Corte di Cassazione, sez. Unite Penale, Sentenza n.47289 del 24/09/2003 (dep. 10/12/2003)

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In materia di ricorso per cassazione, l'illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento.

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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Sentenza 10 dicembre 2003, n. 47289

RITENUTO IN FATTO


1. P.P. e C.P.hanno proposto ricorso per cassazione contro la sentenza del 27 marzo 2002 con la quale la Corte di appello di Roma, riformando parzialmente la decisione di primo grado, ha revocato la confisca di alcuni beni e ha confermato la condanna pronunciata nei confronti dei ricorrenti per i reati previsti dagli artt. 633 e 644-bis c.p. e per il reato previsto dagli artt. 4 e 6 d.l. 143/1991 e dagli artt. 106 e 132 d.l. 385/1993 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), unificati per la continuazione.

P. e C. P., padre e figlio, erano stati accusati, oltre che del reato di abusiva erogazione di finanziamenti (di cui agli artt. 4 e 6 d.l. 143/1991 e agli artt. 106 e 132 d.l. 385/1993), di vari reati di usura, per avere effettuato prestiti a diverse persone lungo un arco di tempo compreso tra il 1990 e il gennaio del 1996, esigendo e ottenendo interessi di carattere usurario. Il PM aveva evocato nelle imputazioni sia l'art. 644 sia l'art. 644-bis c.p., relativo ai fatti successivi al 7 agosto 1992 e concernente la c.d. usura impropria (introdotta dall'art. 11-quinquies l. 356/1992 e abrogata dall'art. 1 l. 108/1996, in occasione della radicale riforma del trattamento dell'usura, segnata tra l'altro dalla modificazione dell'art. 644 c.p.), ma il Pretore di Roma con la sentenza del 20 luglio 2000, dopo aver indicato gli elementi differenziali tra le due fattispecie in questione, aveva ritenuto che in un solo caso (quello relativo a G.G.) fosse provato lo stato di bisogno, caratterizzante la previsione dell'art. 644 c.p., nel testo anteriore alla riforma dell'usura, mentre negli altri casi aveva escluso la rilevanza di condotte antecedenti all'agosto 1992, e aveva ritenuto che quelle successive integrassero il reato dell'art. 644-bis c.p. Il pretore inoltre aveva giudicato insufficiente la prova della responsabilità di C.P.per una parte dei reati contestati e quindi, unificati tutti i reati per la continuazione, aveva condannato P.P. alla pena di cinque anni di reclusione e di lire cinque milioni di multa per i reati dei capi a), b), c), d), e), f), g), h) (relativi il capo b all'art. 644, il capo h all'art. 132 d.l. 385/1993 e tutti gli altri capi all'art. 644-bis c.p.) e C.P.alla pena di tre anni di reclusione e di lire tre milioni di multa per i reati dei capi a), b), d), f), h) e aveva disposto la confisca di immobili, autovetture e saldi attivi dei conti correnti bancari.

La decisione, impugnata da entrambi gli imputati, è stata sostanzialmente condivisa dalla Corte di appello, che ha solo riformato parzialmente il capo relativo alla confisca.

Nei ricorsi sono stati enunciati numerosi motivi, che vengono sinteticamente riportati nell'ordine seguito dai ricorrenti.

Il difensore di P.P. ha dedotto:

a1) la violazione degli artt. 544 ss. c.p.p., in quanto la sentenza impugnata sarebbe «illeggibile e scritta a mano da una grafia incomprensibile»;

b1) la mancanza di motivazione sul motivo con il quale era stata eccepita la prescrizione;

c1) il vizio di motivazione sull'esistenza degli elementi oggettivi e soggettivi dei reati contestati, desunti principalmente dalle dichiarazioni delle persone offese senza una adeguata verifica della loro attendibilità;

d1) la violazione dell'art. 157 c.p. perché i reati in questione, o almeno quelli più risalenti nel tempo, erano estinti per prescrizione, considerato che l'usura è un «reato istantaneo con effetti eventualmente permanenti che si perfeziona e si consuma nella stipulazione del patto usurario»;

e1) la violazione dell'art. 132 d.l. 385/1993 in quanto nella specie non si poteva ravvisare lo svolgimento di abusiva attività finanziaria o «al più, a tutto voler concedere all'accusa, poteva essere ritenuta l'ipotesi contravvenzionale»;

f1) la violazione degli artt. 62-bis, 81 e 133 c.p. e il vizio di motivazione con riferimento al diniego delle attenuanti generiche e alla determinazione della pena;

g1) la violazione dell'art. 240 c.p. con riferimento alla confisca dell'immobile sito in Ardea, località S. Lorenzo, n. 25, ritenuto profitto del reato di usura;

h1) la violazione dell'art. 12-sexies d.l. 306/1992 (inserito dall'art. 2 d.l. 339/1994) con riferimento agli altri beni confiscati.

I difensori di C.P.hanno presentato due distinti atti di ricorso. Il primo ha dedotto:

a2) l'asserita adozione di un errato criterio di valutazione delle prove, in quanto erroneamente sarebbe stata data rilevanza alla convergenza delle dichiarazioni accusatorie di più persone offese e alle dichiarazioni rese da alcune persone offese alla polizia giudiziaria e non interamente corrispondenti a quelle rese nel dibattimento;

b2) la mancanza di prove dei reati di usura e l'illogicità della motivazione relativa ai vari fatti contestati;

c2) l'insussistenza nei fatti in questione dell'elemento oggettivo e di quello soggettivo dei reati di usura;

d2) la violazione degli artt. 110, 644 e 644-bis c.p. per la mancanza delle condizioni per ravvisare nella condotta del ricorrente un concorso nei reati commessi dal padre P.P.;

e2) la mancanza delle condizioni giustificative della confisca.

Il secondo difensore di C.P.ha dedotto:

a3) il vizio di motivazione relativo alla sussistenza dei reati di usura e in particolare alla sussistenza dell'elemento soggettivo;

b3) l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 644 e 644-bis c.p., affermando che non sussistono le condizioni per ritenere che il ricorrente abbia concorso nei reati addebitati al padre;

c3) la violazione dell'art. 132 d.l. 385/1993, in quanto la disposizione sarebbe stata applicata anche con riferimento a condotte antecedenti alla sua introduzione nell'ordinamento e inoltre sarebbe stato erroneamente ravvisato il reato di cui al primo comma dell'art. 132 cit. e non quello contravvenzionale, meno grave, del secondo comma;

d3) inosservanza o erronea applicazione dell'art. 62-bis c.p. per il diniego delle attenuanti generiche;

e3) inosservanza o erronea applicazione dell'art. 81 c.p.: la violazione più grave sarebbe stata erroneamente individuata nel reato del capo b) della imputazione, cioè in un fatto del 1991, epoca nella quale la pena edittale giungeva fino solo fino a due anni per la reclusione e a lire 800.000 per la multa, e sarebbe stata violata per la multa (determinata complessivamente in lire 5.000.000 di multa) la regola dell'aumento sino triplo;

f3) la violazione degli artt. 132 e 133 c.p. e il vizio di motivazione con riferimento alla pena determinata per la violazione più grave in misura assai elevata per la reclusione e superiore al massimo edittale per la multa;

g3) l'inosservanza dell'art. 330 c.p.p. perché con riferimento ai reati dei capi b) e d) è stata esercitata l'azione penale in mancanza della notizia di reato.

Nelle more dell'udienza, fissata davanti alla quinta sezione penale di questa Corte per il 2 luglio 2003, è stata depositata una memoria nell'interesse delle parti civili costituite (G.G. e G.R.), con la quale si invoca una dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi (che porrebbero mere questioni di fatto) e comunque si chiede che i ricorsi stessi vengano respinti in quanto infondati.

2. Nel corso dell'udienza del 2 luglio 2003, dopo la verifica della regolarità del contraddittorio, la difesa ha sollecitato un provvedimento di sospensione del dibattimento a norma dell'art. 5, comma 2, l. 134/2003. La seconda sezione, ritenendo la norma invocata non applicabile nel giudizio in cassazione, e considerato che però altri collegi (anche nell'ambito della stessa sezione) avevano adottato la soluzione contraria (sezione seconda, 4023/2003, ric. Zizzari; sezione seconda, 1° luglio 2003, n. 1926/93, ric. Bini e Lo Prete; sezione terza, 1° luglio 2003, n. 3348/93, ric. Cerciello Parisi), ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, in applicazione dell'art. 618 c.p.p.

L'ordinanza in primo luogo ricorda la distinzione tra norme di diritto intertemporale e norme di diritto transitorio: le prime sono semplicemente chiamate a dirimere il conflitto tra disposizioni succedutesi nel tempo, e sono suscettibili di generalizzazione ed estensione analogica, nella prospettiva di un pari trattamento per le situazioni assimilabili; le seconde danno vita a una disciplina a efficacia temporanea, diversa da quella originaria e da quella sopravvenuta, che risulta inidonea a fungere da tertium comparationis agli effetti di un ipotetico scrutinio di eguaglianza, e insuscettibile, in quanto eccezionale, di estensioni che circa la loro portata trascendano i dati di stretta interpretazione. Poste queste premesse, la disposizione del comma 2 dell'art. 5 l. 134/2003 viene ritenuta norma transitoria e se ne deduce che la sospensione del dibattimento è di carattere eccezionale, da applicare solo nei casi in cui univocamente lo dispone la lettera della legge.

La sospensione - argomenta l'ordinanza - ha senso solo nella misura in cui la legge riconosce all'interessato la possibilità di sollecitare l'applicazione della pena, possibilità regolata dal comma 1 dello stesso art. 5 con riguardo ai procedimenti «in corso di dibattimento» alla data di entrata in vigore della legge. Ebbene, per quanto sia previsto un «dibattimento» sia nel giudizio di appello (art. 602 c.p.p.) che in quello di cassazione (art. 614 c.p.p.), l'espressione non avrebbe per i giudizi di impugnazione lo stesso significato che riveste per il giudizio di primo grado, e in ogni caso non potrebbe parificare moduli procedimentali disegnati, quanto ai contenuti, sulle diverse funzioni di ciascuna fase.

Rispetto al giudizio di legittimità - nota l'ordinanza - la legge non regola il caso della pluralità di udienze (mentre la norma transitoria, avendo riguardo alla «prima udienza utile», la presuppone). Inoltre l'ufficio del PM presso la Corte di cassazione, a livello ordinamentale (art. 76 ord. giud.), come a livello processuale, è privo delle funzioni sulle quali tipicamente si fonda il «potere» negoziale da esercitare nel procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti. Quel potere potrebbe essergli attribuito dalla legge in via eccezionale, ma la disciplina in esame manca di ogni riferimento in tal senso.

Per questa via alcuni precedenti citati dalla giurisprudenza di segno opposto, e relativi a decisioni «di merito» transitoriamente innestate sul giudizio di legittimità, divengono, secondo l'ordinanza, conferme del carattere eccezionale di siffatta evenienza, da escludere nell'assenza di norme mirate a concretarla.

Se la riforma del c.d. concordato sui motivi di appello (commi 4 e 5 dell'art. 599 c.p.p., come modificati dall'art. 1 l. 14/1999) aveva comportato che l'accordo potesse transitoriamente intervenire anche nei procedimenti pendenti in Cassazione, ciò era appunto dovuto all'espressa previsione dell'art. 3 della citata l. 14/1999, che aveva regolato sia la funzione del Procuratore generale presso la Corte che i poteri di quest'ultima nel caso di accoglimento dell'accordo. Una conferma della necessità di specifiche norma «di copertura» della eccezionale funzione di merito viene dallo stesso art. 5 l. 134/2003, che nel terzo comma autorizza la Cassazione a fare diretta applicazione delle sanzioni sostitutive come modificate dall'art. 4 della stessa legge. Il punto dunque non è se il giudice di legittimità possa o meno deliberare su questioni di merito, ma quali siano i presupposti normativi idonei a fondare una siffatta eccezionale deliberazione.

Un ulteriore argomento che l'ordinanza ritiene privo di fondamento è quello relativo alle pretese discriminazioni tra posizioni assimilabili: la Consulta ha chiarito (sent. 381/2001) come la funzione tipica di una disciplina transitoria sia proprio quella di regolare difformemente le fattispecie processuali, sulla base di una linea di demarcazione individuata dalla legge, e come sia necessario solo che tale linea si ancori ad un dato pertinente e di sicura identificazione, così da evitare l'eventualità di applicazioni arbitrarie.

Infine l'ordinanza esamina i lavori preparatori per individuare la volontà del legislatore: cita a tal fine affermazioni del relatore che chiariscono come questi avesse escluso espressamente la pertinenza della disciplina al giudizio di cassazione, salva la sola ed espressa eccezione delle sanzioni sostitutive.


CONSIDERATO IN DIRITTO


1. Questione pregiudiziale è quella relativa all'ammissibilità nel giudizio di cassazione della richiesta di sospensione prevista dal comma 2 dell'art. 5 l. 134/2003, o più esattamente, come ha chiarito la stessa ordinanza di rimessione, relativa all'ammissibilità nel giudizio di cassazione della richiesta di applicazione della pena prevista dal comma 1 dello stesso articolo, posto che la richiesta di sospensione è solo funzionale alla richiesta di applicazione della pena.

La risposta affermativa si basa essenzialmente sull'argomento che secondo il comma 1 dell'art. 5 cit. la richiesta di applicazione della pena può essere formulata «anche nei processi penali in corso di dibattimento nei quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, risulti decorso il termine previsto dall'art. 446, comma 1, del c.p.p.» e che nel giudizio di cassazione, quando si svolge in pubblica udienza, c'è un segmento processuale denominato «dibattimento» (art. 614 c.p.p.).

È opinione delle Sezioni unite che questo argomento sia efficacemente contrastato da quelli esposti nell'ordinanza di rimessione, in quanto una decisione sulla richiesta di applicazione della pena è una decisione di merito, che non rientra nei poteri istituzionali della Corte di cassazione e avrebbe perciò richiesto un'apposita previsione, analoga a quella che nello stesso art. 5 l. 134/2003 è stata dettata per le sanzioni sostitutive con la disposizione del comma 3. Ed è certamente significativo il fatto che quando con la l. 14/1999 è stata modificata la disciplina del c.d. patteggiamento in appello, contenuta negli artt. 599 e 602 c.p.p., il legislatore ha avvertito la necessità di intervenire con l'art. 3 di tale legge per consentire e regolare in via transitoria nel giudizio di cassazione la richiesta concordata di accoglimento dei motivi di impugnazione. Con l'art. 3 l. 14/1999 il legislatore, tra l'altro, si è dato carico di stabilire il termine entro il quale le parti avrebbero dovuto formulare la richiesta, individuandolo in quello di quindici giorni prima della udienza, previsto dall'art. 585 comma 4 c.p.p. per la presentazione di motivi nuovi, mentre per la richiesta a norma dell'art. 5 l. 134/2003 non sarebbe fissato alcun termine, in quanto la stessa dovrebbe avvenire nel corso del dibattimento e cioè, nel giudizio di cassazione, nel corso della stessa udienza di trattazione del ricorso.

Una prima conclusione dunque è possibile: l'applicazione della pena su richiesta delle parti è istituto che richiede una decisione di merito, estranea ai poteri della Corte di cassazione, e mancano dati legislativi dai quali argomentare che il potere in questione sia stato specificamente conferito alla Corte con la norma dell'art. 5 l. 134/2003.

Anche i lavori preparatori sono privi di indicazioni in tal senso e fanno piuttosto ritenere che il legislatore abbia inteso escludere il «patteggiamento» nel giudizio di cassazione.

Sono significative in proposito alcune parole pronunciate dai relatori, sia al Senato che alla Camera. Al Senato, nella seduta del 17 settembre 2002, il senatore Ziccone, riferendosi all'art. 4, che conteneva all'epoca la disposizione transitoria, si è soffermato - come riferisce il resoconto - «in particolare sull'espressione "in corso di dibattimento", sottolineando che essa dovrebbe essere interpretata nel senso di limitare l'operatività della norma transitoria ai soli processi di primo grado». Alla Camera, nella seduta del 28 aprile 2003, l'onorevole Ghedini, ha replicato così a un'osservazione dell'onorevole Siniscalchi: «Inoltre, per quanto riguarda la Cassazione - onorevole Siniscalchi - lei sa perfettamente che nel 1999, con legge 14/1999, si è attribuita alla Cassazione la possibilità di interloquire sul patteggiamento, cosa che invece in questo caso non facciamo».

Ma un argomento che induce con più sicurezza ad escludere l'applicabilità delle norme degli artt. 444 ss. nel giudizio di cassazione è di carattere sistematico e riguarda i connotati del procedimento speciale, ancor prima di quelli del ricorso per cassazione.

È da considerare infatti che l'art. 5, comma 1, l. 134/2003 non regola un generico «patteggiamento», un accordo di qualunque genere sull'esito del processo, ma si riferisce specificamente alla «richiesta di cui all'art. 444 del c.p.p.», e questa richiesta per sua natura non può che essere anteriore alla sentenza di primo grado.

Già la denominazione legislativa dell'istituto («applicazione della pena su richiesta delle parti») ne scandisce le caratteristiche: si tratta di un procedimento speciale, alternativo al giudizio, in cui l'imputato accetta la pena concordata con il PM e applicata dal giudice, senza che la stessa risulti sorretta da un formale accertamento di responsabilità e da una pronuncia di condanna. La sentenza non è appellabile e l'imputato, per l'accettazione della pena e la correlativa rinuncia alle garanzie del giudizio e dell'appello, ottiene un trattamento per vari aspetti più vantaggioso di quello che prevedibilmente conseguirebbe al giudizio.

Com'è noto, il patteggiamento costituisce un accordo sia sul rito sia sul merito, sicché l'accordo sul merito non si giustificherebbe senza quello sul rito, e dunque l'accoglimento della richiesta di merito dell'imputato non si giustificherebbe se non ci fosse contestualmente l'accettazione del rito semplificato.

L'art. 5, comma 1, l. 134/2003, in considerazione dell'avvenuto ampliamento delle possibilità di patteggiamento, ha reso possibile, in via transitoria, «la richiesta di cui all'art. 444 c.p.p. ... anche nei processi penali in corso di dibattimento nei quali ... risulti decorso il termine previsto dall'art. 446, comma 1, c.p.p.». Questa disposizione in qualche modo modifica i termini tipici dell'accorto sul rito, perché una parte più o meno ampia dell'istruzione dibattimentale si è svolta e quindi non può formare oggetto di rinuncia; rimangono però applicabili nel corso del giudizio di primo grado disposizioni significative degli artt. 444 ss. c.p.p., perché il giudice può ancora seguire le regole di decisione stabilite dall'art. 444, comma 2, c.p.p. (verifica relativa all'insussistenza delle condizioni per l'applicazione dell'art. 129 c.p.p., alla qualificazione giuridica del fatto, all'applicazione delle circostanze e alla congruità della sanzione richiesta) e pronunciare una sentenza di applicazione della pena (anziché di condanna), con gli effetti previsti dagli artt. 444 e 445 c.p.p. e non suscettibile di impugnazione con il mezzo dell'appello.

Dopo il giudizio di primo grado l'applicazione della pena su richiesta, a norma degli artt. 444 ss. c.p.p., sarebbe priva di senso. In presenza di un accertamento di responsabilità non vi sarebbe alcuna base normativa per trasformare la sentenza di condanna in una sentenza di applicazione della pena, con l'eventuale diminuzione della sanzione applicata e con gli altri vantaggi previsti per il patteggiamento. Una trasformazione del genere nel giudizio di impugnazione sarebbe inoltre ingiustificata perché avverrebbe in mancanza della corrispettività tipica dell'istituto.

Può essere utile paragonare l'art. 5, comma 1, l. 134/2003 con l'art. 4-ter, commi 2 e 3, d.l. 82/2000, che, da un lato, aveva consentito in via transitoria il giudizio abbreviato «nei processi penali per reati puniti con l'ergastolo, in corso...», senza aggiungere, come ha fatto l'art. 5, comma 1, l. 134 cit., le parole «di dibattimento», e dall'altro aveva regolato specificamente la richiesta del rito abbreviato, in primo grado, in appello o nel giudizio di rinvio, richiedendo in questi ultimi due casi che fosse stata disposta la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale e che la richiesta fosse stata presentata «prima della conclusione dell'istruzione stessa». Se si pone a confronto la disposizione della l. 82/2000 con quella della l. 134/2003 emergono dei dati significativi: nella prima infatti il legislatore aveva espressamente previsto la possibilità di presentare la richiesta anche nei giudizi di impugnazione, ma aveva escluso il rito speciale nel giudizio di cassazione, mentre in quello di appello lo aveva ammesso solo se era stata disposta la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, solo cioè nel caso in cui il trattamento penale più vantaggioso riconosciuto all'imputato poteva trovare nella rinuncia all'istruzione dibattimentale e nella utilizzabilità degli atti delle indagini una giustificazione coerente con il procedimento speciale.

Né varrebbe obiettare che l'art. 448 c.p.p. prevede la possibilità di accogliere la richiesta di applicazione della pena anche nel giudizio di impugnazione perché questa possibilità si collega a una richiesta (e a una correlativa rinuncia) fatta a suo tempo dall'imputato, che, se fondata, non può rimanere non accolta per la mancanza del consenso del PM o per una valutazione errata del giudice.

È da considerare che per quanto riguarda il dissenso del PM la previsione dell'art. 448 c.p.p. si collega a una pronuncia interpretativa di rigetto della Corte costituzionale (sent. 120/1984) relativa all'art. 77 l. 689/1981 (che è la disposizione sul cui ceppo si è sviluppato il patteggiamento: v. Relazione al progetto preliminare del c.p.p., p. 106 e 107), la quale aveva ritenuto che il consenso del PM fosse vincolante per il rito ma non anche per il merito, e che quindi nel caso di dissenso fosse precluso l'epilogo anticipato del procedimento ma non l'accoglimento della richiesta dell'imputato da parte del giudice, una volta completato regolarmente il dibattimento.

Anche in seguito la Corte costituzionale con più decisioni (da ultimo v. la sent. 169/2003) ha avuto occasione di chiarire che nel patteggiamento e nel giudizio abbreviato occorre tenere distinti gli aspetti relativi al rito da quelli relativi al merito (cioè ai vantaggi in termini di trattamento sanzionatorio che per l'imputato comporta la richiesta di uno di questi procedimenti speciali) e che perciò nel caso in cui per qualche ragione il procedimento speciale non abbia avuto luogo resta il diritto dell'imputato al trattamento più vantaggioso, se il giudice, all'esito del giudizio di primo grado o di quello di impugnazione, riconosce che la richiesta era fondata. Ma occorre appunto che la richiesta di applicazione della pena o di giudizio abbreviato, con la correlativa rinuncia alle forme del giudizio ordinario, sia stata formulata tempestivamente, dato che è sulla sua ritualità, oltre che sulla sua fondatezza, che si esercita il sindacato del giudice del dibattimento, eventualmente anche nei giudizi di impugnazione.

L'unica nuova richiesta concordata nei giudizi di impugnazione che sia coerente con il sistema è quella relativa ai motivi. Sono i motivi infatti che delimitano il tema sottoposto al giudice dell'impugnazione e consentono l'espressione di un consenso da parte del PM e una valutazione del giudice, come appunto prevedono, nel giudizio di appello, gli artt. 599, comma 4, e 602, comma 2, c.p.p.. Al di là dei motivi un accordo tra le parti sarebbe privo di senso e non si comprende quale giustificazione potrebbe avere un patteggiamento ex art. 444 c.p.p. nel caso in cui la responsabilità non fosse più in discussione e l'impugnazione concernesse, ad esempio, solo le circostanze, la pena o la mancata concessione della sospensione condizionale. Né in assenza di qualunque precisione in tal senso si potrebbe sostenere che nei giudizi di impugnazione la richiesta prevista dall'art. 5, comma 1, l. 134 cit. risulterebbe ammissibile solo in presenza di motivi volti a contestare l'affermazione di responsabilità; d'altro canto però in casi come quelli ipotizzati sarebbe fuori luogo sostituire la condanna con un'applicazione della pena su richiesta.

In conclusione è da ritenere che l'art. 5, comma 1, l. 133 cit., nel consentire «nella prima udienza utile... la richiesta di cui all'art. 444... anche nei processi penali in corso di dibattimento... nei quali risulti decorso il termine previsto dall'art. 446, comma 1», si riferisca al giudizio di primo grado e che un patteggiamento nei giudizi di impugnazione, necessariamente diverso da quello degli artt. 444 ss. c.p.p., avrebbe richiesto una previsione espressa e una disciplina specifica che nella legge in esame mancano.

2. Restano da esaminare i motivi di ricorso.

Con il primo motivo, come si è detto, P.P. ha sostenuto che «la sentenza è nulla o quanto meno si deve riportare in cancelleria del giudice a quo» per essere scritta con gli strumenti appositi perché «è scritta a mano da una grafia incomprensibile».

Il motivo è manifestamente infondato perché la grafia dell'estensore della sentenza impugnata è di lettura non agevole ma non è incomprensibile ed è stata ben compresa dai ricorrenti, come si desume dei motivi di ricorso.

Con numerosi motivi entrambi i ricorrenti hanno contestato l'affermazione di responsabilità per i reati degli artt. 644 e 644-bis c.p. criticando sia l'accertamento probatorio compiuto dalla Corte di appello, sia il giudizio sulla esistenza degli elementi oggettivi e soggettivi dei reati in questione.

Si tratta di motivi che svolgono considerazioni di merito, non consentite per giustificare un ricorso per cassazione, o che sostengono le censure mosse alla sentenza impugnata con argomenti manifestamente infondati, quando non risultano generici. È da aggiungere che il motivo di P.P. riportato sub c1) costituisce la riproposizione anche testuale del corrispondente motivo contenuto nell'atto di appello. Lo stesso non può dirsi per i motivi di C.P.riportati sub a2), b2), c2) e a3), i quali non costituiscono una riproduzione testuale dei motivi di appello ma si risolvono in asserzioni e in considerazioni di merito che quando contestano in generale il valore probatorio delle testimonianze e degli altri elementi utilizzati dalla Corte di appello per pervenire al convincimento di responsabilità non tengono conto degli argomenti e delle indicazioni probatorie contenuti nell'ampia motivazione della sentenza impugnata, e quando contestano che nei fatti ricorressero gli elementi dei reati previsti dagli artt. 644 e 644-bis c.p. risultano generici e manifestamente infondati.

La sentenza impugnata contiene una parte iniziale assai diffusa in cui, prima di passare in esame i vari fatti di usura, la Corte di appello ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto sicuramente attendibili le accuse confermate nel dibattimento da numerose persone offese e quelle formulate nella fase delle indagini e non confermate nel dibattimento da altre persone offese, che secondo la Corte appello erano state minacciate e intimorite. Alle testimonianze si aggiungono gli accertamenti documentali, che hanno consentito di individuare vari assegni relativi alle persone offese, hanno fatto emergere ingenti movimenti di denaro sui conti correnti anche di vari congiunti degli imputati e hanno indotto la Corte di appello a dire che era stata costituita «una vera e propria impresa "familiare" finanziaria gestita da diversi anni da P. P. con la consapevolezza e fattiva collaborazione del figlio C.».

Ricorda la sentenza impugnata che P.P. dava disposizioni sulla gestione dei rispettivi conti correnti bancari alla moglie, ai figli, Maurizio, Danilo e Giuseppina, al fratello Andrea e alla moglie di questo, la quale era «titolare di ben otto conti correnti». Andrea P., «titolare del c/c n. 180 presso la Banca di Roma, con una movimentazione di somme di denaro pari a circa un miliardo e cinquecento milioni, ha dichiarato che la gestione effettiva del conto era in realtà operata di fatto dal fratello P. P.». Questo del resto aveva «sostenuto di aver concesso numerosi prestiti a diverse persone, ma soltanto a scopo di amicizia e senza fini di lucro».

Su questa prima parte della sentenza i ricorrenti non si soffermano se non con critiche generiche, relative per lo più al valore probatorio riconosciuto alle dichiarazioni accusatorie delle persone offese.

I motivi di ricorso riguardano soprattutto i singoli fatti e discutono le valutazioni operate dalla sentenza impugnata circa l'esistenza degli elementi dei reati previsti dagli artt. 644 e 644-bis c.p., svolgendo in proposito inammissibili considerazioni di merito.

Come è noto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza la possibilità di verificarne la rispondenza alle acquisizioni processuali. È da aggiungere che l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi (Sezioni unite, 24 novembre 1999, Spina, in Cass. Pen., 2000, p. 862). Ciò posto, nessun vizio del genere è riscontrabile neppure nella parte della sentenza impugnata relativa ai singoli fatti di usura, che, come è stato precedentemente ricordato, è pervenuta all'accertamento degli elementi dei reati in questione attraverso la considerazione delle varie prove acquisite e la corretta indicazione del significato dimostrativo loro attribuito dal giudice.

È da aggiungere che i motivi di ricorso tendono a contestare in genere lo stato di bisogno delle persone offese, senza considerare che, come si è inizialmente ricordato, solo per il fatto relativo a G.G. gli imputati sono stati ritenuti responsabili del reato previsto dall'art. 644 c.p., mentre per gli altri fatti sono stati ritenuti responsabili del reato previsto dall'abrogato art. 644-bis c.p., relativo alla «usura impropria», che non richiedeva lo stato di bisogno ma l'esistenza di «condizioni di difficoltà economica o finanziaria di persona che svolge una attività imprenditoriale o professionale».

3. C.P.inoltre, denunciando la violazione degli artt. 644 e 644-bis c.p.p. e vizi di motivazione, ha sostenuto che non ricorrevano le condizioni per ritenerlo responsabile di tali reati in concorso con il padre (motivi sub d2 e b3) e che la condotta indicata nella sentenza avrebbe dovuto piuttosto far ravvisare i reati «di minacce di estorsione oppure di favoreggiamento personale o reale».

Il motivo è privo di fondamento, perché è vero che secondo l'accertamento dei giudici di merito C.P.aveva avuto soprattutto il ruolo di esattore e in alcune circostanze era intervenuto minacciando le persone offese, ma questa era solo una parte della complessiva attività usuraia in cui C.P.affiancava il padre con piena consapevolezza della stessa. Infatti i giudici di merito hanno, tra l'altro, accertato la presenza di C.P.in occasione della definizione delle condizioni contrattuali con G.G. e soprattutto hanno accertato l'erogazione da parte sua di varie somme di denaro, anche mediante assegni emessi dalla moglie su conti correnti a lei intestati. L'esazione dei rimborsi insomma costituiva una parte dell'attività criminosa, e non la sola, che P.P., quando ne era il caso, faceva svolgere al figlio.

Con un altro motivo (sub g3) il ricorrente ha eccepito che per i reati dei capi b) e d) l'azione penale è stata esercitata in violazione dell'art. 330 c.p.p. perché mancava una notizia di reato.

Il ricorrente ha rilevato che si è proceduto nei suoi confronti per il reato del capo b) «in assenza della presentazione di una denuncia da parte di G.G.» e che, con riferimento al capo d), «lo stesso ragionamento va fatto per G.R. il quale nelle sue dichiarazioni dinanzi alla GdF in data 4 gennaio 1996, riferisce di aver subito soltanto minacce da P. C., ma nessun elemento concreto ha saputo indicare in ordine al reato di usura». In una situazione siffatta secondo il ricorrente «l'azione penale non doveva essere promossa o proseguita».

Il motivo è manifestamente infondato perché lo stesso art. 330 c.p.p., richiamato dal ricorrente, stabilisce che compito del PM e della polizia giudiziaria non è solo quello di ricevere le denunce ma anche, e in primo luogo, quello di prendere notizia dei reati di propria iniziativa. Perciò sotto nessun aspetto la rilevata mancanza delle denunce nei confronti del ricorrente per i reati dei capi b) e d) poteva essere di ostacolo all'esercizio dell'azione penale.

4. Entrambi i ricorrenti, con i motivi sub e1) e c3), hanno contestato la condanna per il c.d. abusivismo finanziario sostenendo che l'art. 132 d.l. 385/1993, era stato illegittimamente applicato anche rispetto a fatti anteriori alla sua entrata in vigore e che nel caso in esame non erano ravvisabili gli estremi della fattispecie prevista da tale articolo o «al più, a tutto voler concedere all'accusa, poteva essere ritenuta l'ipotesi contravvenzionale».

Anche questi motivi sono privi di fondamento.

Il c.d. abusivismo finanziario, prima che dall'art. 132 d.l. 385 cit., era stato previsto dall'art. 6 d.l. 143/1991, convertito nella l. 197/1991, e la contestazione, contenuta nel capo h), aveva fatto riferimento a tutte e due le disposizioni, perciò legittimamente i giudici di merito hanno considerato anche l'attività finanziaria anteriore all'entrata in vigore delle d.l. 385. È da aggiungere che la sentenza impugnata, in conformità con la giurisprudenza di questa Corte, ha individuato puntualmente gli elementi costituitivi del reato in questione, chiarendo il significato dell'espressione nei confronti del pubblico, e che in proposito mancano nei motivi dei ricorrenti consistenti rilievi critici, sicché risultano prive di fondamento sia la generica contestazione relativa all'esistenza dell'abusiva attività finanziaria, sia l'affermazione che sarebbe eventualmente configurabile la contravvenzione del comma 2 dell'art. 132 cit., in quanto l'attività non sarebbe stata svolta «nei confronti del pubblico». Secondo la sentenza impugnata infatti «lo spaccato di vita finanziario rappresentato in giudizio ha mostrato che si è trattato non di sporadici episodi isolati nel tempo ma di una organizzata e continuativa attività svolta dai prevenuti nei confronti del pubblico con evidente scopo di lucro illecito».

5. P.P. ha lamentato la mancanza di motivazione della sentenza impugnata rispetto alla eccepita prescrizione e ha sostenuto che questa Corte deve «comunque... in ordine quantomeno, alle contestazioni mosse in relazione agli episodi Sabatini Maurizio, G.G., G.R., Tessera Marcello e Braconcini Luciano, Bolli Leo, De Marchi Nazareno, dichiarare non doversi procedere... per essere i reati estinti per prescrizione».

La mancanza di motivazione relativamente alla prescrizione non può di per sé comportare l'annullamento della sentenza impugnata; ciò che invece rileva, e che in questa sede occorre accertare, è se, prima della pronuncia della sentenza impugnata o anche successivamente si è o meno verificata la prescrizione, e si tratta di un accertamento che deve concludersi con un esito negativo.

Innanzi tutto va chiarito che, essendo stati unificati per la continuazione tutti i reati, per determinare la decorrenza del termine di prescrizione non deve considerarsi, come vorrebbe il ricorrente, il momento in cui i singoli reati sono stati consumati ma, secondo la disposizione dell'art. 158, comma 1, ultima parte, c.p., occorre fare riferimento al giorno in cui è cessata la continuazione, cosa che è avvenuta nel gennaio 1996. Ciò posto, il termine di prescrizione di sette anni e sei mesi ancora non è interamente decorso, dato che è rimasto sospeso per un periodo complessivo di 309 giorni, in seguito a tre rinvii disposti per impedimento su richiesta dell'imputato o del difensore (dall'11 luglio al 20 luglio 2000, dal 30 maggio 2001 al 28 novembre 2001 e dal 28 novembre 2001 al 27 marzo 2002).

6. Con vari motivi (f1, d3, e3, f3) i ricorrenti hanno denunciato vizi di motivazione ed erronea applicazione della legge penale con riferimento all'esclusione delle attenuanti generiche e alla determinazione della pena.

Gli asseriti vizi di motivazione sono insussistenti perché la sentenza impugnata ha indicato in modo corretto le ragioni che hanno fatto ritenere giustificata la decisione adottata in proposito dal giudice di primo grado, confermata dalla Corte di appello con una valutazione che non è sindacabile in questa sede.

Gli errori nell'applicazione dell'art. 81 c.p. denunciati riguardano l'individuazione della violazione più grave e la determinazione dell'aumento per la continuazione.

È stata ritenuta più grave la violazione dell'art. 644 c.p., nonostante che la pena comminata dalla disposizione applicabile nel caso in esame (quella originaria, anteriore alle modificazioni apportate dal d.l. 306/1992 e della sostituzione operata dall'art. 1 l. 108/1996) fosse inferiore a quella prevista dall'art. 644-bis c.p., ma la questione relativa ai criteri adottati per individuare la violazione più grave (determinata in concreto anziché in astratto) risulta inammissibile, sia perché non è stata dedotta con i motivi di appello (art. 606, comma 3, c.p.p.), sia perché gli imputati non hanno interesse all'individuazione della violazione più grave in uno dei reati previsti dall'art. 644-bis c.p. anziché in quello riconducibile alla previsione dell'art. 644 c.p.

È invece fondato il motivo con il quale si è fatto rilevare che l'aumento operato per effetto della continuazione ha dato luogo a una pena complessiva superiore al triplo di quella stabilita per la violazione più grave, in contrasto con la norma dell'art. 81, comma 1, c.p.

Sia per P.P., sia per C.P.la multa per la violazione più grave è stata determinata in lire 1.000.000 (correttamente perché la pena massima edittale all'epoca era di lire 4.000.000 e non di lire 800.000, come sostiene C. P.) e per la continuazione è stata aumentata a lire 10.000.000, per P.P., e a lire 5.000.000, per C. P., mentre a norma dell'art. 81, comma 1, c.p. non avrebbe potuto superare, per l'uno e per l'altro, l'importo di lire 3.000.000

Pertanto sul punto la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, rideterminando la pena complessiva della multa in lire 3.000.000.

7. Restano infine i motivi relativi alla confisca dell'appartamento sito in Ardea, S. Lorenzo, disposta a norma dell'art. 240 c.p., e alla confisca di altri numerosi beni, disposta a norma dell'art. 12-sexies d.l. 306/1992. La sentenza impugnata ha ricordato che l'appartamento sito in Ardea era stato trasferito a C.P.da G.G., una delle vittime dell'usura, e ha esaminato analiticamente le giustificazioni date relativamente all'acquisto degli altri beni, che solo per due immobili ha ritenuto fondate, nella convinzione che non fossero state «acquisite sufficienti prove che i mezzi finanziari occorrenti per l'acquisto... non provenissero da legittime fonti di reddito». A fronte di una diffusa e corretta motivazione sull'esistenza delle condizioni che hanno legittimato la confisca, i motivi di ricorso risultano inammissibili perché contengono critiche generiche, basate esclusivamente su affermazioni e considerazioni in punto di fatto.

8. In conclusione, per le ragioni indicate, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nel punto relativo alla misura complessiva della multa mentre per il resto i ricorsi sono da rigettare.

P.Q.M.

La Corte di cassazione dichiara inammissibile la richiesta di sospensione del procedimento, ai sensi dell'art. 5 l. 134/2003; annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di entrambi i ricorrenti limitatamente alla misura complessiva della multa, che ridetermina, per ciascuno, in lire tre milioni; rigetta nel resto i ricorsi.

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