Può una lavoratrice essere licenziata perché ha deciso di intraprendere un percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA)?
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 24245 del 31 agosto 2025, risponde di no: un recesso intimato in simili circostanze integra una discriminazione legata al sesso e alla maternità ed è quindi nullo.
La vicenda nasce nel 2017: una segretaria part-time di uno studio medico viene licenziata proprio mentre affronta la fase più delicata della fecondazione in vitro (FIVET). Il datore motiva il recesso con esigenze organizzative, legate al passaggio dell’ambulatorio a una cooperativa (MAF).
Il Tribunale di Udine respinge la domanda della lavoratrice, ma la Corte d’Appello di Trieste ribalta la decisione, riconoscendo la natura discriminatoria del licenziamento.
La Cassazione, investita dal datore, dichiara il ricorso inammissibile e conferma la nullità del recesso.
La disciplina di riferimento è l’art. 40 del d.lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità), che prevede un regime probatorio agevolato: quando il lavoratore fornisce elementi di fatto precisi e concordanti idonei a fondare una presunzione di discriminazione, spetta al datore di lavoro provare l’assenza di discriminazione.
Non si tratta di una vera inversione dell’art. 2697 c.c., ma di una deroga che tutela chi denuncia il trattamento ingiusto. Sul piano costituzionale rileva l’art. 37 Cost., che tutela la maternità e garantisce parità di condizioni nel lavoro. Inoltre, l’art. 2112 c.c. regola il trasferimento d’azienda, utile a verificare se il licenziamento fosse davvero necessario in caso di subentro organizzativo.
Secondo i giudici, diversi elementi hanno rivelato la natura discriminatoria del recesso:
la tempistica: per un anno nulla si muove, poi il licenziamento viene disposto proprio in concomitanza con la procedura FIVET;
la conoscenza diretta del datore, anche come medico curante, della volontà di maternità e delle terapie in corso;
la non necessità del recesso, poiché il passaggio alla cooperativa si configurava come trasferimento d’azienda con struttura produttiva sostanzialmente immutata; la segretaria, inoltre, era l’unica a essere stata licenziata.
Questi indizi sono stati ritenuti sufficienti a far scattare il meccanismo probatorio previsto dall’art. 40. Il datore avrebbe dovuto dimostrare che il licenziamento rispondeva a ragioni oggettive indipendenti, ma tale prova non è stata fornita. Le eccezioni sollevate – dall’omesso esame di fatti alla violazione di norme processuali – sono state tutte respinte perché miravano, in realtà, a una rilettura del merito.
La Cassazione ha confermato la nullità del licenziamento, con conseguente diritto della lavoratrice alla reintegrazione e al pagamento delle retribuzioni e contributi maturati. Restano valide solo le ipotesi tipiche di legittimo recesso: giusta causa, cessazione dell’attività, contratto a termine o mancato superamento della prova.
La pronuncia ribadisce un principio chiaro: la protezione contro la discriminazione copre non solo la gravidanza accertata, ma anche la fase progettuale della maternità e le scelte riproduttive. In altre parole, il cosiddetto “rischio maternità” non è un rischio d’impresa, ma una garanzia da rispettare nel rapporto di lavoro.
Cassazione civile sez. lav., ordinanza 31/08/2025 (ud. 08/07/2025) n. 24245
RILEVATO CHE
1. Con sentenza n. 41/2021, pubblicata il 12/03/2021, la Corte d'Appello di Trieste, in integrale riforma della decisione di primo grado del Tribunale di Udine, n. 75/2019, ha accolto il reclamo proposto da Si.Sa., accertando e dichiarando la nullità del licenziamento intimatole con lettera del I marzo 2017.
In primo grado, la lavoratrice aveva adito il Tribunale di Udine per ottenere l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole da As.Ro., suo datore di lavoro e medico di famiglia, per il quale aveva svolto il lavoro di segretaria part-time per 15 ore settimanali.
La ricorrente aveva sostenuto la natura discriminatoria del licenziamento, intimatole a cagione del genere ed in considerazione del percorso per la procreazione medicalmente assistita intrapreso. In subordine, aveva sostenuto l'illegittimità del recesso per l'insussistenza del giustificato motivo oggettivo.
Il Tribunale di Udine, all'esito della prima fase e poi dell'opposizione, aveva rigettato la domanda della Si.Sa.
2. Avverso tale pronuncia, la Si.Sa. aveva proposto reclamo, contestando, tra l'altro, che il Giudice di primo grado non avesse considerato l'assenza di prova sul rifiuto della lavoratrice di passare alle dipendenze della Cooperativa, la eccessiva ed ingiustificata rapidità del licenziamento in concomitanza con la procedura di procreazione medicalmente assistita, la non necessità del licenziamento medesimo in forza della disciplina sul trasferimento di ramo d'azienda, oltre ad altri indizi a suo dire confermanti l'intento discriminatorio.
3. La Corte d'Appello, dopo aver esperito attività istruttoria, ha accolto il reclamo della Si.Sa. ritenendo la sussistenza di numerosi dati di fatto ed argomenti logico-induttivi atti ad avvalorare la sussistenza di una oggettiva discriminazione di genere e, conseguentemente, andando di contrario avviso rispetto al giudice di primo grado, ha dichiarato la nullità del licenziamento.
4. Per la cassazione della sentenza propone ricorso As.Ro. affidandolo a sei motivi.
4.1. Resiste, con controricorso, Si.Sa.
4.2. Entrambe le parti hanno presentato memorie.
CONSIDERATO CHE
1. Con il primo motivo di ricorso si censura la decisione impugnata ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. allegandosi la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. e dell'art. 40 del D.Lgs. n. 198/2006 quanto all'onere probatorio relativo alla lamentata discriminazione.
1.1. Deduce parte ricorrente con il secondo motivo, ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la violazione dell'art. 112 c.p.c. in combinato disposto con l'art. 437 c.p.c., ed in ogni caso la violazione dell'art. 437 c.p.c. singolarmente considerato.
1.2. La terza censura, formulata ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. denunzia l'omessa valutazione di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, allegando, in particolare, che all'As.Ro. fosse noto sin dal 2014 che la ricorrente intendesse avere una gravidanza, nonché che fosse noto sin dalla primavera 2016 - ben un anno prima del licenziamento - l'inizio del percorso di Procreazione Medicalmente Assistita.
1.3. Con il quarto motivo, formulato ancora ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., si denunzia l'omessa valutazione di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti per non aver mai la Si.Sa. rivendicato la continuazione del rapporto di lavoro con la Cooperativa MAF.
1.4. Il quinto motivo lamenta, ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la violazione dell'art. 111, comma 6 Cost, art. 132 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c. con riguardo alla sussistenza, nella motivazione, di un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili
1.5. Con il sesto motivo, proposto ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. si allega la violazione degli artt. 115 c.p.c. e art. 437 c.p.c.
1.Il primo motivo di ricorso, con cui si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 e dell'art. 40 del D.Lgs. n. 198/2006) è inammissibile.
Va preliminarmente rilevato come debba evidentemente ricondursi ad un lapsus calami il riferimento all'art. 2087 cod. civ. in un motivo di censura che attiene integralmente, giusta anche il riferimento all'art. 40 D.Lgs. n. 198/2006, all'onere della prova in tema di diritto antidiscriminatorio.
Con riguardo alla violazione dell'art. 2697 cod. civ., va premesso che, per consolidata giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Sez. III, n. 15107/2013), la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all'art. 2697 cod. civ. è configurabile soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie.
Giova premettere, al riguardo, che la stessa difesa di parte ricorrente ammette, in via preliminare, che i principi di diritto correlati alla distribuzione dell'onere della prova siano stati correttamente enunciati in sentenza ma ne deduce, in punto di fatto, l'erronea applicazione in giudizio, atteso che la Corte avrebbe posto a fondamento del trasferimento dell'onere probatorio in capo al datore di lavoro la mera "vicinanza cronologica" tra la ricerca della maternità ed il licenziamento.
La piana lettura dello stesso motivo di censura, tuttavia, non induce a rinvenire siffatta esclusività e sufficienza della vicinanza cronologica né è dato riscontrarla in sentenza.
La Corte d'Appello ha correttamente applicato il principio di riparto dell'onere della prova in materia di discriminazione di genere, ai sensi dell'art. 40 del D.Lgs. n. 198/2006, il quale, come costantemente interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., fra le altre, Cass. n. 14206 del 2013; Cass. n. 23338 del 2018; Cass. n. 25543 del 2018; Cass. n. 1 del 2020; Cass. n. 3361 del 2023), non stabilisce un'inversione tout court dell'onere probatorio, ma un'attenuazione del regime ordinario in favore del ricorrente.
In particolare, ha affermato questa Corte che in tema di comportamenti datoriali discriminatori, l'art. 40 del D.Lgs. n. 198 del 2006 - nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità - non stabilisce un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'attenuazione del regime probatorio ordinario in favore del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall'art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso.
L'attenuazione dell'onere probatorio in favore della parte ricorrente implica che la stessa sia tenuta esclusivamente a dimostrare un'ingiustificata differenza di trattamento o una posizione di particolare svantaggio - nella specie, connessa alla auspicata gravidanza - dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge, competendo poi al datore la prova dell'assenza di discriminazione (Cfr., sul punto, Cass. n. 3361 del 2023).
Tale agevolazione probatoria si realizza quando il lavoratore fornisce elementi di fatto, anche non gravi, ma precisi e concordanti, idonei a fondare la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori, spostando così sul datore di lavoro l'onere di provare l'inesistenza della discriminazione.
2. Nella specie, la Corte territoriale, pur riconoscendo l'insufficienza di molti degli elementi indiziari dedotti dalla lavoratrice (punti 2.1-4 della motivazione della sentenza d'appello), reputati singolarmente e complessivamente ambigui e, quindi, non univocamente interpretabili come indizi del preteso scopo vessatorio, ha poi individuato ulteriori fatti e argomenti logico-induttivi ritenuti molto più chiari e precisi nel senso di avvalorare la sussistenza di una oggettiva discriminazione di genere (punti 5.1 e seguenti della motivazione della sentenza d'appello).
Tra questi, la Corte ha specificamente valorizzato la cronologia degli eventi, evidenziando l'inerzia preparatoria precedente il marzo 2017 per il passaggio alla Cooperativa Medici Assieme Friuli (MAF) e l'improvvisa accelerazione del licenziamento in concomitanza con la fase più delicata della procedura FIVET. L'As.Ro., infatti, aveva affermato di aver dovuto licenziare la lavoratrice il primo marzo 2017, perché a quella data era stato fissato il passaggio della gestione del suo ambulatorio alla MAF e la Si.Sa., che originariamente si era dichiarata disponibile al transito, gli aveva, a fine febbraio comunicato di aver cambiato idea. La Corte ha rilevato che nell'anno trascorso fra il 16 marzo 2016 - data in cui l'As.Ro. è diventato socio della Cooperativa - e il primo marzo 2017, nulla era stato predisposto dalla Cooperativa sul piano logistico ed organizzativo (predisposizione dei locali ecc.) talché - e tale valutazione deve ritenersi sottratta al sindacato di legittimità - è parsa alla Corte illogica la correlazione con tale evento del licenziamento intimato.
Ha, quindi, considerato la rilevanza - connessa all'accertamento di cui sopra - dell'avanzamento della procedura di FIVET in considerazione della sicura conoscenza da parte dell'As.Ro. della procedura di PMA della Si.Sa. (anche in quanto medico di famiglia di entrambi i coniugi e prescrittore dei farmaci necessari).
Ulteriori indizi argomentativi sono stati individuati nella non necessità giuridica del licenziamento, stante la sostanziale configurabilità dell'operazione come trasferimento d'azienda ex art. 2112 c.c. e, quindi, della circostanza in base alla quale, con il subentro della Cooperativa nella gestione dell'ambulatorio, la "struttura produttiva" dell'As.Ro. era destinata a restare del tutto immutata, avvalorata dal fatto che la Si.Sa. fosse l'unica segretaria ad essere licenziata fra i dipendenti dei medici che si avvalevano dei servizi della Cooperativa.
3. L'accertamento della Corte di merito circa la sufficienza degli indizi a far scattare l'onere della controprova a carico del datore di lavoro costituisce una valutazione di fatto incensurabile in sede di legittimità, se non implausibile, come nel caso di specie.
Ed invero, va rilevato che la scelta degli elementi che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui dagli stessi si deduce l'esistenza del fatto ignoto rientrano nell'apprezzamento di merito del giudice, insindacabile in Cassazione.
Il ricorso, lamentando un'erronea applicazione del riparto dell'onere della prova, mira in realtà a un inammissibile riesame del fatto e delle valutazioni compiute dal giudice di merito, non configurando una violazione di legge, ma una diversa interpretazione delle risultanze istruttorie, palesandosi, per tale via, inammissibile.
4. Il secondo motivo di ricorso (Violazione art. 112 c.p.c. in combinato disposto con l'art. 437 c.p.c.) con il quale si deduce un vizio di ultrapetizione per l'accertamento da parte della Corte d'Appello di un trasferimento d'azienda, questione asseritamente nuova e introdotta tardivamente in sede di reclamo, è infondato.
Giova evidenziare, con riferimento alla dedotta violazione dell'art. 112, che, nel giudizio di legittimità, deve essere tenuta distinta l'ipotesi in cui si lamenti l'omesso esame di una domanda da quella in cui si censuri l'interpretazione che ne abbia data il giudice di merito nel primo caso, infatti, si verte in tema di violazione dell'art. 112 c.p.c. e si pone un problema di natura processuale per la soluzione del quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all'esame diretto degli atti, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiesta; nel secondo, invece, poiché l'interpretazione della domanda e la individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento dei fatti riservato, come tale, al giudice di merito e, in sede di legittimità va solo effettuato il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (fra le altre, Cass. 7.7.2006 n. 15603; Cass. 18.5.2012 n. 7932; Cass. 21.12.2017 n. 30684).
Nella specie, pur deducendo parte ricorrente il vizio di ultrapetizione, appunta, in realtà, le proprie censure su aspetti valutativi dell'iter motivazionale in violazione di quanto statuito in sede di legittimità.
Si verte, allora, nell'ambito di una valutazione di fatto, totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto, in seguito alla riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., al di fuori dell'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost. ed individuato "in negativo" dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 13428 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017).
4.1.Va poi, rilevato che nel rito del lavoro, la preclusione in appello di un'eccezione nuova sussiste nel solo caso in cui la stessa, essendo fondata su elementi e circostanze non prospettati nel giudizio di primo grado, abbia introdotto in sede di gravame un nuovo tema d'indagine, così alterando i termini sostanziali della controversia e determinando la violazione del principio del doppio grado di giurisdizione; invero, il divieto di cui all'art. 437 c.p.c. si riferisce esclusivamente alle eccezioni, processuali e di merito, rimesse alla facoltà della parte interessata, e non alle mere difese e alle eccezioni in senso lato (cfr., sul punto, Cass. n. 2271 del 2021).
A guardar bene, la questione dell'esternalizzazione dei servizi alla cooperativa MAF è stata introdotta nel processo sin dalla fase sommaria del primo grado dallo stesso As.Ro., come motivo giustificativo del licenziamento. La Corte d'Appello ha, tra l'altro, esaminato tale profilo, rilevando che "con il subentro della Cooperativa nella gestione dell'ambulatorio la 'struttura produttiva' del dott. As.Ro. era destinata infatti a rimanere assolutamente inalterata" e che "l'unico cambiamento avrebbe riguardato la titolarità dei rapporti".
La deduzione della Si.Sa. in sede di reclamo circa la riconducibilità di tale esternalizzazione al fenomeno del trasferimento d'azienda ex art. 2112 c.c. e le sue conseguenze giuridiche (la non necessità del licenziamento) non costituisce un'eccezione nuova, ma una mera difesa volta a contestare la validità della controprova offerta dal datore di lavoro.
La Corte di merito ha, dunque, semplicemente valutato, nell'ambito del proprio potere di interpretazione e qualificazione giuridica dei fatti allegati, come dovesse essere letta la controprova offerta dal convenuto nell'ambito dell'originario thema decidendum, senza procedere ultra petita.
Tale qualificazione giuridica dei fatti allegati rientra nel sindacato di merito del giudice che, se implausibile, deve ritenersi incensurabile in sede di legittimità.
5. Il terzo motivo di ricorso, con cui si denunzia l'omessa valutazione di un fatto decisivo, quanto alla notorietà della ricerca di gravidanza da parte della ricorrente, è inammissibile.
Nella specie, il ricorrente lamenta l'omessa valutazione della circostanza che all'As.Ro. fosse nota la intenzione di intraprendere una gravidanza della Si.Sa. sin dal 2014 e l'avvio della PMA sin dal 2016, ritenendo tale fatto decisivo per escludere la discriminazione legata alla FIVET di marzo 2017.
Invero, l'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, conv. dalla L. n. 143 del 2012, prevede l'" omesso esame" come riferito ad "un fatto decisivo per il giudizio" ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico - naturalistico, non assimilabile in alcun modo a "questioni" o "argomentazioni" che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (cfr., in questi termini, fra le più recenti, Cass.n. 2268 del 2022).
Ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., l'omesso esame deve riguardare un "fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale) che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia)" (cfr. Cass. civ., Sez. Un., n. 8053/2014). Non è omesso esame se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. civ., Sez. Un., n. 34476/2019).
Nel caso di specie, la Corte d'Appello non ha omesso l'esame del fatto ma, anzi, lo ha valutato.
Il giudice di secondo grado ha esplicitamente posto in relazione le tecniche di inseminazione cui la lavoratrice si era sottoposta negli anni precedenti con le tecniche di fecondazione in vitro (FIVET) di marzo 2017. La sentenza ha individuato un "evento nuovo" (la procedura FIVET) che, per la sua maggiore probabilità di successo (indicata anche a pag. 30 della sentenza, con dati del Ministero della Salute percentuale di gravidanze su inseminazioni 11,3%, su trasferimenti FIVET 28,4%), avrebbe indotto il datore di lavoro al licenziamento.
Si evince da quanto detto non solo che l'esame del fatto non sia stato affatto omesso, ma, anzi, che lo stesso sia stato valutato dalla Corte nell'ambito di un'ottica di merito e inserito nel complessivo quadro indiziario, ritenendone la "novità" e la "decisività" in correlazione con la rapida insorgenza dell'intimazione di licenziamento. La Corte ha ritenuto che il "rischio" di gravidanza, tollerato dal datore in un momento precedente (IUI) potesse non essere più tollerato in un momento successivo (FIVET ad alta percentuale di successo).
L'interpretazione e la valenza probatoria attribuita a tali circostanze rientrano nell'apprezzamento di merito del giudice di secondo grado, la cui valutazione deve ritenersi non sindacabile in Cassazione atteso che il ricorrente non lamenta un'omissione, bensì ma una diversa valutazione del fatto, con istanza preclusa in sede di legittimità.
6.Il quarto motivo di ricorso afferente all'omessa valutazione di un fatto decisivo con riguardo alla mancata rivendicazione della continuazione del rapporto con MAF deve ritenersi del pari inammissibile.
Il ricorrente lamenta l'omessa valutazione del fatto che la Si.Sa. non avesse mai rivendicato la continuazione del rapporto di lavoro con la Cooperativa MAF, circostanza che, a suo dire, dimostrerebbe il rifiuto della lavoratrice e giustificherebbe il licenziamento. Posto, in premessa, quanto già affermato con riguardo alla violazione di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., la circostanza che la Si.Sa. non abbia proposto azione per la continuazione del rapporto con MAF è stata ritenuta pacifica tra le parti ed un fatto pacifico non è suscettibile di omesso esame ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
In ogni caso, la Corte d'Appello ha diffusamente esaminato il preteso "rifiuto" della lavoratrice di passare alle dipendenze della Cooperativa (punti 5.2.4 e 6.2.2 della motivazione), e lo ha ritenuto non provato, affermando che di tale rifiuto "non esiste alcuna prova certa". La valutazione della Corte, secondo cui del rifiuto non esistesse alcuna prova certa, è un apprezzamento di merito, incensurabile in sede di legittimità.
La decisività di un fatto non può essere apprezzata isolatamente, ma nel contesto del complessivo quadro probatorio e motivazionale. La Corte di merito, escludendo la prova del rifiuto, ha di fatto reso irrilevante l'inferenza che il ricorrente intendeva trarre da questa presunta "non-azione". L'argomento del ricorrente, quindi, mirava ad un riesame della valutazione di merito che è precluso in questa sede.
7.Il quinto motivo di ricorso, afferente alla denunzia di motivazione contenente un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e motivazione perplessa, è infondato.
Deve rammentarsi, preliminarmente, che il vizio di motivazione di cui all'art. 132 comma 2, n. 4 cod. proc. civ. e 111 Cost. può ipotizzarsi esclusivamente là dove la decisione riveli una obiettiva carenza nell'indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade essenzialmente qualora non sussista alcuna disamina logico - giuridica da cui si evinca il percorso argomentativo seguito (ex plurimis, Cass. n. 3819 del 2020). In particolare, la motivazione si considera apparente quando, pur se graficamente esistente, non consente alcun controllo sull'esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, non attingendo la soglia del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost. (cfr. Cass. civ. n. 13248/2020; Cass. civ. n. 23940/2017). Analogamente, la contraddittorietà deve essere manifesta e irriducibile.
Il ricorrente denuncia, nella specie, un vizio di motivazione apparente o irriducibilmente contraddittoria, sostenendo che la Corte d'Appello avrebbe ascritto la volontà discriminatoria alla Cooperativa MAF (terzo estraneo) invece che all'As.Ro.
Nel caso in esame, il riferimento della Corte (al punto 5.2.5 della sentenza d'appello) al fatto che la possibile gravidanza "avrebbe intralciato la realizzazione di uno degli scopi propri della società (Cooperativa)" è inserito in un contesto argomentativo articolato.
La ratio decidendi resta fondata sulla condotta dell'As.Ro. non avendo la Corte ravvisato alcuna volontà discriminatoria della Cooperativa, ma utilizzato, invece, la finalità di continuità del servizio propria della Cooperativa come un ulteriore elemento indiziario per supportare la tesi che la repentina insorgenza del licenziamento da parte del datore fosse legata alla gravidanza della lavoratrice.
Non si configura, quindi, alcun contrasto irriducibile nella motivazione, ma una complessa articolazione del ragionamento indiziario, la cui coerenza è incensurabile in sede di legittimità.
8- Il sesto motivo di ricorso, con cui si lamenta la violazione dell'art. 115 c.p.c. e dell'art. 437 c.p.c. per utilizzo di fatti estranei al processo è inammissibile.
Secondo quanto statuito dalle Sezioni Unite, per la violazione delle disposizioni che presiedono all'ammissione delle prove, occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione delle relative norme, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (cfr., SU n. 20867 del 20/09/2020), ed inoltre anche che una violazione delle disposizioni concernenti le prove non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest'ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).
Nella specie, il ricorrente lamenta che la Corte d'Appello abbia utilizzato, a pag. 30 della sentenza (come già accennato), dati statistici sulle percentuali di successo delle tecniche di PMA da una relazione del Ministero della Salute, ritenendoli elementi estranei al giudizio e non notori.
La questione dell'utilizzo del fatto notorio ai sensi dell'art. 115, comma 2, c.p.c., attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui esercizio, sia positivo che negativo, non è sindacabile in sede di legittimità, salvo l'assunzione a base della decisione di un'inesatta nozione del notorio ovvero solo in presenza di elementi specifici atti ad escludere l'utilizzabilità della nozione stessa (cfr. Cass. civ., sez. lav., n. 15715/2011; Cass. civ., n. 18748/2010; Cass. civ., n. 28349/2020).
Nel caso in esame, la Corte d'Appello ha utilizzato tali dati per supportare un'inferenza logica relativa alla "maggior probabilità di successo" della tecnica FIVET, come "evento nuovo" significativo nel quadro temporale del licenziamento.
Tale elemento, tuttavia, appare del tutto marginale nel complessivo impianto motivazionale della sentenza, non costituendo la ratio decidendi tout court di essa.
Peraltro, i dati relativi alle diverse probabilità di successo delle tecniche di PMA possono rientrare nella nozione di fatto notorio, data la loro reperibilità in fonti ufficiali e la loro progressiva diffusione nella conoscenza comune, o comunque costituiscono una nozione di fatto desumibile dalla stessa classificazione legislativa delle tecniche (L. 40/2004).
Si aggiunga che la stessa controricorrente aveva già introdotto in giudizio una relazione del Governo con simili percentuali, e che il ricorrente non ha mai contestato l'inesattezza di tali percentuali, ma solo il loro utilizzo.
Non si configura, dunque, alcuna violazione delle norme processuali indicate, rientrando la valutazione nell'apprezzamento di merito incensurabile.
Deve concludersi che parte ricorrente, nel formulare tale censura mediante ricorso per cassazione, non si è conformata a quanto statuito dal Supremo Collegio in ordine alla apparente deduzione di vizi ex artt. 360 co. 1 nn.3 e 5 e, cioè, che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr., SU n. 34476 del 2021).
8. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
9. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo con distrazione in favore dei procuratori di parte controricorrente, dichiaratisi antistatari.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell'art. 1 –bis dell'articolo 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Ai sensi dell'art. 52, comma 5, del D.Lgs. n. 196/2003, in caso di diffusione dispone che vengano omessi le generalità e gli altri dati identificativi di parte controricorrente.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 5.500,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge, da distrarsi in favore dei procuratori, dichiaratisi antistatari.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell'art. 1 –bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Ai sensi dell'art. 52, comma 5, del D.Lgs. n. 196/2003, in caso di diffusione dispone che vengano omessi le generalità e gli altri dati identificativi di parte controricorrente.
Così deciso in Roma l'8 luglio 2025.
Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2025.