Il diritto del coniuge divorziato a una quota del t.f.r. dell’altro, di cui all’art. 12-bis della l. n. 898 del 1970, non può essere escluso laddove l’assegno divorzile sia stato accordato in funzione eminentemente assistenziale (e non compensativo-perequativa), dal momento che, a fronte della lettera della disposizione - che fa dipendere la spettanza dell’emolumento dalla mera titolarità dell’assegno suddetto -, non può introdursi, in via interpretativa, una distinzione parametrata sulla funzione concretamente rivestita dall’assegno, la quale, peraltro, si porrebbe in distonia con la ratio della richiamata disposizione, improntata alla generale finalità di garantire la (sia pur posticipata) partecipazione ad un’entità economica maturata anche nel corso del matrimonio, in funzione di solidarietà in favore del coniuge debole.
Cassazione civile, sez. I, ordinanza 17/12/2025, n. 32910
FATTI DI CAUSA
1.- Con sentenza in data 23 novembre 2022, il Tribunale di Ra.Gr. ha pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto, nel 1998, da Ra.Gr., nata nel 1977, e Ma.Fi., nato nel 1965; ha posto a carico di Ma.Fi. l'assegno di divorzio nella misura di Euro 300 mensili nonché il contributo per il mantenimento della figlia Ma.No., determinato in Euro 250 mensili, oltre il 50% delle spese straordinarie; infine, ha condannato l'ex marito a pagare all'ex moglie la somma di Euro 19.632,60, oltre interessi legali dal 1 ottobre 2020, a titolo di quota del trattamento di fine servizio, ai sensi dell'art. 12-bis della legge n. 898 del 1970.
A fondamento del riconoscimento dell'assegno divorzile, il Tribunale, dato atto che la ricorrente aveva dichiarato di aver percepito redditi saltuari nella misura di circa 400-500 Euro mensili svolgendo attività di istruttrice di nuoto, ha evidenziato che tale reddito è inidoneo a garantire all'ex moglie la possibilità di provvedere da sé alle proprie esigenze, anche alla luce del fatto che la stessa conduce in locazione la casa in cui vive con la figlia. Il primo giudice, dopo aver rilevato che Ra.Gr. percepisce il reddito di cittadinanza nella misura di Euro 558 mensili mentre Ma.Fi. gode di una pensione mensile, come ex sottufficiale dell'Arma dei carabinieri, di Euro 1.914,74 netti, ha sottolineato il notevole squilibrio reddituale tra le parti e l'insufficienza dei redditi della ricorrente a consentirle di far fronte alle proprie esigenze.
2.- Avverso tale pronuncia ha proposto appello il Ma.Fi., deducendo, tra l'altro, l'insussistenza dei presupposti per l'assegno divorzile in favore dell'ex moglie, avendo ella, anche in ragione dell'età (45 anni), piena capacità lavorativa e professionalità specifica, dimostrata dallo svolgimento, in concreto, dell'attività di istruttrice di nuoto.
3.- La Corte d'Appello di Catania, con sentenza in data 23 maggio 2024, ha accolto parzialmente, in punto di quantum, il gravame interposto dal Ma.Fi., mentre ha respinto l'impugnazione della Ra.Gr., e ha rideterminato la misura dell'assegno di divorzio in Euro 200 al mese.
La Corte territoriale ha rilevato che, nel caso di specie, sussiste un evidente divario economico tra i due ex coniugi: mentre il Ma.Fi. percepisce una pensione di Euro 1914,74 mensili (importo netto), la Ra.Gr. percepisce un reddito di cittadinanza (oggi assegno di inclusione) pari ad Euro 558 e redditi saltuari quale istruttrice di nuoto in misura variabile, che si aggirano sui 400-550 Euro mensili, e versa un canone di locazione di Euro 380.
La Corte d'Appello ha poi evidenziato che le condizioni di salute dell'ex moglie (cervicopatia, sciatalgia, esofagite) non appaiono di gravità tale da potersi qualificare come impeditive in maniera assoluta del concreto svolgimento di attività lavorativa, ivi compresa quella di istruttrice di nuoto che, allo stato, occasionalmente svolge.
Rilevato che "la funzione assistenziale dell'assegno nel caso in esame ha natura meramente integrativa" e che il Ma.Fi. è gravato dall'onere di mantenimento della figlia maggiorenne per circa 400 Euro mensili, la Corte di Catania ha ritenuto misura congrua dell'assegno divorzile quella, appunto, di Euro 200 mensili.
Infine, la Corte distrettuale ha rilevato che la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell'assegno divorzile comporta il riconoscimento della quota del 40% del trattamento di fine servizio, ex art. 12-bis della legge n. 898 del 1970.
3.- Per la cassazione della sentenza della Corte d'Appello Ma.Fi. ha proposto ricorso, sulla base di tre motivi.
Ra.Gr. ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato una memoria illustrativa in prossimità della camera di consiglio.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Il ricorso si articola in tre motivi di censura.
Con il primo motivo, il ricorrente prospetta la violazione dell'art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, e successive modifiche e integrazioni, in relazione all'art. 360, primo comma, numero 3, cod. proc. civ., deducendo che il riconoscimento dell'assegno post-matrimoniale postula, oltre all'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge richiedente, la prova, a carico di quest'ultimo, dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, laddove nella specie mancherebbero le ragioni oggettive impeditive rispetto alla possibilità, per l'ex moglie, di procurarsi mezzi adeguati di sostentamento, come si ricaverebbe dal fatto che la signora Ra.Gr. percepisce mensilmente Euro 400-550 "in nero quale istruttrice di nuoto con rapporto di lavoro non regolarizzato". La Corte d'Appello si sarebbe limitata, erroneamente, a dare rilievo, esclusivamente, al rilevante squilibrio reddituale tra i due coniugi, squilibrio che la giurisprudenza di legittimità esclude, invece, possa costituire, da sé solo, ragione dell'attribuzione dell'assegno divorzile, assegnando semmai ad esso la valenza di mera precondizione fattuale.
Il secondo motivo lamenta la violazione dell'art. 132, primo comma, numero 4, cod. proc. civ., in relazione all'articolo 360, primo comma, numero 4, cod. proc. civ. Ad avviso del ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe affetta da motivazione meramente apparente, giacché essa, pur muovendo dalla premessa che l'attribuzione dell'assegno divorzile in funzione assistenziale impone la verifica dell'incapacità del richiedente di procurarsi il proprio sostentamento, sarebbe pervenuta, poi, al riconoscimento dell'assegno, pur in presenza di una capacità lavorativa dell'ex moglie. Deduce il ricorrente che l'ex moglie concretamente si dedica all'attività lavorativa di istruttrice di nuoto percependo un reddito che sarebbe stato "inopinatamente" ritenuto corrispondente a quello dichiarato dalla parte, pur trattandosi pacificamente di emolumento in nero, in nessun modo verificabile nel suo esatto ammontare.
Con il terzo motivo il ricorrente chiede che, per l'auspicata ipotesi di accoglimento dei primi due motivi, con i quali è stata censurata l'attribuzione dell'assegno di divorzio in favore della richiedente, la Corte dichiari anche la "riforma" del capo di sentenza dipendente che ha attribuito alla stessa, in via automatica, la quota del trattamento di fine rapporto, ai sensi dell'art. 12-bis della legge n. 898 del 1970. In via gradata, il ricorrente prospetta, altresì, questione di legittimità costituzionale di tale disposizione, per supposta violazione degli artt. 1,2,3 e 42 della Costituzione.
3.- I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente.
Le censure con essi articolate sono infondate e, in parte, inammissibili.
4.- Il testo dell'art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, all'esito delle modifiche apportate dalla legge n. 74 del 1987, prevede che "(c)on la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive."
5.- Secondo il diritto vivente formatosi a partire dalla pronuncia Cass., Sez. Un., n. 18287 dell'11 luglio 2018, il riconoscimento dell'assegno post-matrimoniale - cui deve attribuirsi una funzione non solo assistenziale ma anche, in pari misura, compensativa e perequativa - richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. A tal fine trovano applicazione i criteri di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono parametri, equiordinati tra loro, cui occorre attenersi per decidere sia sull'an dell'attribuzione che sulla quantificazione del relativo assegno.
La funzione dell'assegno non è quella di consentire alla parte economicamente debole il perdurante godimento del tenore di vita coniugale, ma quella di fornire alla stessa, da un lato, un'assistenza quando non disponga di mezzi che la rendano autosufficiente e, dall'altro, di accordarle una compensazione allorché dimostri che il contributo prestato durante il matrimonio ha rappresentato un elemento decisivo nella determinazione dello squilibrio patrimoniale all'interno della coppia.
Superato il riferimento al pregresso tenore di vita matrimoniale, ritenuto espressione di una impostazione paternalistica e tradizionale, entrano in gioco, a fondare l'attribuzione dell'assegno di divorzio, i principi di solidarietà e di autoresponsabilità.
Il principio di solidarietà postula che, al dissolversi della comunione materiale e spirituale, in presenza di un sensibile divario reddituale conseguente alle comuni determinazioni assunte dai coniugi e al diverso contributo nella conduzione della vita familiare, corrisponda un assegno che tenda a riequilibrare le posizioni. Il diritto all'assegno viene riconosciuto anche perché il coniuge debole ha svolto un'attività rilevante a favore della famiglia, a discapito di altre occupazioni che avrebbero potuto assicurare al medesimo una maggiore soddisfazione sul piano professionale e vantaggi su quello patrimoniale. In un quadro caratterizzato dalla possibilità di sciogliere liberamente il vincolo matrimoniale e dall'evoluzione dei modelli familiari, occorre prendere atto che gli effetti delle decisioni prese nel corso della vita matrimoniale e delle attività svolte in favore della famiglia possono determinare conseguenze non trascurabili sulla posizione dei coniugi.
Come hanno evidenziato le Sezioni Unite nella citata sentenza n. 18287 del 2018, l'adeguatezza dei mezzi deve essere valutata non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva, ma anche in relazione a quel che i coniugi hanno contribuito a realizzare insieme in funzione della vita familiare e che, a causa dello scioglimento del vincolo matrimoniale, finirebbe per produrre effetti vantaggiosi per una sola delle parti.
La funzione assistenziale dell'assegno di divorzio si arricchisce, in tal modo, di una componente perequativo-compensativa che trae fondamento diretto quale declinazione del principio costituzionale di solidarietà. Tale componente conduce al riconoscimento di un contributo che, da un lato, muove dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi e, dall'altro, tiene conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica idoneo a garantire l'astratta autosufficienza, ma anche del conseguimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo da ciascuno fornito nella realizzazione della vita familiare, con particolare riguardo alle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, alla luce della durata del matrimonio e dell'età del richiedente.
In questa prospettiva, il giudizio di adeguatezza è destinato ad assumere anche un contenuto prognostico, riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall'assunzione di un impegno diverso.
Sotto questo specifico profilo, l'età della parte richiedente rappresenta un fattore di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta possibilità di un adeguato ricollocamento sul mercato del lavoro.
D'altra parte, l'autoresponsabilità deve percorrere tutta la storia della vita matrimoniale e non comparire solo al momento della sua fine. Infatti, non si può prescindere da quanto avvenuto durante il matrimonio e limitarsi ad attribuire al principio di autoresponsabilità un'importanza decisiva solo quando la relazione di coppia giunge alla fine, perché altrimenti si finirebbe per applicarlo principalmente, in contrasto con il principio di ragionevolezza, a danno della parte più debole.
Poiché i criteri attributivi e determinativi dell'assegno divorzile non dipendono dal tenore di vita usufruito durante il matrimonio, ove non sia possibile accertare, o non ricorra, la componente perequativo-compensativa del sopravvenuto depauperamento dell'ex coniuge richiedente, si impone l'accertamento dei presupposti fondanti, con carattere di prevalenza, la finalità assistenziale, che ricorrono in presenza di un'effettiva e concreta non autosufficienza economica dell'istante, non più in grado di provvedere al proprio mantenimento, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto (Cass., Sez. I, 15 giugno 2025, n. 15986; Cass., Sez. I, 17 giugno 2025, n. 16313).
6.- Nel caso di specie, la Corte d'Appello, muovendo da premesse esatte in diritto (avendo articolato la complessiva motivazione in dichiarata applicazione dell'orientamento nomofilattico elaborato da questa Corte a partire dalla citata sentenza delle Sezioni unite del 2018) e con una motivazione più che adeguata nella ricostruzione in fatto, non si è limitata a descrivere la condizione economico-reddituale dei coniugi al momento dello scioglimento del vincolo, ma ha puntualmente evidenziato, con un apparato argomentativo congruo ed esente da mende logiche e giuridiche, quello che essa ha qualificato come "evidente divario economico dei due ex coniugi" e "squilibrio reddituale".
Al riguardo, il giudice del merito ha messo in luce che Ra.Gr. vive, praticamente, del reddito di cittadinanza (oggi assegno di inclusione), pari ad Euro 558 mensili, mentre i redditi quali istruttrice di nuoto sono "saltuari" e si aggirano, "in misura variabile", sui 400-550 Euro mensili. La ex moglie sostiene, inoltre, il peso del canone di locazione per l'importo di Euro 380 mensili dell'abitazione in cui vive con la figlia.
A ciò aggiungasi che la Corte d'Appello di Catania, prendendo posizione sul prospettato svolgimento, da parte di Ra.Gr., di attività lavorativa a tempo pieno e in maniera stabile, come dedotto dal Ma.Fi., ha rilevato che, conformemente a quanto già ritenuto dal Tribunale, nessuna prova al riguardo è stata fornita.
La Corte del merito ha, infatti, ritenuto non sufficienti, ai fini probatori, le relazioni investigative, con allegati reportage fotografici, prodotte in primo grado, le quali, pur attestando la presenza di Ra.Gr. nei pressi di una struttura sportiva, "sono compatibili anche con lo svolgimento dell'attività di istruttrice di nuoto in maniera saltuaria (come sin dall'inizio ammesso dalla Ra.Gr.) e non in modo stabile e a tempo indeterminato". Di più, la Corte d'Appello ha rilevato che "le ulteriori richieste istruttorie articolate dal Ma.Fi. e tese a dimostrare che l'odierna appellata lavora stabilmente e non saltuariamente, sono state correttamente intese dal Tribunale come rinunziate a seguito della loro mancata reiterazione all'udienza di precisazione delle conclusioni del 6 ottobre 2021".
In un contesto nel quale l'unica entrata certa e stabile per la richiedente è l'assegno di inclusione e l'attività lavorativa che costei svolge "occasionalmente" come istruttrice di nuoto dà luogo a redditi saltuari in misura variabile che si aggirano sui 400-550 Euro mensili, la conclusione del giudice del merito circa la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento di un assegno post-matrimoniale in funzione assistenziale, si appalesa coerente con il rilievo del notevole divario reddituale (l'ex marito potendo contare su una pensione sicura e stabile di Euro 1.914,74, importo netto), con la sottolineatura di un'esigenza di solidarietà post-coniugale in funzione "integrativa" dei redditi altrimenti insufficienti e con lo sforzo compiuto dalla Ra.Gr. nel trovare un lavoro, sia pure saltuario, tenuto conto, altresì, delle condizioni di salute dalla stessa documentate (cervicopatia, sciatalgia, esofagite).
La Corte del merito ha quindi valutato, nel rispetto della norma di legge e conformemente alla sua declinazione giurisprudenziale, la ricorrenza dei presupposti giustificativi dell'assegno divorzile in funzione assistenziale, rappresentati, per un verso, dalla non autosufficienza, stante l'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante, e, per l'altro verso, dall'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
Sotto quest'ultimo profilo, preme osservare che la Corte catanese ha adeguatamente esaminato la concreta capacità reddituale della Ra.Gr., quindi le sue potenzialità, e, implicitamente ma inequivocabilmente, ha considerato l'attività lavorativa di istruttrice di nuoto, che allo stato Ra.Gr. occasionalmente svolge, come uno sforzo congruo e proporzionato attuato dalla richiedente per superare, almeno in parte, lo stato di non autosufficienza.
Il ricorrente ha posto, in particolare con il primo motivo, una questione apparentemente di diritto. Segnatamente: se, riconosciuta dal giudice del merito all'assegno in questione una funzione assistenziale e natura meramente integrativa dei redditi dell'ex coniuge richiedente, sia sufficiente, per l'attribuzione dell'assegno divorzile, l'accertamento del rilevante squilibrio patrimoniale o reddituale tra le parti o se occorra anche il previo riscontro dell'impossibilità, per il medesimo coniuge istante, di procurarsi i mezzi adeguati, e ciò per ragioni oggettive. Secondo il ricorrente, la Corte di appello di Catania avrebbe omesso di esaminare l'effettiva capacità lavorativa della ex moglie e l'effettiva impossibilità, per la stessa, per ragioni oggettive, di procurarsi mezzi adeguati per il proprio sostentamento. In particolare, ad avviso di Ma.Fi., la Corte d'Appello non avrebbe tenuto conto che, ai fini dell'attribuzione dell'assegno, la non autosufficienza e la condizione di vita non dignitosa avrebbero dovuto essere accertati come non rimediabili.
In realtà la doglianza mira, se si ha riguardo alla ratio che accompagna la decisione impugnata, ad un inammissibile riesame degli insindacabili apprezzamenti valutativi del giudice di merito, attinenti esclusivamente alla quaestio facti.
Il giudice del merito, invero, non ha trascurato affatto il principio di autoresponsabilità, che implica, quando la relazione di coppia giunge alla fine, il dovere di entrambe le parti, anche di quella più debole economicamente, di procurarsi i mezzi che permettano a ciascuno di vivere in autonomia e con dignità. La Corte di Catania, infatti, ha valutato che, nella concretezza della situazione data, l'impegno lavorativo saltuariamente svolto di istruttrice di nuoto costituisce, anche tenuto conto anche delle condizioni di salute dalla richiedente e dalla stessa documentate, indice e misura della concreta potenzialità reddituale dell'ex moglie.
Ora, è bensì esatto che, ove la sussistenza di uno squilibrio sia accertata, occorre che questo non sia colmabile dall'ex coniuge richiedente l'assegno. In base al citato art. 5, comma 6, infatti, il giudice del merito deve verificare che l'ex coniuge richiedente l'assegno versi nell'impossibilità di procurarsi adeguati redditi propri per ragioni oggettive. È tuttavia ammesso il ricorso a presunzioni sulla base della specifica situazione concreta, sicché la mancanza di esperienza e di titoli e pure il luogo di residenza, se situato in regioni ad alto tasso di disoccupazione, possono ben valere come elementi presuntivi.
La censura sollevata dal ricorrente, a cui avviso il giudice del merito avrebbe dovuto effettuare un rigoroso accertamento, esteso all'impossibilità, per l'ex coniuge istante, di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive, non tiene conto della ratio decidendi della sentenza impugnata e trasforma in questione di diritto, ponendolo su un piano astratto di (errata) interpretazione della norma di legge applicata, il fallimento (per mancata ammissione) della prova del fatto che in realtà la Ra.Gr. non avesse alcun bisogno dell'aiuto solidale dell'ex marito, perché già lavorava a tempo pieno e in maniera stabile. La denuncia di violazione di legge finisce con l'essere modulata in astratto, senza dialogare con la ratio decidendi, perché è tutta impostata sulla sufficienza di una prognosi teorica circa la probabilità di trovare un'occupazione retribuita, laddove lo spirito della legge è quello di dar rilievo soltanto alla possibilità di ottenere in concreto realistiche occasioni di lavoro.
7.- La sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell'assegno post-matrimoniale comporta il rigetto del terzo motivo di ricorso, vertente sulla quota del 40% del trattamento di fine rapporto ex art. 12-bis della legge n. 898 del 1970.
8.- Per vero, il terzo motivo non pone soltanto una censura di illegittimità "derivata" del capo di sentenza relativo all'attribuzione della quota del trattamento di fine rapporto per effetto dell'auspicata "riforma" dei capi della sentenza d'appello che hanno statuito sull'attribuzione dell'assegno divorzile.
Il ricorrente pone, infatti, con il terzo mezzo, una questione più ampia. Deduce, cioè, che ai fini dell'attribuzione della quota di indennità di fine rapporto all'ex coniuge divorziato dovrebbe oggi imporsi un distinguo a seconda che l'assegno divorzile sia stato riconosciuto in funzione compensativo-perequativa, nel qual caso soltanto l'attribuzione anche di quel 40% potrebbe corrispondere alla ratio legis, rispetto all'ipotesi, che qui viene in rilievo, in cui l'assegno sia stato riconosciuto esclusivamente in funzione assistenziale, cioè al mero scopo di garantire il beneficiario non autosufficiente quanto occorrente al conseguimento di un flusso di entrate utile al sostentamento e al conseguimento di una condizione di vita dignitosa.
In quest'ultima ipotesi, l'attribuzione del 40% del trattamento di fine rapporto al coniuge divorziato, pur titolare di assegno post-matrimoniale, sarebbe, secondo il ricorrente, ultronea e irragionevole, oltre che ingiustificatamente lesiva della legittima e tendenziale aspirazione del lavoratore a conseguire per intero l'indennità di fine rapporto. Ove, infatti, anche in tale seconda ipotesi si attribuisse il 40% dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio, si determinerebbe, secondo la difesa di Ma.Fi., una sorta di "ingiusta locupletazione" dell'ex coniuge. Pertanto, secondo il ricorrente, l'ambito di operatività dell'attribuzione ex art. 12-bis della legge sul divorzio dovrebbe essere limitato ai soli casi in cui l'assegno sia stato riconosciuto in funzione perequativo-contributiva. Tale attribuzione non potrebbe giammai trarre la sua giustificazione nella sola funzione assistenziale dell'assegno, soprattutto con finalità meramente integrative di altre autonome entrate dell'alimentando. Diversamente opinando, si profilerebbero, ad avviso del deducente, seri dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 12-bis della legge numero 898 del 1970, per violazione degli articoli 1,2,3 e 42 Cost.
9.- La complessiva doglianza non appare meritevole di accoglimento.
L'art. 12-bis della legge n. 898 del 1970, introdotto dall'art. 16 della legge n. 74 del 1987, prevede, nei suoi due commi, che "(i)l coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell'art. 5, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio".
Con l'introduzione del citato art. 12-bis, il legislatore ha inteso rispondere all'esigenza di ampliare i diritti di tipo patrimoniale in capo al coniuge divorziato. Al coniuge divorziato l'ordinamento riconosce la partecipazione ad una quota dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge dopo il divorzio. Il beneficio prescinde dal regime patrimoniale esistente tra i coniugi. I presupposti richiesti dall'art. 12-bis per l'attribuzione del diritto all'indennità di fine rapporto di lavoro sono tre: (a) il passaggio in giudicato della sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio; (b) il mancato passaggio a nuove nozze del coniuge richiedente; (c) la titolarità, in capo allo stesso, dell'assegno divorzile ex art. 5, comma 6.
Assicurare al coniuge divorziato che versi in una condizione di mancanza di mezzi adeguati, e che perciò sia titolare di un assegno di divorzio, una quota dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro, risulta adeguato al rispetto della solidarietà economica che si instaura tra i coniugi durante la convivenza e rispondente alla stessa natura giuridica dell'indennità di liquidazione percepita a seguito della cessazione di un rapporto di lavoro.
Al legislatore è apparso, in altri termini, cospirante con la solidarietà economica che si instaura tra i coniugi durante la convivenza, oltre che rispondente alla stessa natura giuridica dell'indennità di liquidazione percepita a seguito della cessazione di un rapporto di lavoro, prevedere, in favore del coniuge titolare di assegno post-matrimoniale, una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge dopo la sentenza di divorzio.
Poiché il legislatore fa dipendere la spettanza della quota di trattamento di fine rapporto dalla titolarità dell'assegno di divorzio, il giudice non può, con gli strumenti interpretativi a sua disposizione, inserire una distinzione, all'interno della disposizione, parametrata sulla funzione in concreto rivestita dall'assegno stesso, fino al punto di escludere la partecipazione alla quota di trattamento di fine rapporto là dove l'assegno post-matrimoniale, di importo modesto, sia stato accordato sulla base di una esigenza assistenziale pura, senza che ricorresse anche una esigenza compensativa o perequativa.
Una siffatta distinzione, con l'esclusione dal beneficio della quota del TFR di alcuni ex coniugi pur titolari di assegno di divorzio, si allontanerebbe dal margine di elasticità consentito dalla lettera della disposizione.
Oltre a non rientrare nell'ambito delle alternative di senso consentite dalla disposizione, la distinzione che il ricorrente solleva non è neppure in linea con la ratio della disposizione, tanto dell'art. 12-bis della legge sul divorzio, quanto dell'art. 5, comma 6, della medesima legge.
L'art. 12-bis rappresenta uno strumento per attuare una partecipazione, seppur posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi, finché il matrimonio è durato, ovvero per realizzare una ripartizione di una entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio. Si tratta di una misura diretta a favorire il divorziato, riconoscendo il diritto a godere almeno in parte di quella componente del patrimonio rappresentata dall'indennità di fine rapporto, specie in considerazione della sua natura di retribuzione differita.
A ciò occorre aggiungere che l'interpretazione che il ricorrente propone muove da una lettura atomistica delle varie funzioni dell'assegno di divorzio, senza considerare che esso, al di là delle diverse curvature che lo connotano, ora in senso puramente assistenziale, ora in senso anche compensativo o perequativo, rinviene il suo presupposto unitario nella mancanza di mezzi adeguati e nell'impossibilità, per il coniuge debole, di procurarseli per ragioni oggettive. La solidarietà post-coniugale che ne è alla base fa dell'assegno uno strumento di supporto del coniuge più debole che riconosce rilevanza al rapporto familiare coniugale, anche se dissolto, indipendentemente dalla quantità di rinunce fatte o di sacrifici sopportati durante la vita familiare.
È, di conseguenza, manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal ricorrente.
Difatti, la scelta di non fare dipendere l'attribuzione del beneficio della quota dell'indennità di fine rapporto ex art. 12-bis della legge n. 898 del 1970 dal fatto che l'assegno post-matrimoniale sia stato accordato in funzione della soddisfazione di esigenze perequative e compensative rientra nella discrezionalità del legislatore e risponde alla più generale finalità di riconoscere una misura di protezione e di solidarietà, operante nei rapporti orizzontali, a tutela del coniuge debole già (e ancora) titolare di assegno di divorzio, dopo una tratto di vita trascorsa insieme nel matrimonio.
Non c'è alcun "esproprio illegittimo" alla base della previsione introdotta dal legislatore del 1987. C'è, tutt'al contrario, il rispetto di una logica legata all'esigenza di rimuovere ostacoli di ordine economico, non giustificabili in considerazione del particolare e fondamentale status su cui interviene la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio. La logica sottostante è quella di ritenere che la retribuzione goduta da un coniuge - e corrisposta, parzialmente, in via differita - è stata resa possibile anche in virtù di un regime primario improntato alla collaborazione nell'interesse della famiglia e alla contribuzione ai bisogni della stessa.
10.- Il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
In caso di diffusione, devono essere omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati nella decisione, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dalla controricorrente, che liquida in Euro 2.700, di cui Euro 2.500 per compensi, oltre a spese generali nella misura del 15 % e agli accessori di legge.
Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
È disposto, in caso di diffusione, l'oscuramento dei nominativi e dei dati personali delle parti coinvolte nel procedimento.
Così deciso in Roma, all'esito della camera di consiglio del 5 novembre 2025 e, a seguito di riconvocazione, nella camera di consiglio del 17 dicembre 2025.
Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2025.