ultimo citati offrano elementi di spunto per giungere alla soluzione del contrasto in esame. È da ritenere che, in presenza di una specificazione del quantum operato nella domanda e di rigetto integrale della stessa, la clausola più volte richiamata può giustificare la liquidazione delle spese a favore della parte vittoriosa in base allo scaglione per le cause di valore indeterminabile solo laddove tale scaglione porti ad una liquidazione superiore a quella consentita in base alla quantificazione espressa. Nella diversa ipotesi, invece, in cui la somma specificata risulti di importo superiore al valore massimo cui le tariffe consentono di parametrare i compensi previsti per le cause di valore indeterminabile, debba farsi applicazione dello scaglione tariffario corrispondente all'indicazione specifica.

10.1. Depongono per tale soluzione plurime indicazioni. In primo luogo, in presenza di una domanda di condanna, il cui importo sia stato espresso in una determinata somma, è evidente che l'avvocato incaricato della difesa del convenuto è chiamato ad approntare uno sforzo professionale che è correlato alla indicazione che emerge dalla altrui domanda. Deve, invero, modulare il suo impegno e la sua prestazione in ragione dell'importanza della causa, nella cui valutazione è sicuramente destinato ad influire anche l'importo espressamente indicato dalla controparte. Ancorché tali considerazioni siano state sviluppate in relazione all'ipotesi di domande cumulate, non è men vero che le stesse appaiono estensibili anche al caso in esame nel quale è solo la detta formula che appare in potenza idonea a ricondurre la causa nel novero di quelle di valore indeterminabile. Occorre però tenere conto del fatto che al convenuto è comunque richiesta una somma per un importo che potrebbe essere, come nel caso in esame, ben al di sopra del valore massimo cui la norma tariffaria ragguaglia la liquidazione del compenso per le cause di valore indeterminabile.

In secondo luogo, l'automatismo che è insito nel principio affermato da Cass. n. 10894/2021, a mente del quale l'apposizione della detta formula alla domanda specifica nel quantum equivale ad un'ammissione dell'incertezza circa l'ammontare del dovuto, ed impone necessariamente la liquidazione in base allo scaglione per le cause di valore indeterminabile, ben potrebbe prestarsi a fenomeni di malcostume o abuso.

La remora alla proposizione di domande in un importo manifestamente sproporzionato o abnorme, rispetto all'effettiva rilevanza della situazione dedotta in giudizio, per le quali opera la sanzione nella liquidazione delle spese a carico del soccombente commisurata all'importo richiesto senza alcuna ragionevole possibilità di conseguimento, verrebbe meno con la mera apposizione della clausola che rimette al giudice il potere di liquidare la maggiore o minore somma richiesta. Ciò, infatti, imporrebbe la liquidazione entro i limiti imposti per le cause di valore indeterminabile, contravvenendo al principio di autoresponsabilità che implica che la parte debba assumersi anche i rischi connessi alle proprie erronee scelte, nella specie di carattere processuale.

In terzo luogo, proprio la soluzione accolta da Cass. n. 10984/2021, sebbene espressamente ancorata alla necessità di offrire della clausola in esame una lettura conforme al principio di conservazione di cui all'art. 1367 c.c., a ben vedere vanifica la portata della stessa norma ermeneutica. Infatti, l'indicazione in maniera espressa dell'ammontare che l'attore reputa essergli dovuto viene ad essere automaticamente privata di efficacia in ragione della aggiunta della detta formula. Il pur ragionevole dubbio circa l'ammontare del danno o del credito vantato può connotare la sua addizione alla richiesta specifica, ma non può arrivare a travolgere e rendere vana quest'ultima, che comunque esprime il convincimento della parte in ordine all'importo di un credito che, sebbene non connotato dal requisito della certezza, è però reputato verosimilmente corrispondente a quello effettivo. È in realtà la stessa disposizione di cui all'art. 1367 c.c. che costituisce un argomento portante della tesi qui non condivisa, che impone di preservare una portata effettuale alla dichiarazione di valore resa dalla parte, sebbene cautelativamente accompagnata dalla clausola che rimette alla valutazione del giudice la concreta quantificazione.

10.2 Né può tacciarsi tale esito interpretativo di avere nuovamente ridotto la clausola in esame al rango di mera clausola di stile.

Infatti, impregiudicato l'accertamento in ordine alla effettiva volontà delle parti di ascrivere alla stessa una effettiva idoneità ad incidere sul contenuto della domanda, è evidente come la richiesta di liquidazione di un importo superiore rispetto a quello specificato abbia un'immediata utilità per l'attore che, nel caso in cui all'esito del giudizio si manifesti una pretesa creditoria di importo superiore a quello formalmente indicato nell'atto introduttivo, ben potrà sollecitare la condanna al pagamento della maggior somma, senza incorrere nella violazione del principio di ultrapetizione di cui all'art. 112 c.p.c.

La diversa disponibilità manifestata al giudice per la liquidazione anche di una somma inferiore potrebbe apparire prima facie priva di ogni rilievo effettuale, rientrando già nei poteri assegnati dalla legge al giudice quello di riconoscere una somma di importo inferiore a quello richiesto.

La clausola in parte qua, e cioè per l'ipotesi in cui si si solleciti anche la liquidazione di una somma inferiore (senza che sia possibile annettere alla stessa anche una implicita rinunzia alla possibilità di impugnare la sentenza che abbia riconosciuto un credito inferiore rispetto a quello specificamente indicato, come sembra paventare Cass. n. 35966/2023), ha una sua autonoma rilevanza, nella parte in cui, esprimendo la consapevolezza dell'attore circa i margini di opinabilità ed incertezza correlati alla determinazione del quantum, offre al giudice un elemento di valutazione della condotta processuale, in vista della regolazione delle spese di lite.

Queste Sezioni Unite hanno, infatti, affermato che l'accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un'unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall'art. 92, comma 2, c.p.c. (Cass. S.U., 31/10/2022, n. 32061).

L'esternazione al giudice della consapevolezza dei margini di opinabilità che investono il quantum della domanda proposta, anche in ragione della possibilità di una liquidazione di importo inferiore rispetto a quello specificamente indicato, ben potrebbe essere un elemento per orientare la valutazione discrezionale del giudice, ed indurlo, anche nel caso di accoglimento in misura ridotta della domanda, ad escludere l'esercizio della facoltà, che la legge tuttora gli attribuisce, di compensare in tutto o in parte le spese, il che permette di assegnare alla clausola in esame una sua autonoma portata effettuale, anche in relazione alla richiesta di liquidazione in via equitativa di una somma minore. 10.3 Deve poi precisarsi che l'indicazione di una somma specifica è da reputarsi anche vincolante in vista della individuazione del valore della controversia ai fini della competenza, ancorché oggi quella per valore sia distribuita in primo grado solo tra l'ufficio del giudice di pace ed il Tribunale.

Il pericolo, che le parti prospettano nei loro scritti difensivi, che la clausola in esame possa, ove reputata non di mero stile, implicare l'attribuzione della competenza naturaliter al Tribunale, in quanto l'indeterminabilità del quantum determinerebbe lo spostamento della competenza necessariamente dinanzi al Tribunale, deve però essere fortemente ridimensionato. Infatti, in primo luogo, la parte che agisca dinanzi al giudice di pace, pur formulando la richiesta di condanna accompagnata da una clausola siffatta, ben potrebbe espressamente dichiarare di contenere la domanda nei limiti della competenza del giudice adito (specificazione che appare però necessaria nel caso di cumulo dinanzi al giudice di pace di più domande di alcune delle quali non sia stato indicato l'esatto ammontare, cfr. Cass. n. 11460/2020; Cass. n. 11287/20156), ribadendo quindi in tal modo la volontà di radicare la competenza dinanzi a questo giudice.

Ma ove anche mancasse una espressa limitazione, deve farsi richiamo alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in tema di determinazione della competenza per valore, nell'ipotesi in cui una domanda venga proposta avanti al giudice di pace con la richiesta della condanna della controparte al pagamento di un importo indicato in una somma inferiore (o pari) al limite della giurisdizione equitativa del giudice di pace ovvero della somma maggiore o minore che risulti dovuta all'esito del giudizio, la formulazione di questa seconda richiesta alternativa, anche ove non possa essere considerata - agli effetti dell'art. 112 c.p.c. -come meramente di stile, non sottrae la controversia alla competenza del giudice adito. Ai sensi della seconda proposizione dell'art. 14 c.p.c., infatti, la domanda così formulata si deve presumere di valore eguale alla competenza del giudice adito e che, ai sensi del comma 3 della stessa norma, in difetto di contestazione da parte del convenuto del valore così presunto, quest'ultimo rimane "fissato, anche agli effetti del merito, nei limiti della competenza del giudice adito", cioè nel massimo della competenza per valore del giudice di pace (cfr. Cass. n. 23434/2021; Cass. n. 15698/2006).

11. Le conclusioni ora esposte appaiono poi in grado anche di influire sulla diversa questione, che pone il ricorso, quanto alla rilevanza della dichiarazione in esame ai fini del versamento del contributo unificato.

Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui, in tema di contributo unificato, la dichiarazione del difensore resa ai sensi dell'art. 14 del D.P.R. n. 115/2002 è ininfluente ai fini dell'individuazione del valore della domanda, poiché essa è indirizzata al funzionario di cancelleria, cui compete il relativo controllo. Pertanto, non appartenendo tale dichiarazione di valore alle conclusioni della citazione, deve escludersi la possibilità di considerarla come parte della "domanda", nel senso cui vi allude il primo comma dell'art. 10 c.p.c., quando dice che "il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda a norma delle disposizioni seguenti" (cfr. da ultimo Cass. n. 12770/2023, in pina continuità con Cass. n. 15714/2007; Cass. n. 26988/2007; Cass. n. 18732/2015; Cass. n. 12031/2017). Il riscontro circa la correttezza dell'importo versato a titolo di contributo unificato esula dalle competenze e dai doveri del giudice. Trattasi di verifica che incombe sulla cancelleria ai sensi dell'art. 15 del citato D.P.R. n. 115/2002, in quanto chiamata a verificare la correttezza del contributo versato alla luce del valore della domanda.

La tesi qui avversata, secondo cui l'aggiunta della richiesta di condanna "della maggiore o minore somme che si riterrà di giustizia" (o similare) trasforma la causa sempre un giudizio di valore indeterminabile permetterebbe (analogamente a quanto visto per l'individuazione dello scaglione sulla base del quale liquidare le spese al difensore della parte vittoriosa) di versare il contributo previsto per le cause di valore indeterminabile, ancorché la domanda contenga la specificazione di un importo nettamente superiore rispetto al valore cui viene ragguagliato quello delle cause indeterminabili, con il rischio anche di evidenti elusioni delle ragioni fiscali.

Deve perciò reputarsi che, anche ai fini del versamento del contributo unificato, ed in presenza di una specificazione della somma richiesta, il contributo unificato deve essere commisurato all'ammontare della somma specificata - ove superiore rispetto a quello previsto per le cause di valore indeterminabile (trovando quindi in tale soluzione conferma il provvedimento dell'11 marzo 2024 del Ministero della Giustizia - Dipartimento per gli affari di giustizia - Direzione Generale degli affari interni, che ha ritenuto vincolante, ai fini della dichiarazione di valore in esame, l'indicazione specifica della somma operata dalla parte, senza che possa attribuirsi rilievo alla più volte richiamata formula). 12. In definitiva deve essere formulato il seguente principio di diritto: In una causa relativa a somma di denaro (nella specie, a titolo di risarcimento di danni), qualora la domanda attrice, che contempli la richiesta di pagamento di un determinato importo, contenga anche la generica istanza "ovvero nel diverso importo che dovesse risultare dovuto in corso di causa, e/o comunque nel diverso importo che dovesse essere liquidato dal giudice con valutazione equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c." (o similare), in caso di integrale rigetto della domanda, la liquidazione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa deve avvenire sulla base dello scaglione corrispondente alla somma specificamente indicata dall'attore, ove lo stesso attribuisca compensi superiori rispetto a quelli accordati per le cause di valore indeterminabile. Poiché la sentenza impugnata risulta avere deciso in difformità dal principio esposto, il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata, con rinvio per nuovo esame alla Corte d'Appello di Ancona che provvederà sulle spese delle precedenti fasi di merito.

Ad avviso del Collegio, le spese del presente giudizio devono invece essere compensate, in ragione della complessità delle questioni che il motivo di ricorso ha posto e del contrasto manifestatosi tra le sezioni civili della Corte.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione e cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'Appello di Ancona che provvederà anche sulle spese dei precedenti gradi di merito;

compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 10 giugno 2025.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2025.

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