Il datore di lavoro può recedere liberamente dal rapporto di lavoro, con un licenziamento ad nutum, quando il dipendente ha raggiunto l'età pensionabile?
La questione è stato affrontata dalla Sezione Lavoro della Cassazione, con l'ordinanza n. 23603 del 20 agosto 2025.
Il caso di specie riguardava un lavoratore licenziato per sopraggiunto requisito anagrafico, ma che aveva continuato a prestare servizio oltre tale soglia in base a un accordo implicito con il datore.
La normativa e la giurisprudenza in materia
Il quadro normativo di riferimento è composto da:
art. 4, l. n. 108/1990, che disciplina i casi di libera recedibilità;
art. 24, comma 4, d.l. n. 201/2011, convertito in l. n. 214/2011, che incentiva la prosecuzione del rapporto fino ai 70 anni, entro i limiti dei settori di appartenenza.
Secondo la giurisprudenza consolidata (Cass. SS.UU. n. 17589/2015; Cass. n. 12108/2018), il licenziamento ad nutum è consentito solo se il lavoratore ha effettivamente maturato sia i requisiti anagrafici sia quelli contributivi per la pensione di vecchiaia.
La decisione della Corte
La Cassazione ha confermato che il mero raggiungimento dell'età pensionabile non basta a giustificare un licenziamento ad nutum.
Nel caso concreto, la Corte d'Appello aveva accertato la prosecuzione del rapporto per facta concludentia, cioè tramite comportamenti concludenti di entrambe le parti. In tale contesto, il recesso del datore per il solo raggiungimento dell'età pensionabile è stato ritenuto ingiustificato.
La tutela contro i licenziamenti illegittimi, prevista dallo Statuto dei lavoratori, resta dunque operativa fino al limite massimo di flessibilità dei 70 anni.
La Cassazione ha rigettato sia il ricorso del datore sia quello incidentale del lavoratore, confermando che il licenziamento è legittimo solo quando sussistano concretamente i requisiti per la pensione e non sulla base della sola età anagrafica.
Conclusione
Cosa si ricava dalla pronuncia?
Per le aziende, ciò significa verificare attentamente la posizione previdenziale del dipendente prima di procedere a un recesso ad nutum.
Per i lavoratori, si rafforzano le garanzie contro licenziamenti basati esclusivamente sull'età.
In altre parole: arrivare all'età pensionabile non basta, serve anche il “conto contributivo” a posto. Altrimenti, il licenziamento rischia di tornare indietro come un boomerang.
Cassazione civile, sez. lav., ordinanza 20/08/2025 (ud. 04/06/2025) n. 23603
FATTI DI CAUSA
Con sentenza del 21.5.24 la Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del 22.3.21 del Tribunale della stessa sede, ha dichiarato ingiustificato il licenziamento del 2.5.19 del lavoratore in epigrafe (già preposto al trasporto dei beni delle forze armate dell'aeroporto di F.) e condannato il datore di lavoro al risarcimento danni per Euro 241.963.
In primo grado il lavoratore è stato totalmente soccombente e condannato in via riconvenzionale a restituire somme percepite a titolo di stock option; la corte territoriale ha invece ritenuto vi fosse un accordo tacito di trattenimento in servizio del lavoratore oltre la maturazione dei requisiti anagrafici per la pensione di vecchiaia, che vi era stata prosecuzione implicitamente fino alla fine dell'appalto preso dal datore di lavoro (e non invece una durata annuale, non essendo stato dimostrato dal datore -che vi era onerato- la limitazione temporale della prosecuzione del rapporto), ha quindi ritenuto che il licenziamento -intimato per raggiungimento del requisito del pensionamento- era ingiustificato ed ha attribuito un'indennità pari a 18 mensilità+4, ai sensi dell'articolo 33, comma 20, del contratto collettivo nazionale; ha quindi attribuito il premio di produzione in ragione degli utili societari maturati nel periodo quale lucro cessante (ma ciò solo per
gli anni 2018 e 2019 perchè il premio dovuto per l'anno 2020 non poteva essere quantificato in quanto a maggio 2020 era cessato il rapporto per il raggiungimento del 70 anno in età e all'epoca mancavano gli utili accertati cui si commisurava il premio di produzione); analogo discorso è stato fatto per l'attribuzione del valore delle stock option (riconosciute per il 2018 e 2019 ma non anche per il 2020); è stato poi attribuito il valore di uso dell'auto aziendale (per un importo allegato dal lavoratore e non contestato).
Avverso tale sentenza ricorre il datore di lavoro per cinque motivi, cui resiste con controricorso, illustrato da memoria, il lavoratore, che propone ricorso incidentale per tre motivi (rispetto ai quali il datore è rimasto intimato).
Il Collegio, all'esito della camera di consiglio, si è riservato il termine di giorni sessanta per il deposito del provvedimento.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Ricorso principale del datore di lavoro.
Il primo motivo deduce violazione dell'articolo 4 della legge 108 del 90 per aver escluso la libera recedibilità anche nel periodo di prosecuzione del rapporto. Il motivo è infondato.
In tema deve ricordarsi che l'art. 24 co. 4 decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011, n. 214 così dispone: "Il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall'operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settantanni.... Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l'efficacia delle disposizioni di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità".
Ciò posto, deve rilevarsi che, se e vero che (come precisato da Sez. U, Sentenza n. 17589 del 04/09/2015 (Rv. 636218 - 01)in materia di trattamenti pensionistici, la disposizione dell'art. 24, comma 4, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214, non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo, ma si limita a prefigurare condizioni previdenziali di incentivo alla prosecuzione dello stesso rapporto per un lasso di tempo che può estendersi fino ai settanta anni di età, nel caso di specie la corte territoriale ha accertato che il rapporto era proseguito per facta concludentia. In tal caso, come dalle stesse SSUU detto, "ove siano maturate le condizioni previste dalla prima parte del comma (e quindi siano intervenuti i coefficienti di trasformazione ed il rapporto di lavoro sia consensualmente proseguito) la tutela prevista dall'art. 18 dello statuto dei lavoratori continua ad applicarsi "entro il predetto limite di flessibilità", ovvero entro il periodo massimo consentito per il prolungamento del rapporto di lavoro, costituito dal raggiungimento del settantesimo anno di età" (in deroga dunque all'art. La 1. 11.05.90 n. 108, art. 4, c. 2; v. pure Cass. 17 maggio 2018, n. 12108).
Il secondo motivo deduce violazione dell'articolo 38 n. 6 del contratto collettivo per non aver applicato le clausole da uno a cinque di detto articolo (che prevedono la facoltà del collegio arbitrale). Il motivo e inammissibile in quanto la parte non solo non dice dove e quando la relativa questione sia stata sollevata nei gradi di merito, ma neppure precisa la rilevanza della questione in relazione alla controversia. Peraltro il motivo suppone che non vi sia stata prosecuzione del rapporto e ciò lo rende inammissibile per le ragioni su esplicitate.
Il terzo motivo deduce violazione dell'articolo 24, comma 4 del decreto 201 dell'11 convertito in legge 214 dell'11, per avere la corte territoriale ritenuto la prosecuzione del rapporto, sebbene mai vi fosse un accordo tra le parti o una richiesta del lavoratore in tal senso.
Il motivo è infondato, avendo la corte territoriale valutato, in modo insindacabile in questa sede, il comportamento concludente delle parti nella prosecuzione del rapporto.
Il quarto motivo lamenta vizio di motivazione ex art. 360 co. 1 numero 5 c.p.c., per mancata considerazione dell'assenza di richieste esplicite di prosecuzione del rapporto. Il quinto motivo deduce violazione dell'articolo 2697 c.c., per aver attribuito rilevanza alla protrazione di fatto del rapporto in difetto di prova di richiesta del lavoratore.
I detti motivi vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione; essi sono infondati.
Invero, la prosecuzione del rapporto si è avuta, come accertato dalla corte, sulla base di un comportamento concludente; in tale contesto, la prosecuzione del rapporto esclude la libera recedibilità del datore, come precisato dalle sezioni unite nella sentenza su richiamata. Ricorso incidentale.
II primo motivo deduce violazione ex numero 3 e 5 dell'articolo 112, 2697 e 33 del ccnl per due profili: A) per avere liquidato l'indennità supplementare in riferimento a retribuzione mensile e non alla retribuzione globale di fatto come dovuto ex articolo 33, comma 24 del contratto, e pur in assenza di contestazione del datore (laddove invece la diversa retribuzione indicata dal datore era stata contestata dal lavoratore); B) per avere limitato il primo di produzione dello stock option escludendo il 2020.
Il primo profilo può ritenersi inammissibile in quanto non riporta il contratto collettivo (cfr. Sez. U, Sentenza n. 10374 del 08/05/2007, Rv. 596409 - 01 che ha precisato che, ai fini dell'ammissibilità del ricorso per dedotta violazione di contratto collettivo è necessario che in esso siano motivatamente specificati i suddetti canoni ermeneutici in concreto violati, nonché il punto ed il modo in cui giudice del merito si sia da essi discostato, con la conseguenza che la parte ricorrente è tenuta, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, a riportare in quest'ultimo il testo della fonte pattizia denunciata al fine di consentirne il controllo da parte della Corte di cassazione, che non può sopperire alle lacune dell'atto di impugnazione con indagini integrative). Il motivo di ricorso peraltro poggia soprattutto sulla asserita non contestazione, e non richiama né trascrive gli atti processuali da cui detta non contestazione possa desumersi, né invoca 360 co. 1 n. 4 c.p.c..
Il secondo profilo del primo motivo è infondato. Il rapporto è cessato prima che fosse maturato il diritto all'attribuzione degli emolumenti invocati e la parte non censura adeguatamente l'interpretazione data dalla Corte, secondo cui l'anticipata risoluzione del rapporto non implica una attribuzione degli emolumenti parziale, determinata in relazione al periodo limitato di prosecuzione del rapporto nell'anno, in quanto in realtà il diritto sorge solo dopo la maturazione nell'intero periodo di riferimento dell'utile, conseguente all'accertamento del raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Il secondo motivo deduce ex 360 numero 3 c.p.c. violazione dell'articolo 156,157,160167,416 c.p.c. e della legge 53 del 94, per omessa decisione sulla domanda di restituzione delle somme pagate (per riconvenzionale ritenuta inammissibile ex articolo 156, comma tre, c.p.c., per l'improcedibilità della domanda riconvenzionale della società in primo grado e perché non rilevata nella memoria di costituzione né nella successiva udienza).
Il motivo è in realtà inammissibile perché non fatto valere col 360 numero 4 c.p.c. e la corte non è in condizione di verificare la ritualità dell'appello (che riportava la detta domanda). Questa Corte ha del resto già precisato (Sez. L -, Ordinanza n. 29952 del 13/10/2022, Rv. 665822 - 01 e Sez. 5 -, Ordinanza n. 21444 del 31/07/2024 (Rv. 671878 - 01) che l'omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello - così come l'omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio -risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360, n.3, c.p.c., o del vizio di motivazione ex art. 360, n.5, c.p.c., in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l'abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo "error in procedendo" - ovverosia della violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360, n.4, c.p.c. - la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità - in tal caso giudice anche del fatto processuale - di effettuare l'esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell'atto di appello; pertanto, alla mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro "ex actis" dell'assunta omissione, consegue l'inammissibilità del motivo. Il terzo motivo deduce violazione dell'articolo 92, decreto ministeriale 55 del 14 per non aver applicati i valori medi o massimi per la difficoltà delle questioni trattate nella liquidazione delle spese. Il motivo è infondato, avendo quesa Corte già precisato (Sez. 3 -, Ordinanza n. 19989 del 13/07/2021, Rv.
661839 - 03) che, in tema di liquidazione delle spese processuali ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, l'esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo, non è soggetto a sindacato di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo. Si anche aggiunto (Sez. 3 -, Ordinanza n. 89 del 07/01/2021, Rv. 660050 - 02) che, in tema di liquidazione delle spese processuali successiva al D.M. n. 55 del 2014, non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione, la quale è doverosa allorquando si decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi affinché siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo.
Ne consegue il rigetto del ricorso principale ed il rigetto del ricorso incidentale.
Le spese di lite vanno compensate per soccombenza reciproca. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi. Spese compensate.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n.115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 4 giugno 2025.
Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2025