Cosa accade se il giudice di primo grado, decidendo la causa nel merito, omette di rilevare un vizio processuale che avrebbe potuto rilevare d'ufficio?
La parte interessata deve proporre impugnazione oppure quel vizio può essere sollevato successivamente dal giudice di appello o dalla Cassazione?
A chiarirlo sono le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza n. 24172 depositata il 29 agosto 2025.
Il caso nasce da una controversia tra due società avente ad oggetto una domanda risarcitoria per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.
Dopo il rigetto in primo grado e la conferma in appello, la vicenda giunge davanti alle Sezioni Unite per dirimere un contrasto interpretativo.
Per la Suprema Corte, se il giudice di primo grado decide sul merito della causa senza pronunciarsi su un vizio processuale rilevabile d'ufficio, la parte che intende far valere quel vizio deve proporre impugnazione.
In mancanza, si forma un giudicato interno sulla questione processuale, secondo il meccanismo di conversione del vizio in motivo di gravame previsto dall'art. 161, comma 1, c.p.c.
A questa regola generale si sottraggono tre ipotesi:
i vizi rilevabili per legge "in ogni stato e grado" (es. difetto di giurisdizione, litisconsorzio necessario);
i vizi fondanti, tali da determinare una sentenza inutiliter data;
i casi in cui il giudice abbia deciso per ragione più liquida, evitando consapevolmente di affrontare la questione di rito.
Nel caso di specie, il Tribunale non aveva dichiarato l'inammissibilità della domanda ex art. 96 c.p.c., preferendo rigettarla nel merito.
La Corte d'appello, invece, aveva sollevato d'ufficio l'inammissibilità, senza che la parte vittoriosa in primo grado avesse proposto impugnazione incidentale.
Le Sezioni Unite hanno chiarito che in simili circostanze la questione processuale non può essere recuperata nei gradi successivi, se non mediante specifico motivo di impugnazione. Fa eccezione solo l'ipotesi in cui il vizio sia di natura "fondante" o espressamente qualificato dalla legge come rilevabile in ogni stato e grado.
La pronuncia in esame ci fornisce una regola di responsabilità processuale: quando il giudice di primo grado omette di rilevare un vizio processuale, la parte interessata deve impugnarlo, pena la formazione del giudicato implicito. Restano salvi solo i vizi insanabili e quelli decisi secondo il criterio della ragione più liquida.
Qualora il giudice di primo grado abbia deciso la controversia nel merito, omettendo di pronunciare espressamente su un vizio processuale rilevabile d’ufficio (in base alla norma del processo o desumibile dallo scopo di interesse pubblico, indisponibile dalle parti, sotteso alla norma processuale che stabilisce un requisito formale, prescrive un termine di decadenza o prevede il compimento di una determinata attività), la parte che abbia interesse a far valere detto vizio è onerata di proporre, nel grado successivo, impugnazione sul punto, la cui omissione determina la formazione del giudicato interno sulla questione processuale in applicazione del principio di conversione del vizio in motivo di gravame ex art. 161, comma primo, c.p.c., rimanendo precluso tanto al giudice del gravame, quanto alla Corte di cassazione, il potere di rilevare, per la prima volta, tale vizio ex officio.
A tale regola si sottraggono, così da consentire al giudice dei gradi successivi di esercitare il potere di rilievo officioso, i vizi processuali rilevabili, in base ad espressa previsione legale, “in ogni stato e grado” e i vizi relativi a questioni “fondanti”, la cui omessa rilevazione si risolverebbe in una sentenza inutiliter data, ovvero le ipotesi in cui il giudice abbia esternato la propria decisione come fondata su una ragione più liquida, che impedisce di ravvisare una decisione implicita sulla questione processuale implicata.
Cassazione civile, sez. un., sentenza 29/08/2025 (ud. 06/05/2025) n. 24172
FATTI DI CAUSA
1. - La Immobiliare D.D.G. Srl (di seguito anche solo DDG) convenne in giudizio la NUOVA EDILIZIA Srl perché ne fosse accertata e dichiarata la responsabilità per i danni da essa subiti in ragione di plurime condotte illecite poste in essere dalla società convenuta in suo pregiudizio e segnatamente: per avere illegittimamente chiesto e ottenuto dal Tribunale di Velletri un decreto ingiuntivo (n. 43/12) immediatamente esecutivo per l'importo di Euro 350.000,00, omettendo di menzionare la pendenza di un'altra identica azione di cognizione ordinaria; per avere, quindi, proceduto alla trascrizione del pignoramento immobiliare e non avere acconsentito alla sua cancellazione, con dolo o colpa, nonostante l'avvenuta previa sospensione della efficacia esecutiva del titolo; per avere, altresì, illegittimamente chiesto e ottenuto dal predetto Tribunale un decreto di sequestro conservativo di un terreno edificabile promesso in vendita ad una società terza, omettendo di rappresentare che il presunto credito di Euro 350.000,00 era già garantito da altro pignoramento immobiliare in danno di un fideiussore.
La società attrice chiese, pertanto, che la NUOVA EDILIZIA Srl fosse condannata, a titolo risarcitorio, al pagamento dell'importo di
euro 396.374,10 (danno derivante dalla risoluzione di un preliminare di vendita a causa del pignoramento degli immobili che ne erano oggetto), nonché dell'importo di Euro 2.214.000,00 (danno derivante dalla mancata vendita di un terreno e dalla risoluzione di un collegato contratto di appalto a causa del sequestro conservativo) e, infine, dell'importo di Euro 4.175,20 (danno derivante dall'esborso per ottenere l'estinzione della procedura esecutiva e la cancellazione della trascrizione del pignoramento).
La società convenuta si costituì tardivamente in giudizio, eccependo la nullità della notificazione della citazione e chiedendo il rigetto delle pretese attoree.
1.1. - L'adito Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Anzio, ritenuta la ritualità della notificazione dell'atto di citazione, rigettò, con sentenza del settembre 2015, le domande della Immobiliare D.D.G. Srl, osservando che: a) le iniziative intraprese dalla società convenuta a tutela del proprio diritto di credito di Euro 350.000,00 "non potevano ritenersi abusive o determinate da malafede, avendo NUOVA EDILIZIA Srl la facoltà di avvalersi anche congiuntamente di tutti i mezzi ordinari, sommari e cautelari consentiti dal nostro ordinamento a tutela delle proprie ragioni"; b) inoltre, i danni asseritamente subiti dalla DDG erano "causalmente riconducibili al comportamento dell'attrice, la quale aveva stipulato "in maniera frettolosa ed incauta" il preliminare di compravendita e il contratto d'appalto... prima della definizione della controversia pendente con Nuova Edilizia Srl".
2. - Avverso tale decisione interponevano gravame sia la DDG, in via principale, che la Nuova Edilizia Srl, in via incidentale (e vertente unicamente sulla ritenuta ritualità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado).
La Corte di appello di Roma rigettava entrambi con sentenza resa pubblica il 19 novembre 2019.
2.1. - La Corte territoriale, a fondamento del rigetto dell'appello principale, rilevava di ufficio che: a) la domanda risarcitoria ai sensi dell'art. 96 c.p.c., riconducibile alla più ampia fattispecie della responsabilità aquiliana, avrebbe dovuto essere proposta (anche per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni) davanti al giudice della controversia nel corso della quale era stata tenuta la condotta causativa del danno, potendo essere proposta in via autonoma solo nel caso di impossibilità di esercitarla in quel processo; b) la DDG avrebbe dovuto, dunque, far valere la pretesa risarcitoria nel giudizio definito dal Tribunale di Velletri con sentenza n. 281/2014, nel quale erano confluiti i processi riuniti n.r.g. 30261 e 30396 del 2011 e n.r.g. 185 del 2012 introdotti dalla NUOVA EDILIZIA Srl ed aventi ad oggetto la risoluzione del preliminare di compravendita e la restituzione dell'importo di Euro 350.000,00, nonché le azioni asseritamente duplicate e le relative azioni esecutive e cautelari, seguite dalla trascrizione del pignoramento immobiliare e del sequestro conservativo; c) era infondata la difesa della DDG che assumeva che non "avrebbe potuto spiegare l'azione risarcitoria per i danni subiti per l'illegittima richiesta di sequestro conservativo e per la conseguente illegittima trascrizione del provvedimento cautelare essendosi tali danni manifestati solamente con la lettera del 20 febbraio 2013", sia perché la domanda ex art. 96, secondo comma, c.p.c. "doveva essere proposta nel giudizio di merito nel quale è stato emesso il provvedimento cautelare o si è formato il titolo esecutivo", sia perché DDG aveva "ammesso di avere avuto contezza dei danni sin dal febbraio 2013, con la conseguenza che ben avrebbe potuto e dovuto far valere la propria pretesa risarcitoria nel giudizio definito con la sentenza n. 281/2014, nel quale in relazione alla domanda de qua non era maturata alcuna preclusione, avendo le parti rassegnato le conclusioni solamente all'udienza del 9 maggio 2014"; d) le anzidette pretese risarcitorie erano, quindi, da ritenersi inammissibili e non già infondate nel merito; e) anche la domanda ex art. 96 c.p.c. per il risarcimento dei danni asseritamente derivati dalla risoluzione del preliminare stipulato con un privato, terzo promissario acquirente, non poteva trovare accoglimento in quanto la stessa avrebbe potuto essere formulata "in sede di opposizione all'esecuzione, essendo stato intrapreso tale giudizio proprio per far dichiarare l'illegittimità della trascrizione del pignoramento ed essendo la società opponente a conoscenza, al momento della proposizione della seconda istanza di cancellazione della trascrizione, della volontà" del promissario acquirente "di risolvere il preliminare, nel caso in cui la trascrizione del pignoramento non fosse stata cancellata entro il termine del 20 aprile 2012 pattuito per la stipula del definitivo"; e.1) in ogni caso, detta domanda di danni poteva essere avanzata "nel giudizio presupposto definito con la sentenza n. 281/2014, avente ad oggetto il decreto ingiuntivo posto a fondamento del pignoramento immobiliare successivamente trascritto, nonostante la sospensione della provvisoria esecuzione del decreto".
3. - Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Immobiliare D.D.G. Srl, affidando le sorti dell'impugnazione a quattro motivi, illustrati da memoria.
La NUOVA EDILIZIA Srl ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
4. - Con una prima ordinanza interlocutoria della Terza Sezione civile (n. 31275 del 9 novembre 2023), la causa è stata rinviata in attesa della decisione delle Sezioni Unite sulla questione
del requisito della specialità della procura, risolta dalla sentenza n. 2075 del 2024.
Con una successiva ordinanza interlocutoria (n. 17925 del 28 giugno 2024) la medesima Sezione ha rimesso gli atti alla Prima Presidente ai sensi dell'art. 374 c.c. ravvisando, in riferimento alle doglianze mosse con il primo motivo di ricorso, un contrasto di giurisprudenza tra le Sezioni semplici sul "potere del giudice dell'impugnazione di rilevare d'ufficio la questione pregiudiziale di rito non rilevata nel precedente grado, nel quale la domanda è stata rigettata nel merito, ed in mancanza di impugnazione incidentale della parte vittoriosa".
La Prima Presidente ha rimesso la decisione della causa a queste Sezioni Unite.
5. - In prossimità dell'udienza pubblica del 25 marzo 2025, fissata per la discussione, hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. sia entrambe le parti private, che il pubblico ministero, il quale ha concluso per il rigetto del primo motivo di ricorso.
La causa è stata, quindi, rinviata per la discussione all'udienza pubblica del successivo 6 maggio 2025, in prossimità della quale la società ricorrente ha depositato ulteriore memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. - Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 112 e 324 c.p.c., per non aver la Corte territoriale riconosciuto la sussistenza di un "giudicato interno formatosi sulla ammissibilità della domanda ex art. 96 c.p.c. esperita in via autonoma".
La DDG sostiene che la questione della "improponibilità della domanda in quanto proposta in un processo autonomo e diverso rispetto a quelli in cui gli illeciti risultavano commessi" era stata oggetto di eccezione da parte della NUOVA EDILIZIA Srl con la
comparsa conclusionale di primo grado (del 29 giugno 2015), che essa società attrice aveva contestato con la conclusionale di replica (del 21 luglio 2015), e, tuttavia, il Tribunale adito aveva rigettato la domanda attorea per un duplice ordine di ragioni (non essere le iniziative della NUOVA EDILIZIA Srl abusive o in malafede; essere gli asseriti danni riconducibili alla condotta della stessa DDG), estranee rispetto al tema dell'anzidetta eccezione.
L'appello di essa DDG, sulla base di cinque motivi, era, quindi, esclusivamente incentrato a denunciare l'erroneità della decisione assunta dal primo giudice e a chiedere l'accoglimento delle pretese risarcitorie azionate, mentre l'appellata NUOVA EDILIZIA Srl aveva chiesto la reiezione del gravame "in quanto infondato in fatto e in diritto", altresì instando per una "declaratoria di nullità del processo di primo grado, stante la nullità della notifica della citazione introduttiva".
La ricorrente assume, dunque, che, essendo stata la questione di inammissibilità della domanda risarcitoria oggetto di discussione, il Tribunale, nel rigettare detta domanda "nel merito", avrebbe "implicitamente rigettato anche l'eccezione di inammissibilità della domanda sollevata da Nuova Edilizia in comparsa conclusionale, atteso che l'affermazione di ammissibilità dell'azione costituiva il presupposto logico-giuridico della pronuncia di merito".
Ne consegue, argomenta ancora DDG, che, vertendo l'appello principale sulla riforma della sentenza di primo grado che aveva rigettato nel merito la pretesa attorea, "mentre nessun appello incidentale (nemmeno nella forma "condizionata") sulla mancata declaratoria di inammissibilità della domanda è stato proposto da NUOVA EDILIZIA Srl", alla Corte territoriale era, dunque, precluso
l'esame della questione, essendosi al riguardo formato un giudicato interno.
Di qui, pertanto, la violazione degli artt. 112 e 324 c.p.c.
2. - Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione dell'art. 96 c.p.c., per aver la Corte territoriale erroneamente escluso che la domanda concernente la responsabilità della società convenuta per la illegittima trascrizione del pignoramento non fosse proponibile in autonomo giudizio.
La DDG sostiene che il potere di liquidare il danno da incauta esecuzione spetta al giudice dell'opposizione all'esecuzione e non al giudice che ha emesso il titolo esecutivo e che, in ogni caso, la domanda di risarcimento per illegittima trascrizione del pignoramento, nella specie, non poteva proporsi neanche in sede di opposizione all'esecuzione, atteso che il danno si è manifestato in maniera postuma rispetto alla ordinanza di estinzione del procedimento esecutivo del 24 luglio 2012, giacché maturato solo dal momento in cui la promissaria acquirente si è avvalsa della clausola risolutiva espressa con apposita comunicazione inviata il 20 febbraio 2013.
3. - Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione dell'art. 96 c.p.c., per aver la Corte territoriale erroneamente escluso che la domanda concernente la responsabilità della società convenuta per la trascrizione del sequestro conservativo revocato non fosse proponibile in autonomo giudizio.
La ricorrente deduce che il procedimento cautelare relativo al sequestro conservativo (n.r.g. 1003/2012) si era esaurito con la revoca del sequestro disposta con ordinanza del 4 dicembre 2012, senza che tale procedimento fosse confluito nei giudizi riuniti e
definiti con la sentenza n. 281/2014, e che il danno si era manifestato solo successivamente all'anzidetto procedimento, con la comunicazione della promissaria acquirente del 20 febbraio 2013.
4. - Con il quarto mezzo (proposto in via subordinata al rigetto del primo motivo e, alternativamente, del secondo o del terzo motivo) è denunciata, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione dell'art. 96 c.p.c., per aver la Corte territoriale erroneamente escluso che, in presenza di una pluralità di illeciti generatori del danno, non fosse proponibile una unica ed autonoma azione di risarcimento danni.
La DDG assume che, ove si dovesse ritenere consentita l'esperibilità in via autonoma di almeno una delle due azioni risarcitorie (quella per il danno da trascrizione illegittima del pignoramento o quella per il danno da trascrizione illegittima del sequestro), dovrebbe reputarsi anche consentito "l'esame cumulativo in un unico procedimento dell'altra azione per la quale, se presa singolarmente, la competenza sarebbe stata ex art. 96 c.p.c. del giudice del procedimento di merito".
La ricorrente, quindi, sostiene che, nella specie, il danno trarrebbe origine da entrambe le trascrizioni illegittime effettuate dalla società convenuta, per cui l'azione risarcitoria si presenta unitaria e, a salvaguardia del diritto di difesa dell'attore, essa deve potersi esperire "in un unico giudizio di ordinaria cognizione, autonomo rispetto alla causa che riuniva i tre procedimenti instaurati da Nuova Edilizia".
5. - Queste Sezioni Unite sono chiamate a risolvere il contrasto giurisprudenziale, insorto in seno alle Sezioni semplici, sulla questione - così evidenziata dall'ordinanza interlocutoria n. 17925/2024 della Terza Sezione civile in relazione alle censure
veicolate con il primo motivo di ricorso - della sussistenza, o meno, del "potere del giudice dell'impugnazione di rilevare d'ufficio la questione pregiudiziale di rito non rilevata nel precedente grado, nel quale la domanda è stata rigettata nel merito, ed in mancanza di impugnazione incidentale della parte vittoriosa".
Nella specie, la questione pregiudiziale di rito attiene alla inammissibilità della domanda di responsabilità aggravata proposta al di fuori del giudizio in cui è maturata la condotta illecita, sulla quale il giudice di primo grado (sebbene fatta oggetto di discussione tra le parti) non si è pronunciato, rigettando nel merito la pretesa risarcitoria della società attrice; inammissibilità che, però, è stata rilevata d'ufficio dal giudice di appello in assenza di gravame incidentale della parte vittoriosa nel merito (e che detta eccezione aveva sollevato in comparsa conclusionale di primo grado).
5.1. - La Sezione rimettente dà atto, preliminarmente, che questa Corte (Cass. n. 9297/2007) ha affermato che la questione della proposizione dell'azione ai sensi dell'art. 96 c.p.c. al di fuori del processo cui la relativa responsabilità si riferisce, configurandosi come questione inerente alla stessa proponibilità dell'azione, non si connota come eccezione rilevabile ad istanza di parte, bensì come questione di diritto rilevabile d'ufficio, per cui, ove non decisa in primo grado, non deve essere oggetto di deduzione a pena di decadenza ai sensi dell'art. 346 c.p.c., potendo essere rilevata anche da parte del giudice d'appello.
Tuttavia, proprio su tale potere del giudice di secondo grado - rileva l'ordinanza interlocutoria n. 17925/2024 - sono maturate opinioni contrastanti tra le Sezioni semplici, trovando risalto due opposti orientamenti.
Un primo indirizzo (cui, tra le altre pronunce, sono da annoverarsi: Cass., S.U., n. 25906/2017; Cass., S.U., n. 7940/2019; Cass. n. 7941/2020; Cass. n. 10361/2022; Cass. n. 25934/2022; Cass. n. 10641/2023) ritiene che la reiezione nel merito di una domanda riconvenzionale da parte del giudice di primo grado non comporti alcuna statuizione implicita sull'ammissibilità della domanda medesima, con la conseguenza che non è predicabile l'attitudine della decisione di merito a formare giudicato implicito sulla questione di rito pregiudiziale.
Ulteriore conseguenza è che il giudice del gravame, investito dell'appello principale dalla parte soccombente, pur in assenza di un apposito motivo di appello incidentale della parte vittoriosa, ha il dovere di rilevare in via officiosa la questione pregiudiziale di rito inerente all'inammissibilità della domanda, incorrendo altrimenti in un error in procedendo censurabile dinanzi al giudice di legittimità.
Un secondo orientamento (espresso, tra le altre, da: Cass. n. 6762/2021; Cass. n. 20315/2021; Cass. n. 26850/2022; Cass. n. 3352/2024) afferma, invece, che il giudice di primo grado deve pronunciarsi d'ufficio su una questione processuale per la quale è prescritto un termine di decadenza o il compimento di una determinata attività - in difetto di espressa previsione normativa della rilevabilità "in ogni stato e grado" ed escluse le ipotesi di vizi talmente gravi da pregiudicare interessi di rilievo costituzionale -entro il grado di giudizio nel quale essa si è manifestata; se, invece, detto giudice abbia deciso la controversia nel merito, omettendo di pronunciare d'ufficio sulla questione, resterebbe precluso l'esercizio del potere di rilievo d'ufficio sulla stessa, per la prima volta, tanto al giudice di appello quanto a quello di cassazione, ove non sia stata oggetto di impugnazione o non sia stata ritualmente riproposta. Si sarebbe infatti formato un giudicato
implicito interno in applicazione del principio di conversione delle ragioni di nullità della sentenza in motivi di gravame, come previsto dall'art. 161 c.p.c.
La Sezione rimettente assume trattarsi di una "difformità netta di orientamenti", che si riflette anche in taluni obiter dieta delle Sezioni Unite sulla "collegata questione della rilevanza dell'ordine delle questioni (di rito e di merito)", poiché, secondo Cass., S.U., n. 11799/2017, la violazione di tale ordine "impone la reazione della parte con l'impugnazione", mentre, ad avviso di Cass., S.U., n. 7940/2019 (in linea con Cass., S.U., n. 25906/2017), "la questione pregiudiziale di rito, non oggetto di decisione, resta rilevabile nel grado successivo pur in mancanza di gravame".
L'ordinanza interlocutoria rileva, infine, che al problema della portata invalidante o meno della violazione dell'ordine delle questioni "si collega, poi, quello del se il principio della ragione più liquida coinvolga non solo le questioni di merito, ma anche quelle di rito (su cui, peraltro, va tenuto presente l'arresto di Cass. S.U. n. 26242 del 2014 in materia di nullità negoziali)".
Dunque, un complesso di problemi - chiosa la Sezione rimettente - "su cui anche il confronto dottrinale è aperto".
6. - Le doglianze veicolate dal primo motivo di ricorso della Immobiliare D.D.G. Srl intercettano, in via immediata, il tema della configurabilità, o meno, di un giudicato implicito su questione di rito pregiudiziale, rilevabile d'ufficio, su cui il giudice non si sia pronunciato, decidendo, tuttavia, la causa nel merito.
Tema il cui perimetro operativo (dal quale - è bene sin d'ora puntualizzare - è esclusa ogni problematica che attiene a vizi eccepibili solo ad istanza di parte, ex art. 157 c.p.c.) si estende alla individuazione dei rimedi a disposizione di chi abbia interesse a far valere la questione processuale pretermessa e attrae, a monte, le presupposte, nonché in parte controverse, interferenze tra i criteri dell'ordine logico delle questioni e della ragione più liquida.
Occorre anzitutto rammentare - sia pur in sintesi - gli orientamenti che, in dottrina e giurisprudenza, sono emersi in ordine alla declinazione dei rapporti tra ordine logico delle questioni e ragione più liquida.
Si vedrà che il campo è occupato da soluzioni interpretative sovente divergenti.
6.1.- Secondo un'efficace definizione, frutto dell'elaborazione dottrinale, l'ordine logico delle questioni si configura come un principio conformativo della trattazione del giudizio di primo grado, al quale si associa una funzione di economia processuale, giacché esso consente di assegnare un pregnante valore giuridico-processuale al "non detto", avendo di mira l'obiettivo di garantire coerenza ed efficienza al processo.
Si è, infatti, affermato che, in assenza di una formale decisione sulla questione strutturalmente presupposta (nella specie: sulla questione della proponibilità in un autonomo giudizio delle proposte domande risarcitorie per lite temeraria) rispetto ad un'altra, presupponente (nella specie: la decisione nel merito sulle anzidette domande ex art. 96 c.p.c.), ove la parte che abbia interesse a rimettere in discussione la prima questione dinanzi al giudice del grado successivo vi rinunzi, siffatta questione non potrà riemergere. Dunque, la "non decisione", che potrebbe essere interpretata come decisione implicita, sebbene possa essere affetta da un vizio processuale, in assenza di un'iniziativa della parte volta a farlo valere sarà suscettibile di consolidarsi e, quindi, di lasciare spazio alla decisione esplicita sulla questione presupponente.
6.2.- Il criterio della ragione più liquida origina da una prassi invalsa in giurisprudenza, che lo ha individuato quale strumento in grado di perseguire obiettivi di efficienza decisionale, in armonia con il principio di ragionevole durata del processo, ex art. 111 Cost. Esso, infatti, abilita il giudice ad individuare in chiave selettiva la questione di più agevole e pronta soluzione, prescindendo da qualsiasi ordine logico di esame prefissato, così da comportare un risparmio di attività cognitivo-decisorie là dove la definizione di una certa questione consente di pretermettere la valutazione di altre.
6.3.- L'orientamento maggioritario in dottrina ravvisa l'esistenza di un ordine logico nella decisione delle questioni tale da imporre al giudice di osservare una sequenza ordinata, in forza della quale è da anteporre all'esame del merito quello del rito e così dare precedenza alle questioni di diritto processuale rispetto a quelle di diritto sostanziale.
Le coordinate normative sulle quali si fonda tale soluzione vengono rintracciate nell'art. 276 c.p.c., che, al comma secondo, prevede che il giudice "decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e quindi il merito della causa". Si menzionano altresì l'art. 131 disp. att. c.p.c., per il giudizio di appello, e l'art. 141 disp. att. c.p.c., per il giudizio di legittimità (norme che richiamano espressamente l'art. 276 c.p.c.), ma anche l'art. 279 c.p.c., relativo alla forma dei provvedimenti del collegio. Così ancora il secondo ed il terzo comma dell'art. 187 c.p.c., i quali, rispettivamente, consentono al giudice di rimettere le parti al collegio affinché sia decisa separatamente una questione di merito avente carattere preliminare, ovvero una questione attinente alla giurisdizione, alla competenza o altre pregiudiziali, e l'art. 118, comma secondo, disp. att. c.p.c., in forza del quale la motivazione della sentenza deve esporre "in ordine le questioni discusse e decise".
Ed è in forza di tali essenziali parametri normativi che si riconosce un fondamento legale all'ordine logico delle questioni che, secondo un orientamento più rigorista, ne testimonierebbe la cogenza.
Tale impostazione di fondo rievoca la teoria, di derivazione germanica, ma recepita anche in Italia dalla dottrina e dalla giurisprudenza (Cass., S.U., n. 2078/1990; Cass., S.U., n. 6737/2002; Cass., S.U., n. 3840/2007), del "doppio oggetto del processo", per cui il rapporto giuridico-processuale potrebbe astrattamente scomporsi: da un lato, le questioni di rito, che ineriscono all'ammissibilità della domanda di tutela di una situazione giuridica sostanziale, la cui realizzazione passa attraverso la sede processuale; dall'altro, le questioni di merito, che veicolano l'ambizione al bene della vita che il privato intende ottenere, il cui esame conduce ad una valutazione di fondatezza o infondatezza della domanda.
In questi termini, tra questioni pregiudiziali di rito e questioni di merito esisterebbe un'ontologica dipendenza sul piano logico, che vede le prime in un rapporto di presupposizione necessaria rispetto alle seconde, giacché solo la corretta instaurazione del rapporto processuale può condurre a scrutinare gli aspetti controversi del rapporto sostanziale, nonché ad apprezzare la fondatezza o l'infondatezza delle domande e delle eccezioni sottoposte all'esame del giudice.
Si verrebbe, dunque, a configurare non già una mera antecedenza logico-giuridica, bensì un nesso qualificato di pregiudizialità/dipendenza strutturale tale per cui la stessa esistenza di una decisione sul merito sottende imprescindibilmente
una positiva risoluzione delle questioni processuali presupposte. Tali questioni possono potenzialmente costituire un impedimento alla validità di una decisione sulla fattispecie sostanziale dedotta in giudizio.
Sicché, una pronuncia sul rapporto giuridico sostanziale postula necessariamente che vi sia stata una previa valutazione delle questioni processuali a monte, in senso ad essa non ostativo.
6.3.1. - Argomenti a sostegno dell'esistenza di una scansione ordinata rito/merito sono stati forniti da Cass., S.U., n. 24883/2008, che ha proposto una lettura del potere/dovere del giudice di rilevare d'ufficio il difetto di giurisdizione, nascente dal diritto positivo, in linea con i principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, delimitando in via interpretativa l'ambito applicativo dell'art. 37 c.p.c., nella versione antecedente alla riforma operata dal D.Lgs. n. 149 del 2022.
Detta pronuncia è stata ritenuta snodo fondamentale nel dibattito sulla possibilità di riconoscere il primato delle questioni di rito rispetto a quelle di merito nell'iter decisorio del giudice.
Infatti, in quella sede si è affermato che, attesa la strutturale dipendenza delle questioni meritali rispetto alla risoluzione in senso affermativo della questione inerente alla giurisdizione, l'adozione di una decisione sul merito implichi automaticamente l'affermazione della giurisdizione, in tal guisa precludendo il rilevo officioso del suo difetto nei gradi successivi al primo, necessitando la proposizione di specifico motivo di gravame perché la questione possa ancora essere oggetto di esame.
6.3.2. - La precedenza che, nell'iter decisorio del giudice, viene riservata dal dato legislativo alle questioni di diritto processuale precluderebbe - secondo un certo indirizzo - il ricorso al criterio della ragione più liquida, non essendo giuridicamente
configurabile una decisione del merito a valle che prescinda da una soluzione, a monte e in senso non ostativo, della pregiudiziale questione di rito. Diversamente, il criterio in esame potrebbe applicarsi, di regola, nelle ipotesi di compresenza di più questioni di merito.
In linea con tale esito interpretativo si registrano diversi arresti della giurisprudenza di questa Corte e paradigmatica è l'affermazione di Cass., S.U., n. 11799/2017, secondo cui "(l)'ordinamento nell'art. 276, secondo comma, c.p.c., stabilisce un ordine di esame e decisione delle questioni, distinguendo soltanto fra le questioni e, dunque, le eccezioni, pregiudiziali di rito e, genericamente, il "merito", mentre non stabilisce un ordine all'interno dell'esame di quest'ultimo (e, quindi, della pluralità di eccezioni, in ipotesi proposte). Tanto evidenzia che il giudice, mentre deve necessariamente seguire un criterio di decisione che gli impone di decidere prima le questioni di rito, in quanto esse pregiudicano astrattamente la possibilità di decidere nel merito, viceversa è libero di decidere sul merito, individuando la questione posta a base della decisione" (tra le altre, in senso conforme: Cass. n. 30745/2019; Cass. n. 6762/2021; Cass. n. 21859/2024).
6.3.3.- Secondo una diversa impostazione, seppur minoritaria in dottrina, la crescente valorizzazione di principi di caratura costituzionale, come la ragionevole durata del processo, il principio di economia processuale e il diritto al contraddittorio, impone di prescindere da una rigida e invariabile scansione, che anteponga l'esame del rito rispetto al merito: un ordine logico esisterebbe, ma andrebbe ricercato nel caso concreto e, dunque, risentirebbe delle specificità di ciascun rapporto giuridico-processuale.
Pertanto, in presenza di una questione, ancorché di merito, di più pronta soluzione, sarebbe possibile prescindere da un
preliminare esame di questioni di rito, la cui soluzione comporti la profusione di attività e di risorse processuali eludibili.
Ove, pertanto, il giudice sia investito di una questione di merito, suscettibile di definire celermente il giudizio, sarebbe superfluo imporgli di procedere ad un approfondito esame di questioni di rito, la cui soluzione dipenda da adempimenti istruttori che determinerebbero una inesorabile dilatazione delle tempistiche processuali.
In particolare, viene contrastata la natura precettiva dell'art. 276, comma secondo, c.p.c., che veicolerebbe una mera indicazione per il giudice, non essendo la sua violazione assistita da alcuna sanzione.
Tale orientamento tende, dunque, ad erodere la cogenza delle norme dalle quali l'opposta tesi trae argomenti per corroborare l'esistenza di una predeterminazione legale di un ordine idoneo a dare assetto all'/ter decisorio. In questi termini, non si imporrebbe un ordine di esame cogente tra questioni di rito e questioni di merito, ma un ordine a geometria variabile nel caso concreto, guidato e plasmato dall'impiego del criterio della ragione più liquida.
La tesi ha trovato eco in alcune pronunce di questa Corte e, in particolare, in Cass., S.U., n. 9936/2014, che ha affermato che "(i)n applicazione del principio processuale della "ragione più liquida" - desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost. - deve ritenersi consentito al giudice esaminare un motivo di merito, suscettibile di assicurare la definizione del giudizio, anche in presenza di una questione pregiudiziale" (analogamente: Cass. n. 12002/2014; Cass., S.U., n. 23104/2014; Cass. n. 11458/2018; Cass. n. 363/2019).
Questa impostazione, sebbene in linea con le istanze di semplificazione, celerità ed efficienza nella gestione delle risorse processuali, secondo parte della dottrina sarebbe in contrasto con alcuni fondamentali principi costituzionali, tra i quali il principio del giudice naturale precostituito per legge, il principio del contraddittorio (che, peraltro, la ragione più liquida dovrebbe garantire) e, in generale, il principio del giusto processo.
Si è osservato che un'incondizionata applicazione del criterio in questione potrebbe condurre anche a tradirne la stessa ratio. La completa liberalizzazione del suo impiego potrebbe sugellare, infatti, decisioni approssimative, suscettibili di caducazione in sede di gravame, per effetto delle quali si verrebbe a creare una rilevante diseconomia di sistema. E ciò potrebbe verificarsi, in particolar modo, quando la pregiudiziale non affrontata venga rilevata dal giudice superiore e determini la retrocessione della causa al grado in cui la questione si è posta (in particolare, nei casi previsti dall'art. 354 c.p.c.).
6.3.4.- Ulteriore posizione che occorre segnalare è quella che tende a circoscrivere l'ambito di operatività del criterio della ragione più liquida tra categorie di questioni di matrice omogenea: rito/rito - merito/merito.
Tale soluzione viene argomentata partendo dal presupposto che l'art. 276 c.p.c., nel contemplare la pregiudizialità delle questioni processuali rispetto a quelle di merito, non definisce una pregiudizialità interna alla categoria di questioni della medesima matrice.
Da ciò discenderebbe che le questioni di rito possano ritenersi tutte parimenti pregiudiziali rispetto a quelle di merito, ma fungibilmente pregiudiziali tra di loro (come accade, di regola, nei rapporti tra questioni di merito), non potendosi ravvisare nella
legge processuale un ordine predefinito, che imponga un preliminare esame di una determinata tipologia di questioni di rito rispetto a quello di un'altra. Esse, infatti, non sarebbero legate da un nesso di subordinazione, ma da un rapporto di concorrenza e di alternatività.
In senso difforme, depone un diverso orientamento dottrinale, incline a riconoscere il primato, nella progressione logico-giuridica che orienta l'attività decisoria, alle questioni riguardanti la regolare instaurazione del rapporto giuridico-processuale, la validità della domanda introduttiva, la regolarità della notifica, la capacità processuale delle parti e la partecipazione al giudizio dei soggetti rispetto ai quali si configura il litisconsorzio necessario.
Tale soluzione evoca a proprio fondamento la radicalità del vizio derivante dalla violazione delle relative norme, che valorizzano principi di rango costituzionale.
In questi termini, si intravvederebbe una sorta di primazia rafforzata in relazione a questioni processuali di questo tipo, giacché l'eventuale difetto dei requisiti posti alla base di tali norme minerebbe in radice l'esistenza stessa del processo, vanificando, non solo la decisione sulle questioni di merito, ma una qualsiasi forma di esercizio della potestas iudicandi, anche qualora essa si esprima in una pronuncia declinatoria di rito, senza dunque estendersi al merito.
In tali ipotesi, è possibile, dunque, che si ravvisi tra questioni di rito quello stesso rapporto di dipendenza strutturale che lega rito e merito.
7.- Delineati i termini del contrastato rapporto tra ordine logico delle questioni e criterio della ragione più liquida, occorre ora valutare le implicazioni che, a seconda che si aderisca all'una
piuttosto che all'altra soluzione, scaturiscono nel caso in cui venga adottata una decisione sul merito senza che si provveda in ordine alle questioni processuali.
7.1.- La tesi che nega la configurabilità di un ordine logico delle questioni, che comporti di anteporre l'esame del rito rispetto al merito, esclude che sulle questioni processuali possa formarsi il giudicato implicito, sostenendo che la decisione del merito lasci impregiudicato il potere di rilevazione officiosa nei gradi di impugnazione della pregiudiziale di rito, che a tale rilievo sia soggetta.
La doglianza che investa il merito della decisione sarebbe idonea automaticamente ad attrarre nella cognizione del giudice dell'impugnazione, "in ogni stato e grado", anche la questione di rito logicamente connessa.
Nella giurisprudenza di questa Corte incline a negare autonomia decisoria alle pronunce inerenti a questioni processuali si è, quindi, sostenuto che il giudicato sulle questioni processuali, esaurendo i propri effetti nella dimensione endoprocessuale (diversamente da quello di merito che produce effetti esterni, anche rispetto ad altri giudizi), non esprime alcuna utilità per la parte che se ne avvantaggi, neanche con riferimento ad altri giudizi.
Sicché, sarebbe sufficiente l'impugnazione del capo esplicito della sentenza vertente sul merito per far riemergere automaticamente la questione di rito implicata (tra le altre: Cass. n. 7941/2020), la quale sarebbe insuscettibile di acquisire una stabilità sua propria (dunque, di formare oggetto di giudicato implicito), potendo unicamente mutuare per osmosi quella che caratterizzi la statuizione esplicita sul merito, sulla quale si sia formato, quindi, un giudicato esplicito.
Le questioni processuali sarebbero così estromesse dall'area di copertura del giudicato implicito, risultando invece attratte nell'orbita di un giudicato esplicito che abbia ad oggetto le statuizioni sul merito.
Questo indirizzo interpretativo è stato oggetto di adesione da parte di Cass., S.U., n. 7925/2019, che, in continuità con Cass. n. 25906/2017, ha affermato che "(i)l giudicato interno, tuttavia, preclude la rilevabilità d'ufficio delle relative questioni solo se espresso, cioè formatosi su rapporti tra "questioni di merito" dedotte in giudizio e, dunque, tra le plurime domande od eccezioni di merito, e non quando implicito, cioè formatosi sui rapporti tra "questioni di merito" e "questioni pregiudiziali" o "preliminari di rito o merito", sulle quali il giudice non abbia pronunziato esplicitamente, sussistendo tra esse una mera presupposizione logico giuridica" (in senso conforme: Cass. n. 25906/2017; Cass. n. 12936/2024).
Inoltre, si è evidenziato come l'assenza di motivazione renda difficoltoso l'esercizio del diritto di difesa per il tramite dell'impugnazione, poiché, la parte, ignara dell'iter logico-giuridico che abbia sorretto la decisione implicita, sarebbe onerata di intraprendere un'azione "al buio" avverso una decisione "invisibile".
Ed ancora, in senso contrario alla possibilità di riconoscere il giudicato implicito sulle questioni processuali, si è posta in risalto la potenziale tensione tra decisione implicita e diritto al contraddittorio, sul presupposto che una questione possa ritenersi decisa dal giudice di merito soltanto ove abbia formato oggetto di discussione tra le parti (Cass. n. 7941/2020; Cass. n. 10361/2022; Cass. n. 10641/2023).
Parte della dottrina, in linea con questo indirizzo giurisprudenziale, ha anche evidenziato come le questioni
processuali siano inidonee ad assumere autonomamente autorità di cosa giudicata, giacché i presupposti processuali non concorrono a definire l'oggetto della domanda, ai sensi degli artt. 99 e 112 c.p.c., atteso che l'interesse veicolato per il tramite di quest'ultima è sempre di natura sostanziale.
Tuttavia, una siffatta impostazione ha incontrato l'obiezione per cui essa sembra postulare un'impropria equazione tra domanda e capi della sentenza, che si pone in contraddizione con la stessa nozione di "capo", il cui oggetto non si identifica con quello di domanda, ma più propriamente, appunto, nella soluzione di una questione (Cass., S.U., n. 21260/2016).
7.2. - L'orientamento che aderisce, invece, alla configurabilità di un ordine logico tra pregiudiziali di rito e merito ritiene in tal caso configurabile una decisione implicita sulla questione processuale.
In questa prospettiva ha luogo un fenomeno definito in dottrina e in giurisprudenza come assorbimento c.d. logico o necessario, che si profila quando la decisione esplicita su una questione strutturalmente dipendente da un'altra, non esplicitamente risultante nell'iter decisorio emergente dalla motivazione, sottenda un'implicita decisione su quest'ultima, logicamente prioritaria nel percorso decisionale del giudice.
Come si avrà modo di approfondire in seguito, la giurisprudenza di questa Corte è divisa sugli strumenti di reazione ai quali la parte possa ricorrere per compulsare l'esame della questione, decisa implicitamente nel grado in cui è emersa, da parte del giudice del grado successivo.
7.2.1. - Diversamente, la questione non decisa perché il suo esame è risultato superfluo in considerazione della sussistenza di una questione di più agevole e pronta risoluzione - e che, dunque,
abbia condotto ad una decisione fondata sul criterio della ragione più liquida - può riemergere senza limitazioni nei gradi successivi e la parte che intenda farla valere non è gravata dall'onere di una sua riproposizione ex art. 346 c.p.c., non verificandosi alcuna preclusione processuale che ne impedisca l'eccepibilità o il rilievo.
Si è pertanto in presenza di un omesso esame sintomatico di un'omessa decisione, a causa di un "assorbimento di fatto". Da ciò deriva che, formandosi il giudicato sulle questioni solo per il tramite di decisioni che le abbiano ad oggetto e mancando in radice una decisione, non solo sul piano formale ma altresì sul piano sostanziale, la questione non esaminata e non decisa non può che essere estromessa dall'area di copertura del giudicato (Cass. n. 11356/2006; Cass. n. 21266/2007; Cass. n. 5264/2015; Cass. n. 32650/2021).
7.2.2. - Sempre a sostegno della configurabilità del giudicato implicito su presupposti processuali (tra le altre, Cass. n. 6762/2021, in continuità con la già citata Cass., S.U., n. 21260/2016) si è affermato che ritenere che il legame tra questioni processuali e sostanziali si arresti al piano dell'antecedenza logica è frutto di un equivoco, atteso che la relazione tra le stesse si declina in senso molto più pregnante, configurando una dipendenza strutturale mono-orientata, che vede le prime necessariamente presupposte rispetto alle seconde, senza che valga il contrario.
Sicché, non potendosi configurare un rapporto di presupposizione reciproca, l'impugnazione che investa la statuizione di merito non vale ex se a rimettere in discussione la statuizione sulla questione di rito decisa esplicitamente o implicitamente, in assenza di una reazione che si indirizzi specificamente verso quest'ultima.
L'impugnazione che aggredisca la statuizione di merito non veicola la richiesta di una revisione della sua possibilità in rito.
Ciò in quanto, ove si domandi una riforma nel merito della sentenza impugnata, senza che venga contestata la possibilità di tale decisione in base alla legge processuale, la sua riforma nel giudizio di gravame non potrà che avvenire per ragioni di merito. Infatti, le questioni processuali sarebbero dotate di un'autonomia loro propria ai fini decisori, sebbene con efficacia endoprocessuale, e di conseguenza ai fini dell'impugnazione e del giudicato.
7.2.2.1. - Nel solco dell'orientamento incline a ravvisare il giudicato implicito su questioni processuali ove intervenga la decisione nel merito si colloca Cass., S.U., n. 11799/2017, la quale, inoltre, ascrive alla parte vittoriosa nel merito, ma soccombente in senso virtuale rispetto alla domanda di rito non esplicitamente decisa, l'onere di aggredire la sentenza attraverso l'impugnazione incidentale.
Una tale conclusione trae linfa dalla considerazione che la decisione implicita sia viziata per error in procedendo e ciò sul presupposto della cogenza della norma su cui l'ordine logico violato si fonda, ragione per la quale è necessario investire il capo della sentenza che ne sia attinto, sebbene implicito, facendo ricorso ad uno strumento tecnico di critica della sentenza.
Quando la parte, che avrebbe potuto giovarsi in primo grado della decisione sulla questione di rito, in quella sede sia poi risultata vittoriosa nel merito, la stessa rimane comunque titolare di un interesse ad impugnare, che rimane quiescente fino a che la parte soccombente nel merito non aggredisca la sentenza con l'impugnazione principale.
7.2.3. - Tuttavia, sul punto - ossia, sullo strumento necessario per inibire la formazione del giudicato implicito sulla
questione processuale - si registra un orientamento di segno contrario, che dà risalto alla circostanza per cui, nell'ipotesi in cui la parte soccombente nel merito interponga gravame, sarebbe eccessivamente gravoso onerare la parte, che invece sia risultata vittoriosa, dell'impugnazione incidentale, non potendosi in tal caso individuare un apprezzabile interesse ad impugnare una decisione favorevole.
Diversamente, risulterebbe sufficiente che essa si avvalga dello strumento della riproposizione, ai sensi dell'art. 346 c.p.c. nel primo scritto difensivo in appello, poiché la questione non decisa in primo grado è, comunque, già rientrata nel thema probandum e nel thema decidendum (Cass. n. 28078/2024).
Del resto, l'interesse che in tal guisa coltiverebbe la parte sarebbe solo strumentale ad una conferma della decisione a sé favorevole nel merito. Tale interesse a far valere un'eccezione di rito si apprezzerebbe solo in termini relazionali, in rapporto ad un'iniziativa coltivata dalla controparte volta a mettere in discussione l'esito decisorio della pronuncia di merito.
7.3.- Una divergenza di posizioni si intercetta, inoltre, sulla possibilità di ritenere incluse nel perimetro del giudicato anche le questioni rilevabili d'ufficio che, in via generale, riguardano violazioni di norme processuali preordinate a garantire il principio del giusto processo e che si riverberano in nullità assolute.
7.3.1.- Un primo indirizzo propende per una delimitazione cronologica in via interpretativa del rilievo officioso delle pregiudiziali di rito.
La conseguenza di tale impostazione è che, in assenza di reazione della parte interessata volta a far valere il mancato rilievo della questione, il potere/dovere di rilievo officioso dei giudici dei gradi successivi risulterebbe, in osservanza del principio di
autoresponsabilità in ambito processuale, neutralizzato e la statuizione implicita in senso non ostativo all'esame del merito si consoliderebbe, in linea con i principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo.
A sostegno di tale assunto si è invocato l'arresto di Cass., SU., n. 24883/2008, che - come già visto - ha delineato il concreto perimetro di operatività della rilevabilità d'ufficio della questione di giurisdizione, pur normativamente rilevabile in ogni stato e grado del giudizio ai sensi dell'art. 37 c.p.c., nella formulazione antecedente alla riforma recata dal D.Lgs. n. 149 del 2022.
In tale occasione si è affermato che - salvo i casi in cui si evinca che la pronuncia si estranei del tutto dalla questione di giurisdizione (così anche Cass., S.U., 26019/2008) - la decisione sul merito postula un preventivo vaglio, concluso con esito positivo, in ordine alla giurisdizione. Sicché, in assenza di conversione del vizio in motivo di impugnazione, ad opera della parte convenuta, l'implicita statuizione affermativa della giurisdizione si consolida, assumendo autorità di cosa giudicata.
La soluzione così declinata ha, poi, trovato un riscontro nel diritto positivo con il citato D.Lgs. n. 149 del 2022, che ha modificato l'art. 37 c.p.c. subordinando il rilievo del vizio nei gradi successivi alla sua conversione in specifico motivo di gravame ad opera della parte convenuta in primo grado.
Per effetto di tale riforma si è, dunque, operata una riconciliazione del piano normativo con quello applicativo recato, come innanzi già evidenziato, dal diritto vivente formatosi in ambito civilistico, dando seguito ad una scelta del legislatore che, nel diverso plesso della giurisdizione amministrativa, aveva già avuto modo di concretizzarsi tramite l'art. 9 del codice del processo amministrativo, di cui al D.Lgs. n. 104/2010.
7.3.2.- Per un secondo orientamento, invece, la rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado di una questione processuale, della quale sia mancata la considerazione nel grado precedente, rimarrebbe impregiudicata anche nelle ipotesi in cui la parte interessata non abbia speso un apposito motivo di gravame nel grado successivo, né, in quella sede, abbia riproposto tale questione.
La rilevabilità ultra-grado rifletterebbe la predeterminazione per via legale di una valutazione negativa circa l'idoneità al giudicato delle anzidette questioni attinenti, infatti, a vizi inemendabili/insanabili che danno luogo a nullità assolute, poiché derivanti dalla violazione di norme poste a tutela di interessi indisponibili, super-individuali.
9.- Così ricostruita, in sintesi, l'estensione del tema implicato dalle censure svolte con il primo motivo di ricorso e al quale dà specifico risalto l'ordinanza interlocutoria n. 17925/2024, queste Sezioni Unite ritengono che la soluzione alle questioni che vengono in rilievo sia quella sorretta dalle ragioni di seguito illustrate.
9.1.- La giurisprudenza di questa Corte si presenta, come si è visto, alquanto coesa nel riconoscere l'esistenza di un ordine logico di esame delle questioni, che consenta di anteporre nell'iter decisorio del giudice le questioni di rito di carattere pregiudiziale rispetto all'esame del merito.
Del resto, le cesure che si intercettano tra le soluzioni prospettate dai diversi orientamenti menzionati si addensano sulla tenuta di tale ordine e, quindi, sui suoi limiti.
9.1.1. - Tuttavia, è necessario, ancor prima, delimitare l'ambito in cui tale problematica possa validamente porsi e, con essa, quelle concernenti la configurabilità del giudicato implicito e
gli strumenti di reazione di cui la parte disponga per evitarne la formazione.
In quest'ottica, si rivela propedeutico circoscrivere il perimetro nel quale l'indagine può essere condotta, estromettendo da esso le ipotesi di decisioni del merito che prescindono dall'esame di questioni di rito rilevabili in ogni stato e grado del giudizio.
È bene precisare che la rilevabilità d'ufficio del vizio processuale, che trascende il grado del giudizio in cui esso si sia manifestato, è strettamente correlata in linea di principio, prima ancora che ad un'espressa previsione normativa, alla circostanza che il vizio discenda da una violazione che determini un vulnus rispetto ad interessi super-individuali, che concorrono a definire la nozione di ordine pubblico processuale, idonea a dar luogo ad una nullità assoluta.
In considerazione del fondamento sostanziale della espressa previsione della rilevabilità in ogni stato e grado, anche in assenza di una previsione legislativa che formalizzi la rilevabilità d'ufficio ultra-grado di un vizio di particolare gravità, quest'ultima, per il pregiudizio che il vizio infligge ai valori del giusto processo, va riconosciuta, nei gradi impugnazione, per via interpretativa, con la doverosa precisazione che tale estensione è possibile solo ove il vizio non sia rimesso dalla norma "in via esclusiva" alla sola iniziativa della parte.
Pertanto, un'interpretazione teleologica che investa prima la norma che codifica un determinato requisito processuale, poi il vizio scaturente dalla sua violazione, può condurre a consentire la rilevabilità ultra-grado pur quando essa non sia espressamente contemplata.
Si tratta di vizi qualificati, poiché riguardano presupposti "fondanti" la struttura e il funzionamento del processo. Essi possono derivare dalla violazione di norme processuali preposte alla tutela del diritto al contraddittorio (elemento costitutivo e indefettibile del processo, che trova presidio negli artt. 24, secondo comma, e 111 Cost. e, in una prospettiva di tutela multilivello, nelle norme sovranazionali di cui agli artt. 6 CEDU e 47 CDFUE), ovvero dal difetto di potestas iudicandi in capo al giudice davanti al quale si sia incardinato il rapporto processuale (Cass., S.U., n. 26019/2008).
Quanto alla prima categoria di violazioni, che si traducono in una definitiva menomazione del contraddittorio, esse producono un pregiudizio in re ipsa nei confronti della parte che le subisca.
Quest'ultima, pertanto, è esentata dall'onere di dimostrare che il proprio diritto al contraddittorio sia stato effettivamente vulnerato. Il contraddittorio si presume irrimediabilmente compromesso quando, in particolare, vengono violate norme che disciplinano la partecipazione al giudizio di soggetti in relazione ai quali si configura il litisconsorzio necessario (Cass. n. 23628/2006; Cass. n. 14820/2007; Cass. n. 7040/2020; Cass. n. 10641/2023; Cass. n. 10361/2022; Cass. n. 3134/2024).
Quanto alla seconda categoria di vizi che inficiano requisiti fondanti il processo, si tratta di violazioni che ridondano nel difetto di potestas iudicandi, minando in radice la validità del rapporto giuridico-processuale, che quindi, non costituendosi regolarmente, non può concludersi con una valida sentenza. Ove la mancata osservanza del prescritto requisito processuale non sia rilevata, né sanata, ove si tratti di vizi per i quali il legislatore ha predisposto meccanismi a ciò volti (si pensi ai vizi di cui agli artt. 164 o 182 c.p.c.; in termini, sull'art. 182 c.p.c., Cass., S.U., n. 4248/2016), e il giudice decida il merito, l'omissione si risolve in una sentenza inutiliter data (Cass., S.U., n. 21260/2016).
Le violazioni che evocano una patologia di questo tipo riguardano:
a) il difetto di legitimatio ad causam (Cass. n. 23568/2011; Cass. 24483/2013; Cass. n. 25906/2017; Cass., S.U., n. 7925/2019);
b) il difetto di interesse ad agire (Cass. n. 3330 del 2002; Cass. n. 19268/2016);
c) il difetto delle condizioni di proponibilità dell'azione (Cass. n. 2678/1999; Cass. 4553/1999; Cass. n. 9297/2007);
d) il difetto di rappresentanza processuale (Cass., S.U., n. 4248/2016);
e) le decadenze verificatesi per effetto dello spirare di termini perentori per la proposizione dell'azione (Cass. n. 20978/2013; Cass. n. 32637/2019; Cass., S.U., n. 8501/2021);
f) il ne bis in idem: l'esistenza di un giudicato interno o esterno, ove risultante dagli atti del processo (Cass., S.U., n. 226/2001; Cass., S.U., n. 10977/2001), la litispendenza (art. 39, comma primo, c.p.c.; Cass., S.U., n. 9409/1994; Cass. n. 7478/2011; Cass. n. 26862/2016);
g) l'inesistenza della sentenza (paradigmaticamente l'art. 161, comma secondo, c.p.c., che prevede la nullità della sentenza per difetto di sottoscrizione).
L'importanza che rivestono tali questioni processuali rispetto a valori cardine dell'ordinamento costituzionale che attiene al diritto di difesa e al giusto processo impone, quindi, la loro rilevabilità d'ufficio nei gradi successivi a quello in cui esse si sono concretamente manifestate.
Tali questioni sono dunque estromesse dall'area di copertura del giudicato implicito, poiché riguardano violazioni che danno luogo a vizi insanabili, nonché inemendabili, salvo l'effetto preclusivo derivante dalla esistenza di una specifica statuizione del giudice di merito e dalla mancata impugnazione al riguardo (tra le altre: Cass., S.U., n. 26019/2008; Cass. n. 23568/2011; Cass., S.U., n. 11799/2017). E, del pari, sussisterà effetto preclusivo nel giudizio che segue la sentenza di cassazione con rinvio ex art. 383 c.p.c., ciò riguardando non solo le questioni dedotte dalle parti o rilevate d'ufficio nel procedimento di legittimità, ma, anche, quelle che costituiscono il necessario presupposto della sentenza stessa, ancorché ivi non dedotte o rilevate (sull'efficacia preclusiva della sentenza di cassazione con rinvio rispetto all'integrazione del contraddittorio si vedano: Cass. n. 6384/2001; Cass. n. 5061/2007; Cass. n. 4317/2016; Cass. n. 21096/2017; nonché rispetto al giudicato interno ed esterno, si veda: Cass. n. 2365/2025).
La soluzione che eccettua dall'area del giudicato implicito le questioni processuali "fondanti" si prospetta come necessaria implicazione di una comparazione tra ragionevole durata del processo e le altre garanzie costituzionali sottese alle norme processuali che recepiscono i valori strutturali del processo, all'esito della quale quest'ultime devono essere ritenute prioritarie (Corte cost., sentenze n. 111 del 2022 e n. 317 del 2009; Cass., S.U., n. 9611/2024).
Sicché, la prevalenza delle garanzie costituzionali sul giusto processo, rispettoso dei diritti di difesa e al contraddittorio, implica che le questioni afferenti a questo genere di violazioni, che non siano state rilevate nel grado in cui si sono poste, non divengano oggetto di giudicato e che, di conseguenza, rispetto ad esse non si ritenga neutralizzato il potere di rilievo officioso ultrattivo da parte dei giudici dell'impugnazione.
Un tale principio costituisce, dunque, rima obbligata, in linea con il dettato costituzionale.
In tal guisa "mai è dato al giudice, in nome del citato principio, eludere distinte norme processuali improntate alla realizzazione degli altri valori in cui pure si sostanzia il processo equo: e tali sono per l'appunto il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto a un giudizio nel quale le parti siano poste in condizioni di interloquire con compiutezza nelle varie fasi in cui esso si articola" (Cass., S.U., n. 36596/2021).
Il rilievo officioso del vizio nei gradi successivi, in definitiva, non può essere neutralizzato per effetto della mancata proposizione dell'impugnazione, né dell'omessa riproposizione ai sensi dell'art. 346 c.p.c.
In questa prospettiva, non assume rilievo decisivo stabilire se la questione sia stata affrontata o meno in modo esplicito o implicito nella decisione impugnata. La pregnanza assiologica delle norme processuali violate, e quindi del potere-dovere del giudice di rilevare d'ufficio un vizio processuale di tale gravità, capace di incidere sulla validità stessa del procedimento, rendono tale potere perciò solo inesauribile (tra le altre: Cass., S.U., n. 4248/2016; Cass. n. 21863/2019; Cass. n. 6762/2021; Cass. n. 4235/2023).
10.- Escluse le ipotesi anzidette, occorre quindi scrutinare i casi in cui una decisione sul merito sia stata adottata pretermettendo l'esame di una questione pregiudiziale di rito (non "fondante") rilevabile d'ufficio dal giudice, limitatamente al grado in cui essa si sia manifestata.
Orbene, le divergenze interpretative di cui si è innanzi dato conto in ordine alla configurabilità o meno di un ordine logico
decisorio vincolante, regolato dalla sequenza rito/merito, sono foriere di evidenti ripercussioni sistematiche rispetto all'estensione del giudicato implicito e conseguentemente rispetto agli strumenti per evitarne la formazione.
10.1. - Muovendosi nel primo ambito di indagine, l'ordine logico delle questioni si configura, come già evidenziato, in guisa di criterio decisorio che veicola istanze di economia processuale nell'ottica di una crescente valorizzazione del principio della ragionevole durata del processo.
Tuttavia, tali considerazioni non sono di per sé sufficienti a riconoscere all'art. 276, comma secondo, c.p.c. natura giuridica di norma inderogabile.
Deve ritenersi, piuttosto, che il fondamento della progressione, a questo punto solo tendenziale, che informa l'iter decisorio del giudice, sia da rintracciarsi in una relazione strutturale esistente tra la pregiudizialità di rito e la decisione che si innesta sulle regole di diritto sostanziale.
Come anche posto in rilievo nella memoria del pubblico ministero (nell'esercizio della sua funzione istituzionale di compartecipe alla costruzione della nomofilachia), si tratta, infatti, di un rapporto di presupposizione necessaria tra rito e merito in un'ottica di ragionevole durata del processo e di economia processuale, il quale prescinde da una formalistica e prescrittiva scansione ordinata rito/merito evinta dall'art. 276 c.p.c., che, pertanto, non esprime un valore cogente.
Argomenti per negare l'indefettibile primazia delle questioni pregiudiziali di rito rispetto al merito si rinvengono nella giurisprudenza di questa Corte non soltanto nei casi innanzi illustrati (già così Cass., S.U., n. 24883/2008), ma anche nelle ipotesi in cui dalla motivazione della sentenza emerga chiaramente
che l'evidenza della soluzione giuridica adottata nel merito abbia reso superflua l'esame di ogni ulteriore questione, prescindendo dalla sequenza logica e procedurale prevista dall'art. 276 c.p.c.
Che non sia configurabile un ordine logico normativamente imposto come cogente è affermazione anche di Cass., S.U., n. 26342/2014 (poi richiamata, in questa stessa prospettiva, da Cass., S.U., n. 4248/2016, citata), ove si afferma che: "se in linea generale è indubbio che le questioni pregiudiziali (o impedimenti o assorbenti) debbano essere esaminate prima di quelle da esse dipendenti, i parametri operativi ben possono essere molteplici, e quell'ordine è suscettibile di essere sovvertito. Tali parametri sono costituiti dalla natura della questione, dalla sua idoneità a definire il giudizio, dalla sua maggiore evidenza (c.d. liquidità), dalla sua maggiore preclusività, dalla volontà del convenuto".
L'impossibilità di prescindere dall'osservanza della scansione rito/merito è stata, quindi, sostenuta al limitato fine di escludere il cumulo tra una declinatoria di rito e una di merito, in linea con Cass., S.U., n. 3840/2007. Sotto il profilo logico-giuridico, infatti, il giudice, che si sia spogliato della potestas iudicandi, non può adottare una valida decisione, giacché "(l)a necessità di rispettare l'ordine delle questioni rito/merito ha, così, quale unica conseguenza la inammissibilità di un rigetto della domanda sia per motivi di rito che di merito: dell'avvenuta verifica dell'insussistenza del requisito processuale discende sempre l'impossibilità di pervenire anche ad una statuizione sul merito".
In questi termini, non può trovare seguito, nei suoi assolutizzanti presupposti, l'orientamento espresso da Cass., S.U., n. 11799/2017, che ha ravvisato un vizio di error in procedendo nella decisione per saltum del merito pretermettendo l'esame di questioni a monte di rito, in quanto il relativo omesso esame
sarebbe in violazione dell'art. 276 c.p.c. Una soluzione, questa, che non troverebbe comunque adeguato riscontro neppure nello stesso dato normativo evocato, atteso che l'inderogabilità non transita attraverso la previsione di una sanzione che ne assista la violazione.
10.2.- È, dunque, al rapporto di presupposizione necessaria che si riannoda la configurabilità di una decisione implicita idonea al giudicato interno e implicito.
L'orientamento incline a negare tout court la formazione del giudicato implicito su questioni processuali non coglie nel segno nel punto in cui degrada il rapporto esistente tra presupposti processuali e questioni di merito, relegandolo alla mera antecedenza logica.
La stretta connessione tra questioni di rito e questioni di merito si riverbera certamente su questo piano, ma quale conseguenza di una relazione propriamente strutturale. La dipendenza logica, in definitiva, non esaurisce i rapporti tra questioni di rito e questioni di merito, ma costituisce il riflesso di un nesso strutturale che lega le une alle altre.
Dunque, valorizzare la presupposizione logica, sganciandola da quella strutturale, significherebbe depotenziare le regole che danno assetto al processo rendendo di fatto possibile che esso conduca alla risoluzione della controversia nel merito.
Né, del resto, è insuperabile l'argomento secondo cui i presupposti processuali non sarebbero suscettibili di costituire oggetto di un autonomo capo della sentenza, poiché, invece, è dato "attribuire alla locuzione "parte di sentenza" contenuta nell'art. 329 c.p.c., comma 2 e art. 336 c.p.c.... ogni singola statuizione risolutiva d'una questione controversa avente una propria individualità ed autonomia sì da dar luogo ad un decisum del tutto indipendente da quelli resi sulle altre questioni, cui debba riconoscersi carattere imperativo" (Cass., S.U., n. 25246/2008; analogamente, per l'affermazione secondo cui la questione pregiudiziale "dà luogo ad un capo autonomo della sentenza e non costituisce un mero passaggio interno della decisione di merito, come si desume dall'art. 279, secondo comma, n. 2 e 4, c.p.c.": Cass. S.U., n. 1764/2011; Cass. n. 4908/2017; anche Cass., S.U., n. 21691/2016).
E in tale prospettiva si colloca anche attenta dottrina, sebbene incline a ravvisare nell'art. 342 c.p.c. la preclusione alla rivalutazione di c.d. "micro-capi" del provvedimento decisorio.
10.3. - Su tali premesse, dunque, è possibile, sebbene non necessario, che sulle questioni processuali non espressamente decise si formi il giudicato implicito, istituto al quale sono insite istanze di garanzia della certezza della tutela giurisdizionale in tempi ragionevoli.
Ove il merito sia stato deciso nel senso dell'accoglimento della domanda di parte, senza alcuna specificazione in ordine alla soluzione della questione di rito a monte, la statuizione di merito sottende necessariamente una decisione della questione di rito in senso non ostativo alla decisione di merito.
Queste considerazioni non possono invece trasporsi, tout court, nelle ipotesi in cui la decisione di merito si sia declinata nel senso del rigetto della domanda.
La possibilità di ravvisare una decisione implicita sulla questione di rito è subordinata al valore che il giudice abbia inteso assegnare alla "non decisione".
Infatti, proprio sul presupposto che non sia possibile attribuire valore cogente alla scansione rito-merito prevista dall'art. 276 c.p.c. e che il giudice possa validamente avvalersi del criterio
decisorio della ragione più liquida, è possibile che la decisione del merito sia avvenuta per saltum, ad esito di una scelta legittima di sovvertire l'ordine logico, neutralizzando il rapporto di presupposizione necessaria tra pregiudiziali di rito ed esame del merito.
Tale criterio decisorio mira a garantire la contrazione delle tempistiche processuali, la speditezza nella risposta giudiziaria in termini di tutela da accordare alle parti, esigenze abbinate al principio della certezza del diritto.
10.3.1. - Tuttavia, l'applicazione del criterio della ragione più liquida, in quanto efficace strumento di cui il giudice può avvalersi per ottimizzare le risorse a sua disposizione all'interno del singolo processo, garantendo una speditezza del suo svolgimento, deve accompagnarsi a doverose cautele.
Il giudice, infatti, nell'avvalersi del criterio della ragione più liquida, al fine di risolvere il merito della causa pretermettendo le questioni di rito, deve esercitare il potere in modo responsabile.
A tal fine, è necessario, anzitutto, che l'impiego del criterio della ragione più liquida non ne tradisca la ratio.
In dottrina si evidenzia, infatti, che l'omesso esame di una questione è idoneo a far regredire idealmente il processo, determinandone un arretramento nel grado successivo, dove la questione può riemergere ed eventualmente condurre a mettere in discussione gli esiti della controversia raggiunti in primo grado con riferimento alla questione in quella sede apparentemente di più pronta soluzione.
Tale conseguenza evidenzierebbe un netto contrasto con le istanze di speditezza, al soddisfacimento delle quali il criterio della ragione più liquida è preordinato. In tale ipotesi, le risorse e le
energie processuali, pur minime, profuse per la sua decisione, risulterebbero vanificate.
Questo rischio si accentua, in particolare, nelle ipotesi in cui l'assorbimento di fatto, a seguito della decisione della questione di merito più liquida, riguardi una questione processuale.
La regressione del giudizio di gravame a causa di una questione di questo tipo, non decisa nel grado in cui si è manifestata, non rivela particolare utilità per la parte vittoriosa nel merito, ove essa non manifesti uno specifico interesse a rimetterla in discussione. Infatti, l'interesse fatto valere in un rapporto giuridico-processuale è sempre di tipo sostanziale e sottende l'aspirazione ad un bene della vita che può garantire solo una decisione di merito.
In questi termini, un bilancio costi-benefici, da svolgersi tenendo in considerazione l'intera economia della dinamica processuale, avendo riguardo da punto di vista prospettico anche alle fasi d'impugnazione che potrebbero potenzialmente svolgersi, rivela l'insostenibilità di una soluzione che sia idonea a determinare una regressione del giudizio nei gradi successivi con riferimento a questioni processuali.
Per minimizzare i rischi connessi all'appesantimento in termini di oneri procedimentali, attività istruttorie e risorse processuali del giudizio d'impugnazione, il giudice che si avvalga del criterio della ragione più liquida deve, quindi, ponderare funditus la decisione sulla questione di pronta soluzione, non solo nell'attualità del grado in cui si trova ad esercitare la potestas iudicandi, ma altresì in una dimensione prospettica, verificando la tenuta della decisione espressa con riferimento ai potenziali gradi successivi.
Con ciò non si intende onerare il giudice di complessi accertamenti in ordine ad una questione che, essendo idonea a definire il giudizio celermente, non li richieda, ma piuttosto responsabilizzarlo nell'effettuazione del giudizio sulla tenuta della soluzione della questione che appaia idonea a definire rapidamente il giudizio, nell'ottica di una maggiore funzionalità del giudizio di merito.
Il secondo onere che il giudice è tenuto ad osservare per effettuare un impiego responsabile del criterio decisorio in esame impone di dare atto, nella motivazione della decisione, dell'applicazione del menzionato criterio decisorio.
L'opzione per l'impiego del criterio della ragione più liquida, esercitata in sede decisoria, deve essere esplicitata, rendendo la motivazione trasparente in ordine alla scelta di assorbimento.
L'iter logico-giuridico seguito dal giudice nella decisione non può, infatti, essere opaco, atteso che l'opacità si riverbera sulle garanzie delle parti, minandole. Il deficit di certezza in ordine al significato da assegnare alla "non decisione" comporterebbe incertezza in ordine agli eventuali strumenti di tutela da far valere nei gradi successivi. Sicché, le parti devono essere rese edotte in ordine alla scelta del giudice di propendere verso un assorbimento di fatto delle questioni di rito a monte occasionato da una decisione su una questione di merito di più pronta soluzione.
Tale onere motivazionale si impone in consonanza con la responsabilità del giudice di garantire il diritto di difesa e il contraddittorio. La trasparenza del percorso logico-giuridico osservato nella decisione, infatti, costituisce uno dei principali canali attraverso i quali viene consentito alla parte di impostare la propria tesi difensiva in eventuali giudizi di impugnazione, dopo esser stata resa edotta dell'impianto argomentativo sotteso alle statuizioni.
Il giudice è garante del contraddittorio, come evidenziato a più riprese dalla Corte costituzionale (da ultimo con la sentenza n. 96/2024), e anche la legislazione rivela una crescente attenzione verso la valorizzazione della vocazione assiologica di questa responsabilità del giudice a sua tutela. In questa ottica, infatti, si inseriscono gli innesti normativi che hanno caratterizzato la riscrittura dell'art. 101, secondo comma, c.p.c.; dapprima la L. n. 89 del 2009 e poi con il decreto legislativo n. 149 del 2022, che ha integrato il secondo comma dell'art. 101 del codice di procedura civile, inserendo un primo periodo che così recita: "(i)l giudice assicura il rispetto del contraddittorio e, quando accerta che dalla sua violazione è derivata una lesione del diritto di difesa, adotta i provvedimenti opportuni".
In questo equilibrio tra celerità e garanzie, si coglie il tentativo del legislatore di contemperare l'efficienza del processo con la sua legittimità costituzionale e convenzionale, riaffermando il ruolo centrale del contraddittorio come "un momento fondamentale del giudizio quale cardine della ricerca dialettica della verità processuale, condotta dal giudice con la collaborazione delle parti, volta alla pronuncia di una decisione che sia il più possibile "giusta"" (Corte Cost. sent. 96/2024). In questi termini, dunque, il principio del contraddittorio è affidato alla partecipazione collaborativa dei protagonisti della vicenda processuale.
Ciò posto, ove il giudice dia atto di essersi avvalso del criterio della ragione più liquida, prescindendo dall'esame della questione di rito a monte, non può ravvisarsi quel rapporto di presupposizione necessaria, che risulta spezzato dalla volontà del giudice di orientarsi secondo quel diverso criterio.
In questa prospettiva, è possibile concludere che condizione necessaria e sufficiente affinché possa ravvisarsi una decisione implicita delle questioni di rito, idonea al giudicato interno e implicito, è che possa ritenersi sussistente quel rapporto di presupposizione necessaria tra rito e merito.
In altri termini, quel rapporto strutturale non deve essere stato neutralizzato per effetto di un'esplicita statuizione contenuta nella motivazione della sentenza che dia atto che il giudice abbia ritenuto di pretermettere l'esame delle questioni processuali a favore della più pronta soluzione di una questione di rito.
11.- Può, dunque, procedersi all'esame del tema inerente allo strumento di reazione di cui può avvalersi la parte vittoriosa nel merito per far valere la patologia della sentenza per l'esistenza di un vizio processuale, oggetto di una questione decisa implicitamente.
Il nodo interpretativo da sciogliere riguarda l'individuazione del mezzo più appropriato per il quale questa possa optare, tra la riproposizione ai sensi dell'art. 346 c.p.c. e l'impugnazione (di regola: in via principale in caso di accoglimento della domanda, in via incidentale ove la domanda sia stata rigettata).
La riproposizione è volta ad estendere la cognizione del giudice dell'impugnazione ad una questione sottoposta in primo grado, ed in questa dimensione esaurisce i propri effetti.
Come affermato da Cass. 7700/2016, "al concetto della riproposizione deve ritenersi estraneo ogni profilo di deduzione di una critica alla decisione impugnata... e, quindi, di ciò che è connaturato al concetto di impugnazione e che con la riproposizione il legislatore ha inteso alludere, invece, alla prospettazione al giudice di appello di domande ed eccezioni che possano essere appunto soltanto "riproposte", cioè, proposte come lo erano state al primo giudice".
Diversamente, l'impugnazione si configura come un mezzo per sottoporre a critica la sentenza resa nel grado precedente e, pertanto, veicola una censura che si indirizza verso di essa. Per il suo tramite, la parte coltiva un interesse ad aggredire la decisione sulla questione e, per l'effetto, quest'ultima confluisce nella sfera di cognizione del giudice del grado successivo, che, pertanto, può e deve riesaminarla.
Ciò premesso, ritengono queste Sezioni Unite di dare continuità all'orientamento che individua l'impugnazione quale mezzo di reazione idoneo a far riemergere una questione processuale oggetto di decisione implicita.
Posto che la decisione nel merito implichi ex se una decisione di segno negativo sulla questione processuale presupposta, in assenza di una specificazione da parte del giudice che consenta di ravvisare decisione per saltum del merito fondata sul criterio della ragione più liquida, è possibile esercitare il diritto di difesa in ordine a quella statuizione implicita, facendo valere il vizio processuale attraverso la spendita di un apposito motivo di gravame.
In questo caso la censura passa attraverso la contestazione della violazione delle norme che disciplinano l'attività processuale implicata, mentre l'interesse a farla valere si apprezza con riferimento alla soccombenza su una statuizione implicita avente ad oggetto un'autonoma questione di tipo processuale.
In questi termini, non coglie nel segno l'orientamento che mira a distinguere tra soccombenza teorica e soccombenza pratica, riferendo l'onere di impugnazione solo a quest'ultima condizione, in base alla considerazione che solo in tali casi la parte manifesti un interesse ad aggredire la sentenza. Anche la parte soccombente
solo virtualmente, rispetto ad un'eccezione di rito, risultata poi vittoriosa nel merito, è titolare di un interesse ad impugnare la sentenza, che è però quiescente e condizionato (Cass. S.U., n. 31136/2024).
Esso, infatti, si attualizza solo in conseguenza dell'accoglimento dell'impugnazione principale, che esiti in una riforma della sentenza del primo giudice, comportando un sovvertimento degli esiti della controversia nel merito. Come evidenziato da Cass. n. 5456/2009, il condizionamento dell'impugnazione incidentale promossa dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, veicola l'interesse ad impugnare e consente ad esso di attualizzarsi.
Sicché, per il tramite dell'impugnazione incidentale la parte vittoriosa nel merito può scegliere se far valere il vizio processuale, sul quale la sentenza si sia basata, e per l'effetto, far riemergere nel giudizio di gravame la questione che tale vizio aveva ad oggetto, oppure prestare acquiescenza alla "non decisione", che si traduce, per la dipendenza strutturale che lega il merito al rito, in decisione (implicita) in senso non ostativo all'esame del merito.
In tal caso il vizio sarà sanato e la questione non potrà riemergere, poiché oggetto di giudicato interno e implicito. Si demanda, pertanto, alla parte la scelta di far riemergere la questione o di rinunciarvi e ciò anche sul presupposto che, trattandosi di una questione di tipo processuale e non sostanziale, l'impugnazione costituisca il mezzo più idoneo ad apprezzare la serietà dell'interesse a farla valere.
Dunque, ove la parte assuma l'esistenza del vizio processuale oggetto di una questione implicitamente rigettata, l'implicito rigetto fonderebbe una patologia della sentenza, meritevole di censura, la
quale non può che essere veicolata dall'impugnazione e, segnatamente, dall'impugnazione incidentale ove la parte che abbia maturato una condizione di soccombenza rispetto alla questione di rito sia poi risultata vittoriosa nel merito (Cass. n. 26850/2022; Cass., S.U., n. 11799/2017; Cass., S.U., n. 21260/2026).
Pertanto, in assenza di conversione del vizio in specifico motivo di gravame, ai sensi dell'art. 161 c.p.c., e, quindi, nel caso in cui la parte interessata presti acquiescenza, esso risulterà sanato con il conseguente consolidamento della decisione in senso incompatibile con l'accoglimento della questione di rito, che assumerà l'autorità di cosa giudicata con efficacia endoprocessuale.
12. - Da ultimo, giova soltanto precisare, alla luce di quanto innanzi evidenziato, che nel caso della decisione in base alla ragione più liquida, non essendovi alcuna decisione sulla pregiudiziale di rito, rispetto ad essa rimane pienamente esercitabile il potere di rilievo d'ufficio da parte del giudice del grado successivo.
13. - In conclusione, va enunciato il seguente principio di diritto:
"qualora il giudice di primo grado abbia deciso la controversia nel merito, omettendo di pronunciare espressamente su un vizio processuale rilevabile d'ufficio (in base alla norma del processo o desumibile dallo scopo di interesse pubblico, indisponibile dalle parti, sotteso alla norma processuale che stabilisce un requisito formale, prescrive un termine di decadenza o prevede il compimento di una determinata attività), la parte che abbia interesse a far valere detto vizio è onerata di proporre, nel grado successivo, impugnazione sul punto, la cui omissione determina la formazione del giudicato interno sulla questione processuale in applicazione del principio di conversione del vizio in motivo di gravame ex art. 161, comma primo, c.p.c., rimanendo precluso tanto al giudice del gravame, quanto alla Corte di cassazione, il potere di rilevare, per la prima volta, tale vizio ex officio.
A tale regola si sottraggono, così da consentire al giudice dei gradi successivi di esercitare il potere di rilievo officioso, i vizi processuali rilevabili, in base ad espressa previsione legale, "in ogni stato e grado" e i vizi relativi a questioni "fondanti", la cui omessa rilevazione si risolverebbe in una sentenza inutiliter data, ovvero le ipotesi in cui il giudice abbia esternato la propria decisione come fondata su una ragione più liquida, che impedisce di ravvisare una decisione implicita sulla questione processuale implicata".
14.- Può, dunque, ora esaminarsi il primo motivo di ricorso, oggetto di rimessione a queste Sezioni Unite.
Le considerazioni innanzi svolte consentono di ritenere il motivo infondato.
Giova, anzitutto, precisare, alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte (tra le altre: Cass. n. 9297/2007; Cass. n. 18344/2010; Cass. n. 22226/2014; Cass. n. 1115/2016; Cass. n. 12029/2017; Cass. n. 32029/2019; Cass., S.U., n. 25478/2021; Cass. n. 36593/2023), che la norma di cui all'art. 96 c.p.c., la quale disciplina la fattispecie risarcitoria speciale per responsabilità aggravata - ossia per l'uso strumentale del processo in vista di scopi diversi da quelli per cui è preordinato (c.d. lite temeraria) -, non pone una regola di competenza (e, dunque, non indica avanti a quale giudice si può esercitare un'azione di cui l'istanza è espressione), ma disciplina un fenomeno che si colloca all'interno di un processo già pendente e che si esprime nell'esercizio da parte del litigante di un potere all'interno di esso -quello di formulazione di un'istanza (e non della proposizione di un'azione) -, il cui esercizio impone al giudice di provvedere sull'oggetto della richiesta, la quale, dunque, è strettamente collegata e connessa all'agire od al resistere in giudizio.
Trova, infatti, rilievo un illecito di natura processuale, connesso allo svolgimento di un'attività giurisdizionale, per cui è logico corollario che solo il giudice di quella causa - ossia, la causa nella quale il comportamento scorretto è stato tenuto - sia chiamato ad esaminare il fondamento della domanda risarcitoria.
Ne discende, quindi, che il potere di rivolgere l'istanza, essendo previsto come potere endoprocessuale collegato e connesso all'azione od alla resistenza in giudizio, non può essere considerato (salvo il caso eccezionale in cui il suo esercizio sia rimasto precluso per una impossibilità di fatto o di diritto all'articolazione della domanda in quel processo) come potere esercitabile al di fuori del processo e, quindi, suscettibile di essere esercitato avanti ad altro giudice, cioè in via di azione autonoma.
Pertanto, quando un tale esercizio avvenisse, si configurerebbe come esercizio di un'azione per un diritto non previsto dall'ordinamento, il quale contempla, per l'appunto, il diritto al risarcimento del danno da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. soltanto come espressione del diritto di azione esercitato nel processo in cui è reclamata la tutela della situazione giuridica soggettiva principale.
Ne discende che l'esperimento dell'azione in una sede processuale diversa da quella in cui i presupposti di tale responsabilità si sono manifestati determina l'inammissibilità della domanda volta a richiederne l'accertamento.
Qualificando in questi termini il contenuto precettivo dell'art. 96 c.p.c., la sua violazione è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo. Si tratta, infatti, di una patologia che riguarda un presupposto fondante del meccanismo processuale, idoneo a
dar causa ad una situazione di "originaria indecidibilità" nel merito della domanda volta all'accertamento della responsabilità aggravata.
Il vizio in esame mina in radice l'esistenza della potestas iudicandi da parte del giudice, poiché comporta un difetto nella costituzione del rapporto-giuridico processuale, risolvendosi in una sentenza di merito inutiliter data. La questione avente ad oggetto tale vizio è, infatti, estromessa dall'area di copertura del giudicato implicito, perché non può costituire oggetto di una implicita decisione.
È in questa prospettiva che sono inconferenti i rilievi di parte ricorrente, per il cui tramite si invoca una decisione implicita sulla questione ad opera del Tribunale, sul presupposto che il contraddittorio tra le parti si fosse comunque dispiegato in sede di comparse conclusionali e memorie di replica, posto che su questo genere di questioni una decisione implicita non è in radice configurabile.
La sentenza impugnata risulta, quindi, immune da censure. La Corte d'Appello ha esercitato legittimamente il potere/dovere di rilievo officioso ultra-grado del vizio, dichiarando, per l'effetto, l'inammissibilità della domanda, sul presupposto che essa avrebbe dovuto essere proposta nel giudizio definito con sentenza n. 281/2014.
Il primo motivo di ricorso va, dunque, rigettato ed è opportuno disporre la restituzione degli atti alla Terza Sezione civile, a norma dell'art. 142 disp. att. c.p.c., affinché provveda alla decisione sui restanti motivi d'impugnazione, comunque riferiti a questioni di diritto estranee a quelle evidenziate nell'ordinanza interlocutoria di rimessione.
Con essi, infatti, si prospetta un error in iudicando circa l'applicazione della norma di cui all'art. 96 c.p.c., per non aver la Corte territoriale ritenuto che le azionate pretese risarcitorie per lite temeraria (in ragione della illegittima trascrizione sia del pignoramento (secondo motivo di ricorso), che del sequestro conservativo revocato (terzo motivo di ricorso)) non fossero suscettibili di integrare le ipotesi (eccezionali) di domande proponibili in un autonomo giudizio e ciò anche là dove, come nel caso, rilevassero una pluralità di illeciti (quarto motivo di ricorso).
P.Q.M.
rigetta il primo motivo di ricorso e rimette alla Terza Sezione civile la decisione sui restanti motivi.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, il 6 maggio 2025.
Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2025