Protezione complementare – Decreto Cutro – Vita privata e familiare – Radicamento – Proporzionalità

Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.29593 del 10/11/2025

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Protezione complementare – Decreto Cutro – Vita privata e familiare – Radicamento – Proporzionalità

La rivisitazione dell’istituto della protezione complementare operata dal D.L. n. 20/2023 (c.d. "decrreto Cutro"), conv. nella l. n. 50/2023, non elimina la tutela della vita privata e familiare dello straniero presente in Italia, poiché il sistema continua a richiedere il rispetto degli obblighi costituzionali e convenzionali.

La protezione resta riconoscibile quando il soggetto abbia sviluppato un radicamento sul territorio nazionale tale da rendere l’allontanamento, in assenza di ragioni prevalenti di sicurezza nazionale o ordine pubblico, una lesione sproporzionata della vita familiare o della vita privata.

È irrilevante che tale radicamento si sia formato durante la pendenza della domanda di protezioni maggiori.

La tutela richiede una valutazione di proporzionalità e bilanciamento nel caso concreto, secondo i criteri elaborati dalla Corte EDU e dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 24413/2021, considerando i legami familiari, la durata della permanenza in Italia, le relazioni sociali e il grado di integrazione lavorativa.

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Cass. civ., sez. I, sent. 10 novembre 2025 (ud. 4 novembre 2025) n. 29593

FATTI DI CAUSA


1. – Nel corso di un procedimento promosso da , proveniente dal Senegal, avverso la decisione, adottata dalla Commissione territoriale, di manifesta infondatezza dell’istanza di protezione internazionale presentata dal cittadino straniero, il Tribunale di Venezia, con ordinanza in data 24 giugno 2025 (qui iscritta al numero di registro generale 13309 del 2025), ha sollevato la seguente questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 363-bis cod. proc. civ.: “Se, per effetto dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 20 del 2023 e della conseguente abrogazione dell’art. 19, comma 1.1., terzo e quarto periodo, del testo unico immigrazione, approvato con il d.lgs. n. 286 del 1998, si debba ritenere che la tutela della vita privata e familiare dello straniero: a) è esclusa dall’ambito della protezione complementare e non è più garantita dall’ordinamento; b) è assicurata, tramite il rinvio operato dall’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 agli obblighi internazionali dello Stato, secondo i presupposti e i limiti individuati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, conformemente all’interpretazione che di essa ha dato la Corte europea dei diritti dell’uomo; c) è garantita secondo l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità in relazione agli artt. 5, comma 6, e 19 del d.lgs. n. 286 del 1998, come vigenti prima dell’emanazione del decreto-legge n. 113 del 2018, e in particolare dalla sentenza della Corte di cassazione, a Sezioni Unite, n. 24413 del 2021; d) è assicurata dall’applicazione diretta dell’art. 10 Cost.”.

2. – Il Tribunale di Venezia premette che il ricorrente ha chiesto l’accertamento dello status di rifugiato o il riconoscimento della protezione sussidiaria e ancora, in via subordinata, la concessione della protezione speciale “per rischio di persecuzione o di sottoposizione a tortura ovvero in ragione della sua vulnerabilità, della situazione socio-politica del Paese di origine o, infine, del processo di integrazione intrapreso sul territorio dello Stato”.

In punto di fatto, il Tribunale riferisce che la domanda di protezione internazionale è stata formalizzata dal diretto interessato alla Questura di Venezia il 5 febbraio 2024. In data 7 febbraio 2024, è stato convocato per il colloquio personale presso la Commissione territoriale di Verona, sezione di Padova, competente per l’esame dell’istanza, nell’ambito della procedura accelerata riservata ai cittadini stranieri provenienti da Paesi di origine considerati sicuri.

In sede di audizione amministrativa, il signor ha affermato di essere espatriato a causa della conversione al cristianesimo, che gli avrebbe inimicato i familiari e la popolazione della sua comunità locale, e di essere transitato per il Mali, l’Algeria e la Tunisia, dove avrebbe lavorato e vissuto in condizioni precarie. La Commissione territoriale di Verona – sezione di Padova ha ritenuto la vicenda riferita non credibile ed estranea all’ambito della protezione internazionale e ha rigettato la domanda per manifesta infondatezza.

La Commissione non ha ravvisato neppure la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione speciale ai sensi dell’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008.

3. – Il Tribunale di Venezia dà atto che, nel corso del giudizio, il ricorrente ha depositato documentazione attinente ad un contratto di lavoro a tempo determinato concluso il 2 maggio 2024, della durata iniziale di un mese, e successivamente prorogato dal datore di lavoro fino al 31 dicembre 2024. Sono state prodotte, a tal fine, una comunicazione di assunzione, comunicazioni di proroga del contratto di lavoro e buste paga relative ai mesi da maggio a ottobre 2024. È stata presentata anche documentazione attinente al percorso scolastico intrapreso presso il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti di Padova.

4. – Il Tribunale di Venezia ritiene che, allo stato degli atti ed in via di prima delibazione, non vi siano i requisiti per il riconoscimento delle due forme di protezione internazionale, oggetto della domanda articolata in via principale.

Di tenore diverso sarebbero, ad avviso del giudice a quo, le considerazioni da svolgere con riguardo alla domanda subordinata proposta dal ricorrente con riferimento alla protezione complementare.

Quest’ultima domanda non appare, al Tribunale di Venezia, sfornita di possibilità di accoglimento sotto il profilo della tutela del diritto alla vita privata e familiare, emergendo dagli atti il radicamento sociale e lavorativo del ricorrente sul territorio nazionale. Il giudice del merito osserva, però, che, a seguito della soppressione del terzo e del quarto periodo dell’art. 19, comma 1.1., del d.lgs. n. 286 del 1998, l’interpretazione del quadro normativo di riferimento si profila irta di difficoltà. Per un verso, infatti, la Corte di cassazione non ha ancora affrontato la questione in tutti i suoi risvolti applicativi. Per l’altro verso, nelle Sezioni specializzate dei Tribunali di merito si sono delineate diverse, e non pienamente convergenti, linee interpretative.

Secondo un orientamento, nel valutare la consistenza della vita privata e familiare in Italia del richiedente asilo cui sia stata rigettata la domanda di protezione internazionale, il giudice dovrebbe rifarsi alla consolidata interpretazione dell’art. 8 della Cedu che la Corte di Strasburgo ha dato nel tempo e non all’interpretazione maggiormente estesa operata dalla giurisprudenza nazionale sulla formulazione precedente del citato art. 19, comma 1.1.

Secondo un altro indirizzo, invece, in seguito alla novella legislativa del 2023, le situazioni di vulnerabilità continuerebbero a trovare tutela attraverso il divieto di refoulement (pericolo di tortura, di trattamenti inumani o degradanti, violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani nel Paese di origine), nonché, più in generale, alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali, tra i quali ultimi va ricompreso il diritto alla vita privata e familiare, da valutare secondo i criteri enucleati dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, in quest’ordine di idee, si dovrebbe tener conto dei principi elaborati, anche in materia di protezione umanitaria, dalla giurisprudenza della Corte di cassazione.

5. – Con decreto in data 25 luglio 2025, la Prima Presidente ha riscontrato la sussistenza dei requisiti, richiesti dall’art. 363-bis cod. proc. civ., per dare ingresso al rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Venezia e ha assegnato il fascicolo alla Prima Sezione civile.

6. – La Presidente Titolare della Sezione ha fissato l’udienza pubblica del 4 novembre 2025.

7. – In prossimità dell’udienza, l’Ufficio del Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo che la Corte enunci il principio di diritto secondo cui al cittadino straniero spetta tuttora la protezione complementare, pur dopo l’entrata in vigore del decretolegge n. 20 del 2023, convertito nella legge n. 50 del 2023, allorché ricorrano i presupposti per la tutela del suo diritto alla vita privata e familiare, secondo l’interpretazione dell’art. 8 della Cedu data dalla giurisprudenza di legittimità pronunciatasi nei confronti della normativa previgente.

8. – La parte privata ha depositato una memoria.

Secondo la difesa del , l’abrogazione di una parte dell’art. 19 del d.lgs. n. 286 del 1998 non sortirebbe alcun effetto riduttivo sui diritti dello straniero, giacché la normativa italiana dovrebbe comunque essere interpretata in modo da rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, tra i quali il rispetto della vita privata, ai sensi e per gli effetti dell’art. 117 della Costituzione, in conformità del diritto vivente elaborato dalla Corte di cassazione.

9. – Nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ., l’Avvocatura generale dello Stato ha concluso nel senso che, anche successivamente alle modifiche normative del 2023, la protezione complementare possa ritenersi comunque assicurata al cittadino straniero nel rispetto degli obblighi internazionali e costituzionali assunti dallo Stato italiano, ai sensi dell’art. 10 della Costituzione, quanto al diritto interno, e all’art. 8 della Cedu, sul versante degli obblighi internazionali. Secondo la difesa dell’Amministrazione, tale interpretazione, pur evitando un allargamento improprio della misura, garantirebbe il necessario equilibrio tra il diritto dello Stato di controllare gli ingressi e la tutela effettiva del diritto alla vita privata e familiare, tenuto conto della distinzione tra migrante radicato e non radicato.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il quesito pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Venezia verte sull’interpretazione degli artt. 19, comma 1.1., e 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, come risultanti dalle modifiche introdotte dal decreto-legge n. 20 del 2023, convertito, con modificazioni, nella legge n. 50 del 2023, con riferimento all’ambito applicativo dell’istituto della protezione complementare che, in tali disposizioni, trova la propria fonte legale di rango ordinario. In particolare, la questione interpretativa riguarda i presupposti e i limiti della tutela del diritto alla vita privata e familiare dello straniero.

Il Tribunale rimettente chiede alla Corte di cassazione di stabilire se, alla luce del mutato quadro normativo, la tutela della vita privata e familiare dello straniero sia ormai esclusa dall’ambito della protezione complementare o se continui ad essere garantita ed in quale ambito. In particolare, il giudice del merito interpella la Corte nomofilattica per sapere se l’approdo interpretativo cui essa è pervenuta con la sentenza della Prima Sezione civile 23 febbraio 2018, n. 4455, e con la sentenza delle Sezioni Unite 9 settembre 2021, n. 24413, possa continuare a rappresentare il diritto vivente e a orientare il percorso ermeneutico in vista della soluzione dei nuovi casi, o se i presupposti e i limiti della tutela debbano essere tracciati esclusivamente secondo le coordinate della giurisprudenza elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sull’art. 8 della Convenzione.

2. – Conviene prendere le mosse dal rilievo che il sistema della protezione dello straniero in Italia è articolato su tre pilastri: il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria e la protezione complementare, già denominata umanitaria. Di tali forme di protezione, mentre le prime due trovano fonte diretta nelle normative internazionali ed europee, la terza è un istituto riconducibile a previsioni dell’ordinamento interno. Lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, specificazione della medesima voce “protezione internazionale”, sono accordati in osservanza di obblighi europei ed internazionali: il primo, per proteggere la persona da atti di persecuzione; la seconda, per evitare che questa possa subire, in caso di ritorno nel paese di origine, un grave danno, con ciò intendendosi la pena di morte o l’essere giustiziato, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, ovvero la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Viceversa, la protezione complementare – non direttamente regolata dal diritto dell’Unione europea, che pure la contempla, rimettendo alla legislazione degli Stati membri se ed in quali termini riconoscerla – risponde a esigenze umanitarie, caritatevoli o di altra natura. Si tratta di una protezione nazionale, appunto complementare rispetto alla protezione internazionale, con una configurazione distinta e autonoma rispetto alle due forme di protezione maggiore (il rifugio e la protezione sussidiaria), il cui perimetro è affidato ad una clausola di carattere elastico, priva di fattispecie.

Le situazioni vulnerabili, da proteggere alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali gravanti sullo Stato italiano, derivano da cause non tipizzate dal legislatore e non necessariamente riconducibili ad un minus rispetto alle situazioni per le quali l’ordinamento appresta le misure tipiche dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria.

Difatti, l’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 115/2008/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, contempla la possibilità per gli Stati membri di estendere l’ambito delle forme di protezione tipiche sino a ricomprendere “motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura”, rilasciando allo scopo un apposito permesso che conferisca il diritto di soggiornare. In tali casi non viene emessa la decisione di rimpatrio. Se questa è già stata emessa, viene revocata o sospesa per il periodo di validità del permesso di soggiorno o di un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare.

L’art. 3 della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, consente l’introduzione o il mantenimento in vigore di disposizioni più favorevoli in ordine ai presupposti sostanziali della protezione internazionale, purché compatibili con la direttiva medesima.

Ai sensi del considerando (9) del regolamento n. 1348 del 2024 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 maggio 2024, che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione, è possibile per gli Stati membri riconoscere, oltre alla protezione internazionale, altri status umanitari nazionali secondo il loro diritto interno a favore di chi non possiede i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.

La possibilità di riconoscere status umanitari nazionali è contemplata anche nel regolamento n. 1347 del 2024 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 maggio 2024, recante norme sull’attribuzione a cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria. Tale regolamento, attraverso il riferimento ai “motivi diversi” rispetto a quelli previsti per le protezioni maggiori, riconosce la possibilità che lo straniero continui a rimanere legalmente nel territorio dello Stato. Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha sottolineato come gli Stati membri possano concedere forme di protezione umanitaria e caritatevole diverse e ulteriori rispetto a quelle riconosciute dalla normativa europea, purché non modifichino i presupposti e l’ambito di applicazione della disciplina derivata dell'Unione. Significativa, in questa direzione, è la sentenza della Corte (Grande Sezione) del 9 novembre 2010, nelle cause C-57/09 e C-101/09, nei cui paragrafi 116 e 117 si legge: "Va tuttavia rilevato che risulta dall'art. 2, lett. g), in fine, della direttiva [direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004] che essa non osta a che una persona chieda di essere protetta nell’ambito di un diverso tipo di protezione che non rientra nell'ambito di applicazione della direttiva stessa. La direttiva, al pari della Convenzione di Ginevra, muove dal principio che gli Stati membri di accoglienza possono accordare, in conformità del loro diritto interno, una protezione nazionale accompagnata da diritti che consentano alle persone escluse dallo status di rifugiato, ai sensi dell'art. 12, n. 2, della direttiva, di soggiornare nel territorio dello Stato membro considerato”.

3. – A livello nazionale, la protezione per “seri motivi di carattere umanitario” o “risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” ha attraversato diverse “stagioni”.

La protezione umanitaria, apparsa per la prima volta a opera dell’art. 14, comma 3, della legge n. 388 del 1993, sull’accordo di Schengen, trova la sua base di riferimento nell’art. 5, comma 6, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione, approvato con il d.lgs. n. 286 del 1998, il quale prevede che il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere adottati quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno, salva la ricorrenza di “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. Una tutela, quindi, concepita in chiave derogatoria rispetto al sistema generale delle norme sullo straniero, destinata a mitigarne gli effetti “espulsivi” quando contrari al senso di umanità o ad obblighi costituzionali e internazionali gravanti sullo Stato.

3.1. – Prima dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 113 del 2018, le disposizioni-cardine in materia di protezione umanitaria erano le seguenti.

L’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 (recante “Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato”) ne regolava i presupposti: “Nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”. A sua volta, il già citato art. 5, comma 6, del testo unico disciplinava norme e modalità di rilascio del permesso di soggiorno atto a garantire la protezione umanitaria: “(i)l rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione”. Inizialmente, l’art. 5, comma 6, del testo unico non prevedeva espressamente il rilascio di un corrispondente permesso di soggiorno. Questo è stato introdotto soltanto successivamente, prima in via regolamentare, e poi mediante una modifica apportata nel 2011 al medesimo art. 5.

A seguito dell’introduzione della protezione internazionale (con il d.lgs. n. 251 del 2007, intitolato “Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”), nelle due forme del riconoscimento dello status di rifugiato e di beneficiario di protezione sussidiaria, viene previsto che, in caso di non accoglimento della domanda di protezione internazionale, le competenti commissioni territoriali trasmettano gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 5, comma 6, del testo unico immigrazione, qualora sussistano “gravi motivi di carattere umanitario” (art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008).

3.2. – In tale cornice normativa, è intervenuto, in un primo tempo, l’art. 1 del decreto-legge n. 113 del 2018 (decreto sicurezza), che ha eliminato, dall’art. 5, comma 6, del testo unico immigrazione, il riferimento ai “seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” e, più in generale, ha espunto dall’ordinamento ogni riferimento al permesso di soggiorno “per motivi umanitari” contenuto in diversi testi normativi. Tuttavia, la medesima disposizione è intervenuta sulle qualifiche che danno titolo ai permessi di soggiorno sul territorio nazionale, specificando e declinando, in un ventaglio di ipotesi nominate, i seri motivi di carattere umanitario, nella disciplina antecedente affidati ad una formula rimessa all’integrazione del giudice. In particolare, il decreto-legge ha sostituito il comma 3 del citato art. 32 del d.lgs. n. 25 del 2008 con la previsione seguente: “Nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ricorrano i presupposti di cui all'articolo 19, commi 1 e 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno annuale che reca la dicitura ‘protezione speciale’, salvo che possa disporsi l’allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga. Il permesso di soggiorno di cui al presente comma è rinnovabile, previo parere della Commissione territoriale, e consente di svolgere attività lavorativa ma non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro”.

3.3. – La successiva stagione è inaugurata dal decreto-legge n. 130 del 2020. Esso:

- ha parzialmente ripristinato la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 5, comma 6, del testo unico immigrazione, con una dizione che riprende il richiamo agli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato, anche se non il riferimento ai seri motivi di carattere umanitario;

- è intervenuto sull’art. 19 del medesimo testo unico, cui fa rinvio l’art. 32 del d.lgs. n. 25 del 2008, modificato dal decreto sicurezza, allargando l’ambito del divieto di respingimento del comma 1.1., ricomprendendovi il caso in cui lo straniero rischi di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti (che sono equiparati alla tortura, in ciò allineandosi all’art. 3 della Cedu) e l’ipotesi in cui vi siano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 8 della Cedu), prevedendo a tal fine che si tenga conto della natura e dell’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.

3.4. – In questo contesto normativo, è intervenuto il decretolegge n. 20 del 2023, convertito, con modificazioni, nella legge n. 50 del 2023: in primo luogo sopprimendo il terzo e il quarto periodo dell’art. 19, comma 1.1., in tema di protezione speciale per esigenze di tutela della vita privata e familiare; in secondo luogo, modificando la disciplina dei permessi di soggiorno per cure mediche e per calamità, mediante riformulazioni testuali volte a restringere l’accesso a tali forme di permanenza sul territorio italiano; infine, introducendo il principio della non convertibilità dei citati permessi in permessi di soggiorno per motivi di lavoro, restringendo altresì la portata temporale di quello per calamità.

4. – Rispondendo al dubbio interpretativo sollevato dal Tribunale di Venezia, si tratta, in primo luogo, di stabilire se l’intervenuta soppressione di ogni riferimento, nell’art. 19 del testo unico, al rispetto della vita privata e familiare implichi la conseguente parziale riperimetrazione della protezione complementare, che non potrebbe più accogliere nel suo ambito la tutela della vita privata e familiare. Sebbene, nella formulazione precedente a quella attuale, la disposizione dell’art. 19 risultasse sostanzialmente autosufficiente attraverso il riferimento esplicito al rispetto della vita privata e familiare dello straniero (da prendere in considerazione in bilanciamento con le esigenze di sicurezza nazionale) e l’indicazione di parametri di riferimento (natura ed effettività dei vincoli familiari, effettivo inserimento sociale sul territorio nazionale, durata del soggiorno, esistenza di legami con il Paese di origine), il testo risultante dalle modifiche introdotte dal decreto-legge n. 20 del 2023 non può intendersi in senso ostativo al riconoscimento della protezione speciale per ragioni attinenti alla tutela della vita privata e familiare, rientrante nel novero degli obblighi internazionali, come sancito dall’art. 8 della Cedu, e costituzionali.

Difatti, è ancora presente, nel tessuto dell’art. 19 del testo unico, pur dopo le modifiche del 2023, il riferimento agli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano quale limite ad ogni forma di allontanamento della persona straniera, attraverso il richiamo espresso all’art. 5, comma 6, dello stesso testo unico.

Tra questi ultimi, va ricompresa la tutela della vita privata e familiare, espressamente considerata dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Inoltre, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, proclamato dall’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, rientra nel catalogo aperto dei diritti fondamentali, tutelati dagli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost., rinvenendo il suo fondamento in fonti sovraordinate rispetto alla legislazione ordinaria.

La permanenza di tale richiamo è idonea a riempire il vuoto lasciato dalla soppressione, nello stesso testo dell’art. 19, dei due periodi che specificavano i seri motivi inerenti alla vita privata e familiare da prendere in considerazione in sede di valutazione di una richiesta di rilascio di un permesso di soggiorno.

Anche nel nuovo ambiente normativo, pertanto, non sono ammessi il respingimento, l’espulsione e l’estradizione in violazione di obblighi costituzionali o internazionali, giacché la protezione della vita privata e familiare è oggetto di un diritto soggettivo ex art. 8 della Cedu, oltre che attuazione di obblighi costituzionali.

Come osserva esattamente il Pubblico Ministero, “la diversa soluzione, fondata essenzialmente sulla considerazione per cui il diritto europeo non impone agli Stati membri di prevedere titoli di soggiorno per motivi umanitari o compassionevoli, e parimenti, pur riconoscendo il principio di non-refoulement, non impone ai medesimi di prevedere il rilascio di un titolo di soggiorno a fronte di tali esigenze umanitarie”, trascura però di considerare il complesso delle norme nazionali “con uno sguardo di sistema, capace di collegare tra loro i diversi richiami, che invece pongono all’interprete limiti non eludibili”.

Tale conclusione è avvalorata dal quadro d’insieme che la disciplina legislativa in tema d’immigrazione restituisce, tuttora, all’interprete.

In sintesi, il comma 1.1. dell’art. 19 del testo unico, nella parte superstite dopo l’intervento abrogativo, continua a vietare il respingimento, l’espulsione o l’estradizione di una persona verso altro Stato, “qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6” del medesimo d.lgs. (nel testo risultante dal decreto-legge n. 130 del 2020, convertito nella legge n. 173 del 2020), che sono gli obblighi “costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. Tra questi ultimi risaltano gli obblighi di conformazione ai precetti della Convenzione Edu, le cui norme funzionano notoriamente da parametro interposto ai fini dello stesso sindacato di conformità dell’ordinamento interno alla Carta repubblicana.

Lo sforzo di interpretazione conforme alla Convenzione europea e alla giurisprudenza di Strasburgo, che deve sempre guidare i giudici nazionali, non risulta dunque affatto incompatibile con il tenore letterale delle disposizioni ancora in vigore, né si rivela eccentrico in prospettiva sistematica e teleologica, alla luce dell’intero contesto normativo ove le disposizioni stesse ultime si collocano (così Cass., Sez. I pen., 7 novembre 2024, n. 43082, depositata il 26 novembre 2024).

Deve, pertanto, escludersi che il decreto-legge n. 20 del 2023 abbia la forza e rivesta il significato di precludere l’applicazione di norme e principi di valore sovraordinato – che avevano cittadinanza nell’ordinamento a prescindere dalla formale vigenza delle norme soppresse – e quindi di limitare l’incondizionata osservanza, nel diritto interno, degli obblighi nascenti dall’art. 8 della Cedu.

Tale conclusione è avvalorata dalla giurisprudenza costituzionale. Invero, chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale promossa, in via principale, da alcune Regioni sulla questione di legittimità costituzionale del decreto-legge n. 113 del 2018, nella parte in cui eliminava dall’art. 5, comma 6, del testo unico il riferimento ai “seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano”, la Corte, nella sentenza n. 194 del 2019, ha osservato che “l’interpretazione e l’applicazione dei nuovi istituti, in sede sia amministrativa che giudiziale, sono necessariamente tenute al rigoroso rispetto della Costituzione e dei vincoli internazionali, nonostante l’avvenuta abrogazione dell’esplicito riferimento agli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano precedentemente contenuto nell’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione”. Nell’occasione, la Corte costituzionale ha altresì ricordato che nello stesso senso “si è espresso, in sede di emanazione del decreto impugnato, il Presidente della Repubblica il quale, nella lettera indirizzata al Presidente del Consiglio dei ministri il 4 ottobre 2018, ha sottolineato che «restano “fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato”, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia»”.

5. – Ciò posto, occorre definire i termini entro i quali tale tutela può essere accordata.

6. – Al riguardo, le opzioni delineate dal Tribunale rimettente sono tre, prospettate in alternativa tra loro.

La prima vuole che, alla stregua del rinvio agli obblighi costituzionali e internazionali, e dunque al parametro della tutela della vita privata e familiare secondo la previsione dell’art. 8 della Cedu, l’estensione del diritto corrispondente venga ad essere determinata non più entro i limiti disegnati dalla giurisprudenza di legittimità interna, ma secondo quelli, più stringenti, elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che distingue fra stranieri stabiliti, cioè regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale (settled migrants), e stranieri non stabiliti, cioè presenti sul territorio nazionale irregolarmente (non-settled migrants). In base a queste premesse, solo in casi eccezionali il rifiuto di un titolo di soggiorno richiesto da uno straniero non stabilito o illegalmente soggiornante determinerebbe una lesione della vita privata e familiare rilevante ai fini applicativi della Cedu.

La seconda ipotesi interpretativa ruota attorno all’idea che la tutela della vita privata e familiare dello straniero possa continuare ad esplicarsi in base ai criteri di valutazione enucleati dalla giurisprudenza di legittimità precedentemente all’entrata in vigore del decreto-legge n. 113 del 2018. Quantunque le formulazioni delle disposizioni normative che vengono in rilievo non siano perfettamente sovrapponibili (giacché, a differenza del precedente quadro normativo, le norme che ora regolano la protezione complementare non menzionano più i seri motivi di carattere umanitario), la tutela della vita privata, intesa come presupposto di una vita dignitosa e inscindibilmente connessa alla dignità della persona umana, opererebbe anche in base all’integrazione sociale raggiunta dallo straniero nel territorio italiano. In quest’ordine di idee, la precarietà del soggiorno non potrebbe essere invocata come criterio decisivo per negare tutela a chi, in un arco di tempo apprezzabile, ha realizzato nel paese ospitante una vita privata o familiare, compiendo sforzi per la propria integrazione nel tessuto sociale. La terza opzione ermeneutica prospetta che al ricorrente possa essere riconosciuto il diritto al rilascio di un titolo di soggiorno per la tutela della vita privata e familiare, sotto il profilo dell’integrazione sociale sul territorio dello Stato, in applicazione diretta dell’art. 10 Cost.

7. – Nella ricostruzione degli approdi cui è pervenuto il formante giurisprudenziale in merito alla possibilità di riconoscere la protezione complementare in favore di cittadine e cittadini stranieri che in Italia hanno realizzato una vita privata e familiare, il leading case al quale si deve la prima compiuta elaborazione è rappresentato da Cass. civ., Sez. I, 23 febbraio 2018, n. 4455.

Con tale pronuncia, la giurisprudenza di questa Corte ha aperto a una concezione allargata della vulnerabilità del migrante. Secondo tale arresto, occorre anzitutto valutare “la situazione oggettiva del paese di origine del richiedente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza”. Tale punto di avvio dell’indagine è ritenuto intrinseco alla ratio stessa della protezione umanitaria, “non potendosi eludere la rappresentazione di una condizione personale di effettiva deprivazione dei diritti umani che abbia giustificato l’allontanamento”. La condizione di vulnerabilità nel Paese di origine può anche non raggiungere il grado proprio delle protezioni maggiori, e quindi “essere la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute, non potendo tale primario diritto della persona trovare esclusivamente tutela nell’art. 36 del d.lgs. n. 286 del 1998, oppure può essere conseguente ad una situazione politico-economica molto grave con effetti d’impoverimento radicale riguardanti la carenza di beni di prima necessità, di natura anche non strettamente contingente, od anche discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del paese di origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili)”.

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È rispetto a queste condizioni di partenza che va operato il confronto con l’inserimento sociale nel Paese di accoglienza, anche se, a tal fine, “non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, indicandone genericamente la carenza nel paese d’origine, ma è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili”.

Si tratta di “una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza a cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.)”.

Con specifico riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, la sentenza n. 4455 del 2018 ha poi affermato che esso “può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali o inviolabili”.

Secondo la giurisprudenza, in particolare, il permesso di soggiorno per motivi umanitari si collega al diritto di asilo costituzionale, di cui all’art. 10, terzo comma, Cost., oltre che alla protezione complementare che la normativa europea consente agli Stati membri di riconoscere, anche per motivi umanitari o caritatevoli, alle persone che non possono rivendicare lo status di rifugiato e neppure beneficiare della protezione sussidiaria, benché siano minacciate nei propri diritti fondamentali in caso di rinvio nel paese d’origine (così, Cass., Sez. Un., 11 dicembre 2018, n. 32177 e n. 32044). Inoltre, i “seri motivi umanitari” sono tutti accomunati dallo scopo di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un’esigenza concernente la salvaguardia di diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale (Cass., Sez. I, 12 novembre 2018, n. 28996).

Tale indirizzo è stato confermato, dal collegio allargato della nomofilachia, con le sentenze 13 novembre 2019, n. 29459, n. 29460 e n. 29461. In particolare, le Sezioni Unite hanno affermato, con riguardo ai presupposti utili a ottenere la protezione umanitaria, che “non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano. Gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali; sicché … l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni. Le basi normative non sono, allora, affatto fragili, ma a compasso largo: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione”.

Successivamente, Cass., Sez. I, 28 ottobre 2020, n. 23720, dopo aver ricostruito la nozione di vulnerabilità alla luce dell’art. 8 della Cedu, ha affermato che un’ingerenza nell’esercizio del diritto al rispetto della vita privata e familiare è compatibile con il disposto della norma convenzionale solo se persegue uno scopo legittimo e possa ritenersi necessaria, in ragione di un bisogno sociale imperioso e in funzione di una proporzionata soddisfazione del legittimo scopo perseguito.

A sua volta, Cass., Sez. Un., 9 settembre 2021, n. 24413, ha puntualizzato che il diritto al rispetto della vita privata e familiare, di cui all’art. 8 della Cedu, costituisce un pre-requisito di una vita dignitosa e che tale diritto è inscindibilmente connesso alla dignità della persona, riconosciuto nell’art. 3 Cost., e al diritto di svolgere la propria personalità nelle formazioni sociali, riconosciuto nell’art. 2 Cost.

La sentenza ricorda che la disciplina della protezione umanitaria antecedente al decreto-legge n. 113 del 2018, nell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, qualifica tale forma di protezione (complementare rispetto alla protezione internazionale) come un catalogo aperto, legato a ragioni non necessariamente fondate sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o per l’incolumità psico-fisica del richiedente. Trattandosi di cause non normativamente tipizzate, le situazioni dei soggetti vulnerabili vanno protette alla luce degli obblighi costituzionali e internazionali. In particolare, le Sezioni Unite hanno ritenuto che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorra operare una valutazione comparativa della situazione del richiedente che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia con la situazione soggettiva ed oggettiva in cui il medesimo si troverebbe rientrando nel Paese d’origine, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato. I seri motivi di carattere umanitario che giustificano il riconoscimento della protezione possono, infatti, riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa. Ai fini della prova dell’esistenza di una vita privata, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto elementi rilevanti: lo svolgimento dell’attività lavorativa (anche se in forza di contratti di lavoro a tempo determinato e anche se remunerata con somme esigue: Cass., Sez. VI-1, 15 marzo 2022, n. 8373); la conoscenza della lingua italiana e la partecipazione ad attività di volontariato nonché ad attività svolte all’interno del centro di accoglienza (Cass., Sez. I, 11 marzo 2022, n. 7938); la frequenza di corsi di formazione professionale, di tirocinio formativo e di corsi scolastici (Cass., Sez. I, 28 luglio 2022, n. 23571); il lungo tempo trascorso in Italia (Cass., Sez. I., 31 marzo 2023, n. 9080). In merito alla vita familiare, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che debbono essere considerati: la presenza di figli minori in Italia (Cass., Sez. III., 13 giugno 2022, n. 19045), anche se non conviventi (Cass., Sez. I, 10 gennaio 2022, n. 467); l’esistenza di una stabile relazione affettiva instaurata con una donna italiana ancorché non convivente (Cass., Sez. I, 12 novembre 2021, n. 34096); la convivenza con moglie e figli in un centro di accoglienza (Cass., Sez. I, 22 gennaio 2021, n. 1347); il ricongiungimento del figlio maggiorenne con la madre soggiornante regolarmente in Italia, in mancanza di legami affettivi e socio-culturali nel Paese d’origine (Cass., Sez. I, 28 ottobre 2020, n. 23720).

7.1. – Le pronunce emesse da questa Corte all’indomani del decreto-legge n. 20 del 2023, pur non avendo affrontato in tutta la loro ampiezza gli interrogativi posti dal Tribunale rimettente, lasciano emergere aspetti di continuità con l’orientamento precedente. Così, Cass., Sez. I, n. 28162 del 10 luglio 2023, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto avverso un decreto di espulsione, adottato ai sensi dell’art. 13, comma 2, lett. b) del testo unico immigrazione, si è soffermata sulla necessità che il giudice esamini la complessiva condizione di vita privata e familiare allegata e documentata dal ricorrente, prendendo in considerazione la natura ed effettività dei legami personali, da considerarsi preminenti rispetto agli elementi suppletivi della durata del soggiorno e dell’integrazione sociale nel territorio nazionale del richiedente, in linea con la nozione di diritto all’unità familiare indicata dalla giurisprudenza della Corte Edu. Nella citata decisione, la Corte ha poi aggiunto che il diritto al rispetto della vita privata e familiare non solo è rimasto in vita nell’art. 5, comma 6, del testo unico immigrazione, ma continua ad essere tutelato dall’art. 8 della Cedu e rientra in quel “catalogo aperto” dei diritti fondamentali connessi alla dignità della persona e al diritto di svolgere la propria personalità nelle formazioni sociali, tutelati dagli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost., trovando dunque il suo fondamento in fonti sovraordinate rispetto alla legislazione ordinaria. Seguendo il medesimo ordine di idee, Cass., Sez. I, 22 ottobre 2025, n. 28104, ha ribadito che l’attuale testo dell'art. 19 del testo unico, pur non contenendo più un esplicito divieto di respingimento qualora l'allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, mantiene comunque il divieto di respingimento ove ricorrano gli obblighi di cui all’art. 5, comma 6, dello stesso testo unico, vale a dire il necessario rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Ne consegue che, in sede di opposizione al decreto di espulsione, il giudice non può esimersi dal valutare la eventuale condizione di non espellibilità dello straniero, esaminando la sua situazione personale nel complesso e non in base ad una valutazione atomistica, con specifici riferimenti al caso concreto e non astrattamente, utilizzando i criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte Edu; criteri che, in quanto idonei ad orientare la decisione, presuppongono la conoscenza e la valutazione ad ampio raggio della situazione individuale dello straniero.

7.2. – Più in generale, la Corte della nomofilachia ha tradotto in diritto vivente il processo di osmosi innestatosi, nella persistente inattuazione dell’art. 10, terzo comma, Cost., tra il diritto costituzionale di asilo e le forme di tutela derivanti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dalla protezione umanitaria. La sentenza delle Sezioni Unite 15 gennaio 2025, n. 935 – resa a proposito dell’applicazione della clausola discrezionale di cui all'art. 17 del Regolamento di Dublino III nelle ipotesi in cui il diritto europeo non offrirebbe una tutela da parte del giudice dello Stato membro di trasferimento corrispondente a quella garantita dalla protezione complementare italiana – ha affermato che la protezione complementare nel nostro ordinamento rappresenta il “necessario completamento del diritto d'asilo costituzionale”. Le Sezioni Unite hanno infatti osservato che “tutte le protezioni, compresa quella umanitaria, sono espressione del diritto di asilo costituzionale … Il diritto di asilo scaturisce direttamente dal precetto costituzionale e si colloca, come ha osservato sin da epoca risalente autorevole dottrina, in seno all’apertura amplissima della Costituzione verso i diritti fondamentali dell'uomo. Il diritto di asilo è quindi costruito come diritto della personalità, posto a presidio di interessi essenziali della persona e non può recedere al cospetto dello straniero bisognoso di aiuto, che, allegando motivi umanitari, invochi il diritto di solidarietà sociale”. Il diritto di asilo riconosciuto dall’art. 10, terzo comma, Cost., nelle sue varie declinazioni attuative in termini di protezione complementare garantisce un surplus, o, se si preferisce, un extra-margine di tutela rispetto a quella offerta dal diritto dell’Unione Europea e ha un contenuto più ampio rispetto al diritto di protezione fondato sulle protezioni maggiori, onde comporta una tutela che non è circoscritta all’impedimento dell’espulsione che sia dovuto all’applicazione del principio di non refoulement, ma contempla – a fronte di situazioni di specifica vulnerabilità – un diritto soggettivo al rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale diversa dal riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria. In sintesi, la protezione complementare (così come la protezione internazionale) vale a tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un’esigenza concernente la salvaguardia di diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale (Cass., Sez. I, 12 novembre 2018, n. 28996).

7.3. – Resta fermo che “la protezione non può essere accordata in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità”, non essendo ipotizzabile “un obbligo dello Stato italiano di garantire parametri di benessere economico e sociale a cittadini stranieri”. Difatti, “la situazione di vulnerabilità, giustificativa del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, non è integrata dall’allegazione di una generale condizione di povertà del Paese di provenienza, salvo che non sia accertato in concreto che essa raggiunga la soglia della carestia” (così Cass., Sez. I, 13 maggio 2025, n. 12768).

8. – Per quanto attiene alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, i principi generali da essa applicati si trovano compendiati nella sentenza Otite c. Regno Unito del 27 settembre 2022. In sintesi, anche se l’art. 8 della Convenzione non contiene un diritto assoluto per nessuna categoria di stranieri di non essere espulsi, la giurisprudenza della Corte dimostra ampiamente che esistono circostanze in cui l’espulsione di uno straniero darà luogo a una violazione dell’art. 8 della Convenzione (Üner c. Paesi Bassi, 18 ottobre 2006). Nella causa Boultif c. Svizzera, 2 agosto 2001, la Corte ha elaborato i criteri pertinenti utilizzati per valutare se una misura di espulsione sia necessaria in una società democratica e proporzionata allo scopo legittimo perseguito. Tali criteri sono i seguenti: la natura e la gravità del reato commesso dal ricorrente; la durata del soggiorno del ricorrente nel paese dal quale deve essere espulso; il tempo trascorso dal momento in cui è stato commesso il reato e la condotta del ricorrente durante tale periodo; la nazionalità delle varie persone interessate; la situazione familiare del richiedente, come la durata del matrimonio, e altri fattori che esprimono l’effettività della vita familiare di una coppia; se il coniuge era a conoscenza del reato al momento in cui ha contratto il matrimonio; se dal matrimonio sono nati figli e, in caso affermativo, la loro età; la gravità delle difficoltà che il coniuge rischia di incontrare nel paese verso il quale l’interessato deve essere espulso. La sentenza Üner ha esplicitato due criteri impliciti in quelli individuati nella sentenza Boultif: l’interesse superiore e il benessere dei minori, in particolare la gravità delle difficoltà che i figli del richiedente potrebbero incontrare nel paese in cui il richiedente deve essere espulso; la solidità dei legami sociali, culturali e familiari con il paese ospitante e con il paese di destinazione.

9. – Tanto premesso, il Collegio ritiene che, in base al quadro normativo e giurisprudenziale sopra ricostruito, la tutela della vita privata e familiare debba essere considerata alla luce degli obblighi internazionali e costituzionali, richiamati negli artt. 5, comma 6, e 19, comma 1.1., del testo unico immigrazione. L’adozione di un provvedimento di espulsione nei confronti di un migrante ormai sradicato dal contesto di provenienza, che nel periodo di permanenza in Italia, in attesa della definizione della sua richiesta di protezione internazionale, abbia creato legami familiari o abbia raggiunto un significativo grado di integrazione nel tessuto sociale e lavorativo, pur nella consapevolezza della natura precaria della sua permanenza, può configurare un’interferenza nella sua vita privata o familiare qualora l’allontanamento comporti la rottura delle relazioni personali, familiari o sociali così instaurate e lo esponga, a causa della grave compromissione dei diritti umani nel paese di origine, a una condizione di vulnerabilità o a un sensibile aggravamento della condizione di fragilità, tale da compromettere l’esercizio dei diritti fondamentali inerenti alla propria esistenza. Il diritto dello straniero al rispetto della propria vita privata e familiare intercetta un obbligo internazionale assunto dallo Stato italiano, inscritto nell’art. 8 della Cedu, e, in pari tempo, un obbligo costituzionale di solidarietà che si ricollega alla tutela della persona nei luoghi ove si svolge e si sviluppa la sua personalità. Il diritto di ogni persona al rispetto della sua vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della Convenzione, deve essere colto nella specificità delle sue condizioni, non nell’astrattezza di una qualificazione tipologica. Si tratta di un’operazione evidentemente centrale per valutare il profilo di vulnerabilità legato alla durata della presenza dello straniero sul territorio nazionale, all’effettività dei vincoli familiari e del suo inserimento sociale, comparati con il contesto economico, lavorativo e relazionale che il richiedente troverebbe rientrando nel paese di origine.

Tale diritto, pre-requisito di una vita dignitosa, è connesso al diritto di svolgere la propria personalità nelle formazioni sociali, riconosciuto nell’art. 2 Cost. I diritti umani, garantiti dalla Convenzione europea, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione: non solo per il valore da attribuire al generale riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo fatto dall’art. 2 Cost., sempre più avvertiti dalla coscienza contemporanea come coessenziali alla dignità della persona, ma anche perché, al di là della coincidenza nei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione. Il confronto tra tutela prevista dalla Convenzione e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla effettività e alla massimizzazione delle garanzie, in un quadro sistemico e attento ai bisogni reali della persona, fermo il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, in considerazione dei problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati.

10. – Lo straniero, anche irregolarmente soggiornante, gode di tutti i diritti fondamentali della persona umana. La Costituzione, al vertice delle fonti, adotta come meta-principio quello personalista. “Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato” – recita il già citato art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 – “sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”.

La Corte costituzionale ha, già da tempo, superato l’apparente ostacolo frapposto dal dato letterale dell’art. 3 Cost. (che fa riferimento ai “cittadini”), sottolineando che, “se è vero che l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando trattisi di rispettare [i] diritti fondamentali” (sentenza n. 120 del 1967), e ha chiarito, inoltre, che al legislatore non è consentito introdurre regimi differenziati circa il trattamento da riservare ai singoli consociati se non “in presenza di una ‘causa’ normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria” (sentenza n. 432 del 2005).

Nelle singole situazioni concrete, la posizione dello straniero può certo risultare diversa rispetto a quella del cittadino (sentenza n. 120 del 1967) e quindi non si può per ciò solo escludere la ragionevolezza della disposizione che ne prevede un trattamento diversificato.

Infatti, “la riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità dei diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni concrete, non possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non nella razionalità del suo apprezzamento” (sentenza n. 104 del 1969).

Muovendo da queste premesse, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 186 del 2020, ha affermato che la particolarità delle “situazioni concrete” può giustificare un diverso trattamento tra differenti categorie di stranieri legalmente soggiornanti, in ragione del motivo e della durata del loro soggiorno; ma non può giustificare il diniego dell’iscrizione anagrafica a coloro che hanno la dimora abituale nel territorio italiano, perché con ciò si riserverebbe “un trattamento differenziato e indubbiamente peggiorativo a una particolare categoria di stranieri in assenza di una ragionevole giustificazione”. È stato, così, riconosciuto che la norma che privava i richiedenti asilo del riconoscimento giuridico della loro condizione di residenti, incideva irragionevolmente sulla pari dignità sociale, riconosciuta dall’art. 3 Cost. alla persona in quanto tale, a prescindere dal suo status e dal grado di stabilità della sua permanenza regolare nel territorio italiano.

Orienta in questa stessa direzione anche la giurisprudenza della Corte di giustizia. Appare significativa la sentenza della Corte, Grande Sezione, 22 novembre 2022, nella causa C-69/21, con la quale la Corte del Lussemburgo, avuto riguardo all’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sul rispetto della vita privata e familiare, ha dichiarato, alla luce della propria giurisprudenza e di quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, che il diritto dell’Unione osta a che uno Stato membro adotti una decisione di rimpatrio o proceda all’allontanamento di un cittadino di un paese terzo, il cui soggiorno è irregolare e che è affetto da una grave malattia, allorché sussistono gravi e comprovati motivi per ritenere che il rimpatrio di tale cittadino possa esporlo, a causa dell’indisponibilità di cure adeguate nel paese di destinazione, ad un rischio reale di un aumento rapido, significativo e irrimediabile del dolore causato dalla sua malattia. A tal fine, la Corte di giustizia sottolinea che è necessario tenere conto delle condizioni di salute del cittadino di paese terzo, delle cure di cui fruisce nel territorio dello Stato membro, nonché di tutti i legami sociali da esso creati nelle more del suo soggiorno irregolare, valutandoli peraltro alla luce della particolare situazione di fragilità e dipendenza connessa al suo stato di salute.

11. – Le ragioni della solidarietà trovano espressione – oltre che nella disciplina dei divieti di espulsione e di respingimento e del ricongiungimento familiare – nell’applicabilità, allo straniero, della normativa sul soccorso al rifugiato e sulla protezione internazionale, nonché nell’osservanza degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano, che riempiono di contenuto l’asilo costituzionale. Vi sono diverse ipotesi nelle quali il diritto alla protezione consegue al riconoscimento di diritti fondamentali tutelati, oltre che dalla Costituzione, da obblighi internazionali vincolanti per il nostro Paese ai sensi degli artt. 2, 10, 11 e 117 Cost.

La giurisprudenza ha avuto modo di enucleare in concreto, sia pure senza pretesa di esaustività, le situazioni meritevoli di asilo sulla base di convenzioni internazionali cui l’Italia ha aderito e il cui rispetto implica il riconoscimento di una protezione al soggetto richiedente.

È stato, così, riconosciuto il diritto alla protezione speciale alla vittima di maltrattamenti e di violenza domestica subiti nel paese di origine, applicando la Convenzione del Consiglio di Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), in vigore anche per l’Italia dal 1° agosto 2014 (Cass., Sez. lav., 4 agosto 2022, n. 24272). Ancora, è stata richiamata la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, riconoscendo la protezione speciale a un richiedente asilo che aveva subito gravi torture in un paese di transito, in quanto titolare, nei confronti dello Stato italiano, paese di attuale dimora, dei diritti di cui all’art. 14, par. 1, della Convenzione (Cass., Sez. I, 8 febbraio 2023, n. 3768).

Sono per questa via tutelati diritti fondamentali della persona messi a rischio da alcune situazioni comunque caratterizzate da particolare drammaticità ed eccezionalità.

12. – In materia di immigrazione, le ragioni della solidarietà umana non possono essere affermate al di fuori di un corretto bilanciamento dei valori in gioco e non sono sempre destinate a prevalere in assoluto.

A livello di legislazione ordinaria, è emblematico il richiamo, contenuto nell’art. 19 del testo unico, alla clausola di salvezza, dell’art. 13 dello stesso testo unico, delle ragioni di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato. Ciò è in linea con quanto previsto dal par. 2 dell’art. 8 della Cedu, ai cui sensi un’interferenza nel godimento del diritto alla vita privata e familiare è giustificata se necessaria in una società democratica per il perseguimento della sicurezza nazionale, della difesa dell’ordine pubblico e della prevenzione dei reati o per il benessere economico del paese.

Del resto, nel sistema costituzionale italiano la tutela dei diritti è sempre sistemica e richiede il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela (Corte cost., sentenza n. 264 del 2012).

Nella giurisprudenza della Corte di legittimità vi è traccia eloquente della necessità di prestare attenzione, in questa materia, alle esigenze legate alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico. Ad esempio, Cass., Sez. I, 12 novembre 2024, n. 29125, ha affermato che, qualora lo straniero non rispetti le regole fondamentali della società in cui vorrebbe inserirsi, non può positivamente apprezzarsi alcuna integrazione sociale. Cass., Sez. I, 4 luglio 2025, n. 18238, a sua volta, ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso una pronuncia di merito che aveva negato la richiesta protezione complementare sul rilievo che la presenza del ricorrente sul territorio nazionale era stata contrassegnata dalla commissione di reati anche utilizzando diverse generalità, sintomatica di una personalità incline all’omesso rispetto delle regole e di un comportamento fonte di mancata integrazione e di allarme sociale.

In generale, preme sottolineare che le ragioni della solidarietà umana non sono di per sé in contrasto con le regole in materia di immigrazione previste in funzione di un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza ed integrazione degli stranieri: e ciò nella cornice di un quadro normativo che vede regolati in modo diverso – anche a livello costituzionale (art. 10, terzo comma, Cost.) – l’ingresso e la permanenza degli stranieri nel Paese, a seconda che si tratti di richiedenti il diritto di asilo o rifugiati, ovvero di migranti economici (Corte cost., sentenze n. 5 del 2004 e n. 250 del 2010; ordinanze n. 80 e n. 302 del 2004).

13. – Il Collegio non ritiene condivisibile la prospettazione, rigidamente alternativa, che il Tribunale rimettente sottopone alla Corte suprema, tra una tutela, asseritamente più ristretta, derivante dall’applicazione dei criteri giurisprudenziali elaborati dalla Corte di Strasburgo (ancorata alla distinzione “capitale” tra stranieri stabiliti, cioè regolarmente soggiornanti, e stranieri non stabiliti, cioè presenti sui territori irregolarmente), e una tutela secondo il diritto vivente nazionale, ritenuta più ampia rispetto a quella di matrice pattizia (perché non condizionata, nell’an, dalla liceità o meno dell’ingresso dello straniero e del suo soggiorno nel territorio dello Stato).

Innanzitutto, perché il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti protetti dalla Convenzione (cfr. Corte cost., sentenza n. 317 del 2009). Il giudice deve cogliere, nel congiunto operare degli obblighi convenzionali e costituzionali e nell’osmosi tra gli stessi, secondo una logica di “et et”, non un confronto tra due mondi tra loro distanti o separati, ma un completamento e un arricchimento delle posizioni soggettive coinvolte in vista di una tutela più intensa nel singolo caso, in esito a un bilanciamento ragionevole tra i diversi interessi in gioco.

Assumendo questo punto di partenza nella considerazione delle interrelazioni normative tra i vari livelli delle garanzie, è agevole constatare che la valutazione finale circa la consistenza effettiva della tutela in singole fattispecie è frutto di una combinazione virtuosa tra l’obbligo che incombe al giudice di adeguarsi ai principi posti dalla Cedu (nella sua interpretazione giudiziale, istituzionalmente attribuita alla Corte europea) e il valore assiologico della Costituzione italiana, in una dimensione valoriale di tutela universalistica della dignità del vivere. Nella Costituzione repubblicana, infatti, la stessa elencazione delle libertà democratiche di cui all’art.10, terzo comma, Cost. trova ancoraggio, e presupposto, nel diritto fondamentale a uno standard minimo di dignità della vita, che, in virtù del precetto costituzionale, è dovere dello Stato democratico italiano riconoscere a chiunque.

Né può trascurarsi di considerare che – diversamente dalla Carta dei diritti fondamentali, il cui art. 18 garantisce in modo espresso il diritto di asilo – nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo non viene sancito espressamente tale diritto, che trova invece una protezione ampia nella Costituzione, nel già citato art. 10.

Nel sistema Cedu, il migrante non è tutelato in quanto tale, ma in quanto persona cui sono attribuiti diritti, tra cui quello alla vita privata e familiare. Come regola generale, gli Stati hanno diritto, fatti salvi gli obblighi derivanti dai trattati, di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’espulsione degli stranieri, i cui diritti fondamentali vanno di volta in volta bilanciati con il diritto degli Stati di operare scelte sovrane in materia di politica migratoria e di accesso al territorio nazionale.

Questo spiega perché, nell’ambito del sistema della Convenzione, si inverte il rapporto che normalmente accompagna i diritti degli individui. Per regola generale, infatti, ogni qualvolta vi sia una interferenza delle autorità nel godimento di tali diritti, è lo Stato a dover dimostrare che essa è giustificata, tra le altre cose, dalla necessità, in una società democratica, di perseguire un suo scopo legittimo e dall’esigenza di un bisogno sociale imperioso di farlo. Al riguardo, la Convenzione costituisce “first and foremost a system for the protection of human rights” e ha lo scopo di garantire “not rights that are theoretical and illusory, but rights that are practical and effective”.

Quando, invece, si tratta di persone migranti, il punto di partenza torna ad essere il potere dello Stato, rispetto al quale l’esigenza di tutelare i diritti è un’eccezione da giustificare. Ampiezza e intensità degli obblighi convenzionali si determinano considerando che il controllo dell’immigrazione è un interesse legittimo degli Stati contraenti, che garantisce non solo la sicurezza ma anche il benessere economico del Paese.

14. – Diversamente da quanto sembra presupporre l’ordinanza di rimessione, non può seguirsi la tesi secondo cui i titolari del diritto convenzionale di cui all’art. 8, nella lettura offerta dalla Corte Edu, sarebbero esclusivamente i settled migrants, con esclusione delle cittadine e dei cittadini stranieri, magari in Italia da un tempo non breve e apprezzabilmente significativo, che siano in attesa dell’esame della loro domanda di protezione internazionale.

La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, infatti, guarda alla irregolarità della presenza dello straniero sul territorio nazionale, non già per fissare un limite soggettivo all’applicazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, ma, in un’operazione diretta ad attribuire adeguato rilievo a tutti i fattori che caratterizzano il caso concreto, per diversamente impostare la scala del bilanciamento e misurare la proporzionalità dell’interferenza dello Stato contraente. Il criterio, quindi, incide sull’ampiezza del margine di apprezzamento.

La Corte EDU ha elaborato una ricca giurisprudenza in relazione ai limiti che il diritto alla vita privata e familiare impone alla potestà degli Stati di controllare l’accesso al proprio territorio e, in particolare, di definire le condizioni per accedervi, risiedervi ed esserne allontanati.

È, infatti, con specifico riferimento all’allontanamento dello straniero che la giurisprudenza CEDU ha tracciato una distinzione tra l’ipotesi in cui l’allontanamento sia disposto in seguito a una condanna penale nei confronti di uno straniero cui sia già stato riconosciuto il diritto di risiedere nel territorio dello Stato (settled migrants) e la situazione di chi, al momento dell’allontanamento, sia privo di un regolare titolo di soggiorno.

Mentre con riferimento ai settled migrants e, specialmente a coloro che abbiano trascorso gran parte della loro vita nello Stato di accoglienza, la legittimità dell’espulsione presuppone l’esistenza di ragioni molto serie (Corte Edu, Grande Camera, 23 giugno 2008, Maslov c. Austria); in relazione, invece, alle ipotesi di allontanamento di stranieri che non soggiornino regolarmente nel territorio dello Stato, la Corte di Strasburgo ha elaborato criteri differenti che fanno, tra l’altro, riferimento alla misura in cui la vita familiare e privata dello straniero sarebbero compromesse dall’allontanamento e, in particolare, all’esistenza di ostacoli insormontabili alla creazione di una vita familiare e privata nel paese di origine, nonché alla presenza di esigenze di controllo dell’immigrazione e di ordine pubblico perseguite attraverso l’allontanamento. La Corte Edu ha altresì precisato che, qualora lo straniero abbia costruito la propria vita familiare o privata in un momento in cui era consapevole della precarietà del suo soggiorno, l’allontanamento configura una violazione della norma convenzionale dell’art. 8 solo in circostanze eccezionali (Pormes c. Paesi Bassi, 28 luglio 2020).

Per esempio, nel caso Jeunesse c. Paesi Bassi, 8 dicembre 2015, la Corte ha concluso che le circostanze del caso della ricorrente erano effettivamente eccezionali, tenendo conto cumulativamente di diversi fattori, quali il fatto che tutti i membri della famiglia, ad eccezione della ricorrente, erano cittadini olandesi e risiedevano legalmente sul territorio; che la ricorrente, cittadina del Suriname, era stata già cittadina olandese sino al 1975, anno in cui il Suriname aveva ottenuto l’indipendenza; che la sua situazione era nota alle autorità olandesi e da essa era stata tollerata per ben sedici anni, nel corso dei quali ella aveva costruito legami familiari, affettivi e culturali nel territorio di residenza; e che pertanto bisognava tener conto anche delle pesanti conseguenze che un eventuale allontanamento della ricorrente avrebbe avuto sui figli.

Sempre con riferimento alla distinzione tra settled migrants e stranieri irregolarmente presenti, la Corte Edu ha evidenziato che, quando la presenza dello straniero è tollerata dalle autorità nazionali, essa deve essere distinta dalla situazione di una persona irregolarmente presente nel territorio dello Stato e che non cerchi di ottenere la regolarizzazione della sua posizione (Jeunesse c. Paesi Bassi, § 103). In generale, la Corte Edu ha ritenuto che “even if a nonnational holds a very strong residence status and has attained a high degree of integration, his or her position cannot be equated with that of a national when it comes to the … power of the Contracting States to expel aliens” per i motivi consentiti, tra cui la commissione di reati, rispetto ai quali l’espulsione costituisce una misura preventiva, e non punitiva (Corte EDU, grande camera, Uner c. Olanda, § 55). Essa ha però ammesso che “there are circumstances where the expulsion of an alien will give rise to a violation of that provision” (ivi, § 56), e tali circostanze devono essere valutate alla luce di una pluralità di criteri. Tra questi, il tempo trascorso sul territorio è stato ritenuto particolarmente rilevante.

15. – Al quesito posto dal Tribunale lagunare, se, a seguito dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 20 del 2023, la tutela della vita privata e familiare continui ad essere assicurata secondo l’interpretazione data dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento al testo anteriormente vigente, in particolare con la sentenza n. 24413 del 2021, può rispondersi nel senso che, pur nel mutamento, in parte, del tessuto legislativo di riferimento, la sentenza delle Sezioni Unite n. 24413 del 2021, significativamente protesa alla elaborazione di principi di diritto ancorati alla Costituzione e al sistema Cedu, continua tuttora a orientare il giudice nell’interpretazione del complesso delle disposizioni che disciplinano la materia a seguito del decreto-legge n. 20 del 2023, convertito, con modificazioni, nella legge n. 50 del 2023, aiutando a comprendere la nuova disciplina di legge, ratione temporis applicabile.

L’abrogazione, per effetto del decreto-legge n. 20 del 2023, come convertito, dei due periodi dell’art. 19 del testo unico olim rivolti a specificare i seri motivi inerenti alla vita privata e familiare, riveste, pertanto, una portata limitata, perché incide esclusivamente sulla individuazione dei fattori e dei criteri che presiedono al necessario bilanciamento degli interessi in gioco. Il sistema perde così, in proposito, i tratti di tipicità normativa che era venuto ad assumere. L'interprete dovrà, d'ora innanzi, ripercorrere i sentieri tracciati dalla giurisprudenza e rinvenire, nei criteri - largamente sovrapponibili, e soggetti alla flessibile mediazione giudiziale - elaborati dalla giurisprudenza sovranazionale, già richiamati e fatti propri dagli arresti di questa Corte di legittimità, le orme da seguire per riempire di contenuto la formula elastica che egli deve applicare. Il giudice nazionale, al cospetto del caso al suo esame, è tenuto a far vivere i criteri dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e ribaditi dalla Corte di legittimità, rivolti a valorizzare i legami familiari, la durata della presenza della persona sul territorio nazionale, le relazioni sociali intessute, il grado di integrazione lavorativa realizzato.

Ad un analogo approdo è già pervenuta la giurisprudenza della Prima Sezione penale di questa Corte in numerosi arresti che hanno la pronuncia capofila nella citata sentenza 7 novembre 2024, n. 43082, depositata il 26 novembre 2024. Si è, difatti, affermato che l’espulsione dello straniero disposta, come misura alternativa alla detenzione, ai sensi dell’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, non può trovare applicazione, neppure dopo l’entrata in vigore del decreto-legge n. 20 del 2023, quando si risolva in un’ingerenza nella vita privata e familiare dell’interessato, vietata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, come interpretato dalla Corte Edu.

16. – Il giudice dovrà compiere l’operazione sussuntiva con rigore e, allo stesso tempo, con umanità.

Con rigore, perché la condizione di vulnerabilità derivante dallo sradicamento da una vita familiare in atto o da un’integrazione sociale realizzata o in corso di realizzazione nel territorio nazionale deve essere effettiva e non meramente programmata o desiderata.

Non si richiede, soprattutto ove venga in rilievo l’integrazione sociale, un percorso interamente compiuto; occorrono però segni univoci, chiari, precisi e concordanti, nella direzione intrapresa. È quanto richiede il senso stesso di una protezione complementare, la quale è volta, per sua stessa natura, a completare, in situazioni particolari, la tutela da situazioni di estrema fragilità legate alla dignità del vivere. Devono emergere una vita familiare improntata ad una reale comunione di vita o un legame dello straniero con la comunità nazionale sufficientemente forte da far ritenere che un suo allontanamento determini una violazione del suo diritto alla vita familiare o alla sua vita privata.

Ancora con rigore, perché la tutela della vita privata o familiare non comporta in modo automatico ed assoluto il diritto dello straniero che ne faccia richiesta ad ottenere una forma di protezione o a restare sul territorio nazionale. Il sistema richiede una valutazione di proporzionalità nel caso concreto, nel cui ambito siano soppesati i legami effettivi dello straniero con il territorio, da un lato, e le legittime esigenze dello Stato, come ad esempio il mantenimento dell’ordine pubblico, la tutela della sicurezza nazionale e la prevenzione dei reati. Tra i due aspetti non c’è antinomia. Un obbligo di protezione della vita privata e familiare dello straniero nei luoghi e nelle formazioni sociali di svolgimento e di sviluppo della sua personalità, scaturente dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali, in tanto può configurarsi in quanto, secondo una valutazione da effettuarsi caso per caso, i legami personali e l’integrazione sociale e lavorativa siano rivelatori di un radicamento effettivo nella comunità nazionale, di talché l’allontanamento dal territorio nazionale sia suscettibile di costituire fonte di vulnerabilità.

Ma anche con umanità, perché, quando viene in rilievo la persona umana in situazioni talora di estrema fragilità con la sua fondamentale esigenza di solidarietà, il giudice, nell’interpretare e nel dare applicazione alle disposizioni poste dal legislatore, concorre, nel doveroso rispetto dell’equilibrio tra la forza orientativa della fonte sovraordinata e il vincolo del testo, alla elaborazione di una norma giusta.

17. – Conclusivamente, va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “La rivisitazione, a opera del decreto-legge n. 20 del 2023, convertito nella legge n. 50 del 2023, dell’istituto della protezione complementare non ha determinato il venir meno della tutela della vita privata e familiare dello straniero che si trova in Italia, tanto più che il tessuto normativo continua a richiedere il rispetto degli obblighi costituzionali e convenzionali. Ne deriva che la protezione complementare può essere accordata in presenza di un radicamento del cittadino straniero sul territorio nazionale sufficientemente forte da far ritenere che un suo allontanamento, che non sia imposto da prevalenti ragioni di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, determini una violazione del suo diritto alla vita familiare o alla vita privata. Nessun rilievo ostativo assume il fatto che tale radicamento sia avvenuto nel tempo necessario ad esaminare le domande del cittadino straniero di accesso alle protezioni maggiori. La tutela della vita privata e familiare esige una valutazione di proporzionalità e di bilanciamento nel caso concreto, secondo i criteri elaborati dalla Corte Edu e dalla pronuncia a Sezioni Unite 9 settembre 2021, n. 24413, tenendo conto dei legami familiari sviluppati in Italia, della durata della presenza della persona sul territorio nazionale, delle relazioni sociali intessute, del grado di integrazione lavorativa realizzato e del legame con la comunità anche sotto il profilo del necessario rispetto delle sue regole. Tali elementi vanno messi in comparazione con l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il paese d’origine e con la gravità delle difficoltà che il richiedente potrebbe incontrare nel paese verso il quale dovrebbe fare rientro”.

18. – Le spese del grado di legittimità vanno compensate, data la grave difficoltà interpretativa.

Va disposta, in caso di diffusione, l’anonimizzazione dei nominativi e dei dati personali.

P.Q.M.

La Corte, visto l’art. 363-bis cod. proc. civ., pronunciando – a spese compensate – sul rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Venezia con l’ordinanza in epigrafe, enuncia il seguente principio di diritto: “La rivisitazione, a opera del decreto-legge n. 20 del 2023, convertito nella legge n. 50 del 2023, dell’istituto della protezione complementare non ha determinato il venir meno della tutela della vita privata e familiare dello straniero che si trova in Italia, tanto più che il tessuto normativo continua a richiedere il rispetto degli obblighi costituzionali e convenzionali. Ne deriva che la protezione complementare può essere accordata in presenza di un radicamento del cittadino straniero sul territorio nazionale sufficientemente forte da far ritenere che un suo allontanamento, che non sia imposto da prevalenti ragioni di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, determini una violazione del suo diritto alla vita familiare o alla vita privata.

Nessun rilievo ostativo assume il fatto che il radicamento sia avvenuto nel tempo necessario ad esaminare le domande del cittadino straniero di accesso alle protezioni maggiori. La tutela della vita privata e familiare esige una valutazione di proporzionalità e di bilanciamento nel caso concreto, secondo i criteri elaborati dalla Corte Edu e dalla pronuncia a Sezioni Unite 9 settembre 2021, n. 24413, tenendo conto dei legami familiari sviluppati in Italia, della durata della presenza della persona sul territorio nazionale, delle relazioni sociali intessute, del grado di integrazione lavorativa realizzato e del legame con la comunità anche sotto il profilo del necessario rispetto delle sue regole”.


È disposta, in caso di diffusione, l’anonimizzazione dei nominativi e dei dati personali.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 4 novembre 2025.

Il Presidente est. (Alberto Giusti)

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