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Maltrattamenti in famiglia, vessazioni morali integrano il reato

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, Sentenza n.16678 del 06/04/2023 (dep. 19/04/2023)

Il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all'art. 572 cod. pen. può constare di vessazioni morali, oltre che di comportamenti lesivi della integrità fisica della vittima.

Lo ha ribadito la Cassazione, sezione VI penale, con la sentenza n. 16678 depositata il 19 aprile 2023.

Nel caso di specie, ai fini dell'esclusione del reato non è stato considerato rilevante il fatto che il medico curante non avesse ravvisato sul corpo della donna i segni di lesioni, dal momento che era stata accertata  la produzione di uno stato di prostrazione psicologica e di assoggettamento della vittima nei confronti dell'autrice della condotta.

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Cassazione penale, sez. VI, 06/04/2023, (ud. 06/04/2023, dep. 19/04/2023), n. 16678

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Caltanissetta confermava la condanna in primo grado di G.S. per circonvenzione di incapaci (art. 643 cod. pen.), per avere, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto e abusando dello stato di infermità o di deficienza psichica di S.C., indotto quest'ultima a compiere più atti patrimoniali (riscuotendo e consegnando in più soluzioni somme di denaro ed attribuendo a G.S. la disponibilità esclusiva della casa di proprietà, da G. successivamente posta in locazione per un corrispettivo da questo interamente trattenuto).

Confermava altresì la condanna di C.M., compagna di G., per maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.), per aver, approfittando dello stato di infermità psichica di S.C., con lei convivente, sottoposto quest'ultima a violenze fisiche e verbali e comunque a continui atti vessatori.

2. Avverso la sentenza hanno presentato ricorso G.S. e C.M., per il tramite dell'avvocato Brunetto Baldassare.

3. Il ricorso presentato nell'interesse di G.S. consta di un unico motivo, in cui sono dedotte: violazione della legge penale per vizio di motivazione; manifesta illogicità nella valutazione della prova e violazione dell'art. 192 cod. proc. pen.; violazione della legge penale processuale per mancata assunzione di una prova decisiva di cui la parte aveva fatto richiesta a norma dell'art. 495, comma 2, cod. proc. pen..

In violazione del diritto di difesa e al contraddittorio, al ricorrente sarebbe stata sottratta la possibilità di confrontarsi in dibattimento con la persona offesa, sulla base delle cui dichiarazioni, rese in incidente probatorio, esclusivamente, egli è stato condannato. L'imputato aveva infatti avanzato rituale richiesta di interrogare nel dibattimento la persona offesa. Ammesso tale mezzo istruttorio, il giudice di primo grado revocava tuttavia il teste, nonostante la persona offesa fosse affetta da un lieve deficit psichico e quindi in grado di rendere la deposizione. Ne' i giudici di secondo grado rispondono alle deduzioni sul punto.

La motivazione è inoltre mancante e/o manifestamente illogica poiché vi si legge che le circostanze riferite dalla persona offesa sono state riscontrate, laddove le dichiarazioni richiamate rese da C. (consulente tecnico di parte), C. (assistente sociale), T. (psicologa e direttrice della struttura dove la persona offesa si è ricoverata dopo i fatti) sono tutte de relato e riferiscono ancora una volta la sola versione di S.. Inoltre, il medico M., sentito al dibattimento, non riferisce di aver riscontrato sulla persona offesa segni di lesioni, nonostante la abbia più volte visitata presso il proprio ambulatorio.

In motivazione si parla, inoltre, di un "rapporto squilibrato tra vittima ed agente" e si desume l'incapacità della persona offesa dai racconti di tutti coloro che la vedevano "inerte" quando il ricorrente la accompagnava, senza specificare chi fossero tali persone e da che cosa si evincesse l'asserita incapacità di S., posto che questa ha continuato ad essere proprietaria della sua casa di famiglia.

Ancora, si addebita al ricorrente l'induzione a compiere atti che importavano per il soggetto passivo effetti giuridici dannosi, senza tenere in conto il fatto che la persona offesa prelevava ogni mese circa Euro 1.000, che rappresenta una somma modesta, indispensabile al suo mantenimento - anche perché l'imputato viveva soltanto della sua pensione di invalidità - e a contribuire alle spese della casa in cui viveva.

Quanto alla oggettiva riconoscibilità della minorata capacità, i medici psichiatri hanno accertato che la persona offesa soffriva soltanto di un disturbo psichico lieve che, in quanto tale, non le impediva di badare a se stessa e di difendersi dalle insidie esterne, come la stessa ha dimostrato di saper fare nel tempo, salvaguardando il proprio patrimonio immobiliare.

Di conseguenza, non risulterebbe nemmeno provato il requisito dell'induzione, richiesto dalla legge per l'integrazione del delitto di circonvenzione.

Non sarebbero, inoltre, condivisibili le ragioni che hanno indotto la Corte di appello a negare la concessione delle circostanze attenuanti generiche, in considerazione del fatto che il comportamento processuale del ricorrente è stato improntato ad estrema collaborazione con l'autorità giudicante. Si lamenta, infine, l'eccessività della pena irrogata.

4. Nell'interesse di C.M. è presentato un motivo di ricorso in cui sono parimenti eccepite: violazione della legge penale per vizio di motivazione; manifesta illogicità nella valutazione della prova e violazione dell'art. 192 cod. proc. pen.; violazione della legge penale processuale per mancata assunzione di una prova decisiva di cui la parte aveva fatto richiesta a norma dell'art. 495, comma 2, cod. proc. pen.

Pure in questo caso si deduce che la condanna si sarebbe basata sulle dichiarazioni della sola persona offesa la quale, tuttavia, non è stata sentita in dibattimento, nonostante la ricorrente ne avesse fatto rituale richiesta, aggiungendosi che, comunque, il fatto non sussiste per difetto del necessario requisito della abitualità, l'unico teste, il dottor M., che visitava abitualmente la persona offesa non avendo oltretutto mai riscontrato lividi sul corpo della persona offesa.

Anche rispetto a C., poi, si censura l'eccessività della pena inflitta e la decisione di non riconoscere le attenuanti generiche, in considerazione della condotta processuale collaborativa dell'imputata, la quale è oltretutto incensurata tranne che per un banale precedente risalente nel tempo.

3. Il procedimento è stato trattato in forma cartolare, ai sensi del dl. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8, convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, e d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, art. 16, comma 1, convertito dalla L. 25 febbraio 2022, n. 15.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono entrambi inammissibili.

2. Manifestamente infondate sono, innanzitutto, le deduzioni, prospettate in entrambi i ricorsi, relative alla mancata escussione della persona offesa in dibattimento, da un lato, e alla mancanza di riscontri, se non de relato, alle dichiarazioni della stessa, poiché i testi si sarebbero limitati a riferire quanto appreso da S..

Quanto al primo profilo, la Corte d'appello, dinanzi alla quale la medesima eccezione era già stata devoluta, ha correttamente e compiutamente replicato osservando come l'audizione dovesse essere svolta con le modalità richieste dalla legge in considerazione della condizione di vulnerabilità di S. e che l'anticipata acquisizione della prova realizzatasi con l'incidente probatorio ne comporta l'utilizzabilità in sede dibattimentale, senza alcun bisogno di procedere alla sua rinnovazione a seguito di richiesta del difensore, avanzata in ragione della necessità di provvedere ad integrazione ovvero a contestazioni, risultando diversamente vanificata la funzione stessa dell'incidente probatorio (sez. 4, n. 1832 del 23/10/2014, dep. 2015, Ventre, Rv. 261771).

Quanto al secondo aspetto, secondo la giurisprudenza pacifica di questa Corte di legittimità, le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. In tal senso, in particolare, si sono espresse Sez. U, n. 41461 de/ 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214, precisando in motivazione che, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi.

Ebbene, a tale insegnamento si è attenuta la sentenza impugnata, la quale, oltretutto, specifica come, al di là di alcune espressioni iperboliche della parte civile, le circostanze da questa riferite siano state tutte riscontrate. Alle suddette testimonianze de relato si aggiunge, infatti, la circostanza che le condizioni di vita della parte civile, in un contesto privo di igiene e di cura, sono risultate anche dagli accertamenti delle forze dell'ordine e testimoniate dagli operatori sociali, nonché dalle deposizioni di diversi soggetti, quali il direttore dell'ufficio postale e il conduttore dell'immobile di proprietà della parte civile, che confermarono l'atteggiamento di sottoposizione di S. rispetto a G..

Ne' - aggiunge quasi testualmente la Corte di appello - costituisce smentita alle dichiarazioni della parte civile il fatto che il medico non si pote' avvedere di lividi ed escoriazioni, visto che le modalità di gestione degli spostamenti della donna erano controllate dal ricorrente, valendo, anzi, ad ulteriore riscontro della narrazione di S. proprio il fatto che la prima volta che la donna parlò con il suo medico dei maltrattamenti ricevuti fu quando riuscì a recarvici da sola.

3. Il ricorso di G.S. appare inoltre inammissibile, in quanto versato in fatto, oltre che manifestamente infondato, nella parte in cui contesta la configurabilità del delitto di circonvenzione, revocando in dubbio, da un lato, l'incapacità della persona offesa, dall'altro lato, la produzione di un danno patrimoniale a carico della stessa.

A proposito della ritenuta capacità della persona offesa, l'argomento secondo cui la donna sarebbe tale in quanto dimostratasi in grado di difendere il proprio patrimonio immobiliare (la casa lasciatale dalla madre) propone, infatti, una valutazione alternativa rispetto al giudizio compiutamente e logicamente svolto dai giudici dell'appello, i quali hanno evidenziato che: le condizioni di fragilità psichica delle donna erano state accertate con verifica peritale; tale condizioni si inferivano inoltre dalla circostanza che la donna, prima di tornare a (Omissis), viveva in una struttura adatta; la sua incapacità di opporre resistenza è emersa nel corso della istruttoria dibattimentale.

Altrettanto deve dirsi in merito alla configurabilità dell'evento-danno patrimoniale, la cui produzione è richiesta dalla fattispecie di cui all'art. 643 cod. pen. Infatti, alle osservazioni difensive relative al modesto ammontare della somma prelevata - che si assume, nel ricorso, "equamente" destinata al solo mantenimento della persona offesa - i giudici hanno coerentemente obiettano che la ricostruzione difensiva è stata contraddetta dal fatto che sia i Carabinieri, sia gli operatori sociali hanno accertato che la donna viveva in uno stato gramo, indecoroso e anti-igienico (condivideva uno spazio ristretto con sei o sette cani), aggiungendo, peraltro, che il ridimensionamento delle somme riscosse per la locazione, secondo il racconto del ricorrente, contrasta con le ben più attendibili e disinteressate indicazioni provenienti dall'inquilino dell'immobile, dalle quali si ricava che questi versò nelle mani dell'imputato, in due sole soluzioni, complessivamente Euro 2.500.

4. Considerazioni simili valgono in relazione al ricorso di C., per la parte in cui si contesta la configurabilità del delitto di maltrattamenti.

In particolare, per un verso, va ricordato che, pacificamente, il reato di cui all'art. 572 cod. pen. può constare di vessazioni morali, oltre che di comportamenti lesivi della integrità fisica della vittima di cui, peraltro, quest'ultima ha riferito. Di conseguenza, a nulla rileverebbe al di là delle considerazioni della Corte di appello già riferite a proposito della posizione di G. - la circostanza che il medico curante di S. non avesse ravvisato sul corpo della donna i segni di lesioni, una volta che, come nel caso di specie, sia stata nella vittima accertata la produzione di uno stato di prostrazione psicologica e di assoggettamento nei confronti dell'autrice della condotta.

Per altro verso, una volta motivatamente ritenuta la credibilità della parte civile, deve concludersi che in modo coerente e compiuto la Corte di appello abbia ritenuto dimostrata la condotta illecita della ricorrente anche sotto il profilo, più specificamente dedotto, dell'abitualità della condotta incriminata, senza, dunque, che questa Corte possa sostituirsi alla valutazione di fatto conformemente compiuta nei due gradi di giudizio di merito.

5. Manifestamente infondati sono, infine, i motivi dei due ricorsi relativi all'eccessiva severità del trattamento sanzionatorio e alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Con motivazione, anche in questo caso, completa e logica, i giudici di secondo grado hanno, infatti, replicato che l'incensuratezza non dà diritto alle attenuanti e precisato che, comunque, nessuno dei due imputati è incensurato, essendo entrambi, al contrario, gravati di precedenti, seppur risalenti.

Ne' - si aggiunge nella sentenza impugnata, con motivazione parimenti insindacabile da questa Corte - la pena comminata dal giudice di primo grado può dirsi eccessiva, dal momento che corrisponde al minimo edittale per C. e che per. G. è stata adeguatamente aumentata in considerazione della particolare odiosità della condotta e per il suo reiterarsi in plurime induzioni e plurimi frazionati profitti.

6. Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell'art. 616 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, i ricorrenti al pagamento delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalla parte civile S.C., che liquida in Euro 3.686,00, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 6 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2023.

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