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Rilevazioni di segreti di ufficio, delineati i confini del reato

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, Sentenza n.47670 del 11/07/2023 (dep. 28/11/2023)

Quali sono le notizie di ufficio che devono rimanere segrete per non incorrere nel reato di rivelazione di segreti di ufficio ex art. 326 c.p.?

Risponde alla domanda la Sesta Sezione Penale della Cassazione con la sentenza n. 47670 depositata il 28 novembre 2023.

Nel caso di specie, l’imputato per il reato di violazione di segreti d'ufficio, in concorso con altri, aveva rivelato notizie apprese attraverso l'accesso abusivo al sistema informatico del Servizio di stato civile.

La Suprema Corte, investita dalla questione, ha ricordato che il reato previsto dall'art. 326 c.p. è un reato proprio e di pericolo concreto, nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta.

Il dovere di segretezza da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio costituisce il presupposto della fattispecie incriminatrice in esame e la sua osservanza costituisce lo strumento per garantire il bene giuridico tutelato, da individuarsi nel buon funzionamento della pubblica amministrazione, che potrebbe rimanere pregiudicato dalla rilevazione del contenuto degli atti, soprattutto quando incidono su interessi antagonisti o concorrenti con quelli pubblici.

Secondo la costante interpretazione della Cassazione, il contenuto dell'obbligo la cui violazione è sanzionata dall'art. 326 c.p., deve essere desunto dal nuovo testo del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 15, come sostituito dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 28, recante nuove norme in tema di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi. Tale norma prevede che "l'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio; non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso."

In tal contesto assume rilevante valenza il D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, art. 37 che fa divieto alle persone estranee all'ufficio di anagrafe l'accesso all'ufficio stesso e quindi la consultazione diretta degli atti anagrafici e sono escluse da tale divieto solo le persone appositamente autorizzate dall'Autorità giudiziaria.

La giurisprudenza della Corte di cassazione, che il Collegio pienamente condivide, ha affermato che la nozione di 'notizie d'ufficio, le quali debbono rimanere segrete' assume non soltanto il significato di informazione sottratta alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma anche quello di informazione per la quale la diffusione (pur prevista in un momento successivo) sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, nel momento in cui viene indebitamente diffusa ovvero utilizzata, perché svelata a soggetti non titolari del diritto o senza il rispetto delle modalità previste.

Nella vicenda in esame, come puntualmente e correttamente sottolineato dai giudici di merito, la notizia rivelata, cioè i dati anagrafici di determinate persone, non era affatto rilevabile se non nel rispetto delle norme specifiche in precedenza indicate a tutela del segreto di ufficio.

In tema di rivelazione di segreti d'ufficio, il contenuto dell'obbligo la cui violazione è sanzionata dall'art. 326 c.p., deve essere desunto dal nuovo testo del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 15, come sostituito dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 28, recante nuove norme in tema di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.

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Cassazione penale, sez. VI, sentenza 11/07/2023 (dep. 28/11/2023) n. 47670

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Palermo ha sostanzialmente confermato la sentenza con cui:

- G.C. è stata condannata per il reato di peculato per essersi appropriata, in concorso con C.N., nelle qualità di incaricati di pubblico servizio in quanto sub concessionari per la gestione dei giochi telematici, di alcune somme riscosse a titolo di Prelievo unico erariale (Preu), omettendole di versare alla concessionaria HGB Connex s.p.a. (capo 1);

- C.N., oltre che per il reato già indicato, anche per i reati di cui agli artt. 615 ter, 326 - 319 c.p. (capi 4- 5- 9).

C., in concorso con B.P. - giudicato separatamente - utilizzando le credenziali di accesso di questi, brigadiere dell'arma dei carabinieri, si sarebbe introdotto abusivamente nel sistema informatico del Servizio di stato civile effettuando accertamenti nei confronti di V.E. e L.I. (capo 4).

C., inoltre, in concorso con B., avrebbe rivelato notizie apprese attraverso l'accesso al sistema informatico (capo 5) e, sempre in concorso con B., che avrebbe compiuto atti contrari ai doveri di ufficio, avrebbe corrisposto a questi somme di denaro, anche sotto forma di ticket di gioco (capo 9).

2. Ha proposto ricorso per cassazione C.D. presentando due ricorsi.

2.1. Con il primo, a firma dell'avv. Galliano Aristide, sono stati articolati tre motivi.

2.1.1. Con il primo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità per il reato di corruzione.

La Corte, a cui erano state devolute questioni relative alla prova del patto e alla corrispettività delle prestazioni, si sarebbe limitata a valorizzare, senza fornire adeguate risposte, la coincidenza temporale tra le dazioni dei ticket di gioco - sulla cui causale nulla sarebbe stato spiegato - e gli atti posti in essere dal B. e con la disponibilità funzionale di questi nei riguardi dello stesso C..

La sentenza sarebbe viziata sul capo in esame anche in ragione della esiguità dell'ammontare complessivo delle dazioni contestate (850 Euro) e non sarebbero state adeguatamente considerate le emergenze probatorie e, in particolare, che era prassi di C. rilasciare ticket ai clienti della sala giochi a fronte della dazione di assegni anche postdatati o di semplici promesse di pagamento.

Una corruzione rispetto alla quale non sarebbe stata raggiunta la prova del patto corruttivo e neppure del suo oggetto.

2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge quanto al delitto di cui all'art. 326 c.p..

La Corte avrebbe erroneamente valorizzato alla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 28 per ritenere assunta la segretezza delle notizie.

Sostiene l'imputato invece che le notizie, relative ai dati anagrafici, che B. forniva a C. non sarebbero state segrete ma solo riservate, cioè acquisibili da chiunque con le modalità previste dalla legge.

2.3. Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione quanto alla dosimetria della pena per il reato di corruzione.

La Corte avrebbe operato un aumento di otto mesi di reclusione a titolo di continuazione interna, ma, non solo, in rubrica non risulterebbe contestato l'art. 81 c.p., ma, soprattutto, vi sarebbe la prova della esistenza solo di un unico reato con un unico patto corruttivo.

2.2. Per C. ha proposto ricorso per cassazione anche l'avv.ta Castellucci Valentina articolando tre motivi.

2.2.1. Con il primo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al delitto di peculato.

La Corte, per inferire la prova della condotta appropriativa, avrebbe fatto fideisticamente riferimento ai conteggi effettuati dal soggetto concessionario - la società HGB Connex - senza considerare che l'imputazione da parte del concessionario dei pagamenti eseguiti dal ricorrente sarebbe avvenuta in violazione degli accordi assunti con il soggetto concedente l'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (ADM), secondo cui il concessionario avrebbe dovuto riscuotere dal gestore prioritariamente il c.d. importo residuo netto, per versarlo all'Erario e solo successivamente imputare le somme ricevute ad altri titoli.

In tale contesto, si richiama l'art. 8 della convenzione, secondo cui il concessionario aveva l'obbligo di versare le somme all'Erario piuttosto che imputarle ai propri compensi, e si sostiene che proprio questo modo di operare avrebbe cagionato fittiziamente l'inadempimento del C., cioè il mancato versamento.

Secondo l'imputato, cioè, il concessionario avrebbe imputato i pagamenti in proporzione e paritariamente a diverse voci, laddove, invece, avrebbe dovuto imputarli prioritariamente all'erario e quindi al Preu, sacrificando i propri guadagni (in tal senso si fa riferimento all'atto di impegno del 6 dicembre 2018 in cui non sarebbero stati indicati gli importi pagati antecedentemente).

Una difformità dalle previsioni contrattuali e una unilateralità dei conteggi che impedirebbero di applicare al caso di specie i principi affermati delle Sezioni unite: i conteggi, si evidenzia, avrebbero dovuto essere compiuti dal soggetto concedente (Agenzia Doganale Monopoli); i ricorrenti avrebbero versato in tre anni nove milioni di Euro e sarebbero stati vessati dalle voci extra imposte del concessionario: non vi sarebbe quindi prova della condotta appropriativa.

Si aggiunge che la Hgb, cioè la società concessionaria, avrebbe versato alla Agenzia delle Dogane le somme dovute per conto del gestore, sicché nessuna lesione al patrimonio della Pubblica Amministrazione si sarebbe verificato; l'art. 9 della convenzione, si argomenta, configurerebbe una responsabilità solidale tra il gestore di sala e il concessionario per il versamento del prelievo unico erariale e si aggiunge che il ritardato pagamento non configura di per sé il reato di peculato ma darebbe luogo solo alla applicazione delle penali, quantificate nella misura del 5% dell'importo versato tardivamente.

Si aggiunge che anche nelle note di diffida inviate dal concessionario si sarebbe fatto riferimento solo all'applicazione di penali e interessi ma non alla configurabilità del peculato: dunque, anche in relazione all'art. 7 della Convenzione Edu, non vi sarebbe prova del dolo del reato contestato.

2.2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge quanto alla quantificazione del profitto del peculato.

Sarebbe stata disposta la confisca per la somma di 534.276 Euro in assenza di qualsiasi danno erariale, come accertato per effetto della archiviazione del procedimento contabile e i conteggi sarebbero comunque errati.

2.2.3. Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione quanto alla provvisionale concessa di 300.000 Euro, ritenuta esorbitante attesa la inattendibilità dei conteggi compiuti dal concessionario.

3. Ha proposto ricorso per cassazione G.C. articolando due motivi.

3.1. Con il primo si deduce violazione di legge penale quanto alla prova del concorso nel reato di peculato.

All'imputata, amministratrice di diritto della "sala giochi, si contesta di non aver impedito ex art. 40 c.p., comma 2, il fatto di peculato commesso dall'amministratore di fatto, suo coniuge, C., e, dunque, di aver concorso moralmente nel reato, avendo rafforzato l'altrui proposito criminoso.

L'imputata, si sostiene, sarebbe stata invece totalmente estranea alla gestione sociale.

La Corte avrebbe "costruito" erroneamente la responsabilità concorsuale per non avere la donna assunto la gestione dell'impresa in prima persona ma non sarebbe stato spiegato perché l'avere sottoscritto la ricorrente le transazioni volte a ripianare le conseguenze dei fatti illeciti altrui sarebbe rivelatore della compartecipazione criminosa.

2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge quanto al giudizio di responsabilità: il tema attiene alla prevedibilità delle conseguenze delle proprie condotte e alla configurabilità del dolo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi proposti nell'interesse di C.D. sono fondati limitatamente al trattamento sanzionatorio; il ricorso presentato nell'interesse di G.C. è invece fondato quanto al primo motivo di ricorso, che ha valenza assorbente.

2. Per ragioni di ordine espositivo, è utile esaminare i ricorsi proposti nell'interesse di C.D..

3. E' inammissibile il primo motivo del ricorso proposto dall'avv. Galliano Aristide, relativo al reato di corruzione.

3.1. Il reato di corruzione, nelle sue varie declinazion, integra un reato a forma libera, plurisoggettivo, a concorso necessario, di natura bilaterale, fondato sul "pactum sceleris" tra privato e pubblico agente.

Si tratta di un illecito che si sostanzia in condotte convergenti, tra loro in reciproca saldatura e completamento, idonee ad esprimere, nella loro fisiologica interazione, un unico delitto.

Da ciò consegue che il reato si configura e si manifesta, in termini di responsabilità, solo se entrambe le condotte, del funzionario e del privato, in connessione indissolubile, sussistano probatoriamente e l'illecito sussiste alternativamente con l'accettazione della promessa o con il ricevimento effettivo dell'utilità.

Ciò che deve essere processualmente accertato è se il pubblico ufficiale abbia accettato una utilità, se quella utilità sia collegata all'esercizio della sua funzione, al compimento di quale atto quella utilità sia collegata, se quell'atto sia o meno conforme ai doveri di ufficio.

In particolare, deve essere accertato il nesso tra l'utilità e l'asservimento della funzione ovvero con l'atto da compiere o compiuto da parte del pubblico ufficiale, e se il compimento dell'atto sia stato la causa della prestazione e dell'accettazione da parte del pubblico ufficiale della utilità.

Costituisce infatti principio più volte ribadito nella giurisprudenza di legittimità, e che il Collegio condivide, quello secondo cui, ai fini dell'accertamento del reato di corruzione propria, nell'ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell'atto contrario ai doveri di ufficio sia stato la causa della prestazione dell'utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell'avvenuta dazione.

In linea con il dettato dell'art. 319 c.p., è infatti necessario dimostrare non solo la dazione indebita dal privato al pubblico ufficiale (o all'incaricato di pubblico servizio), bensì anche la finalizzazione di tale erogazione all'impegno di un futuro comportamento contrario ai doveri di ufficio ovvero alla remunerazione di un già attuato comportamento contrario ai doveri di ufficio da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica.

La prova della dazione indebita di una utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento antidoveroso del pubblico ufficiale: è pertanto necessario valutare tale elemento unitamente alle altre circostanze di fatto acquisite al processo, in applicazione della previsione di cui all'art. 192 c.p.p., comma 2, secondo cui "l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti".

3.2. Nel caso di specie, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei principi indicati.

La Corte, anche facendo riferimento alla sentenza di primo grado, con una motivazione puntuale e non manifestamene illogica: a) ha ricostruito i rapporti tra C. e B., sottoufficiale dei carabinieri che frequentava abitualmente la sala giochi di proprietà della G.; b) ha spiegato come B., da una parte, avesse fornito a C. notizie apprese in ragione delle sue funzioni e apprese attraverso l'accesso abusivo a banche date riservate, e, dall'altra, avesse svolto alcuni accertamenti e compiuto atti del proprio ufficio; c) ha chiarito come dalle conversazioni intercettate (indicate specificamente alle pagg. 50-56 e ss. della sentenza impugnata), emergesse la dazione e la promessa da parte di C. di somme di denaro o ticket di gioco (per un ammontare complessivo di 850 Euro) in favore dello stesso B. proprio in ragione del compimento degli atti contrari ai propri doveri di ufficio; d) ha evidenziato a pag. 58 della sentenza impugnata il senso di quelle dazioni e la coincidenza temporale e quindi la correlazione funzionale tra la dazione della utilità e il compimento dell'atto contrario ai doveri di ufficio da parte del pubblico ufficiale infedele.

Rispetto a tale ragionamento, non sono in discussione le utilità conseguite da B., e nemmeno il compimento da parte di B. dei comportamenti e degli atti contrari ai doveri d'ufficio descritti puntualmente dalla Corte di appello.

Sulla base di tali dati di presupposizione, non è viziato il ragionamento giuridico della Corte quanto alla prova del nesso funzionale tra le due prestazioni, essendosi evidenziate; a) la contestualità temporale evidente tra atti del pubblico agente infedele e utilità a questi corrisposte; b) la piena consapevolezza da parte del pubblico ufficiale del carattere antidoveroso degli atti compiuti in favore di chi corrispondeva quelle utilità; c) la consapevolezza del privato che quelle utilità erano corrisposte in occasione del compimento di atti da parte del pubblici ufficiale infedele.

Rispetto a tale quadro di riferimento, il motivo di ricorso rivela la sua strutturale genericità, non essendo stato dedotto alcunché di specifico in relazione a nessuno dei profili indicati dalla Corte in ordine agli specifici elementi di prova da cui si è fatta discendere la prova del patto corruttivo e del suo oggetto, essendosi limitato l'imputato solo a prospettare in astratto, rispetto a quella dazioni, una possibile causale alternativa, distinta e autonoma rispetto a quella indicata dai Giudici di merito.

4. Non diversamente è inammissibile il secondo motivo di ricorso proposto dall'avv. Galliano relativo al reato previsto dall'art. 326 c.p..

4.1. Quello previsto dall'art. 326 c.p. è un reato proprio e di pericolo concreto, nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta (Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, Rv. 251271).

Il dovere di segretezza da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio costituisce il presupposto della fattispecie incriminatrice in esame e la sua osservanza costituisce lo strumento per garantire il bene giuridico tutelato, da individuarsi nel buon funzionamento della pubblica amministrazione, che potrebbe rimanere pregiudicato dalla rilevazione del contenute degli atti, soprattutto quando incidono su interessi antagonisti o concorrenti con quelli pubblici (Sez. 6, n. 30148 del 23/4/2007, Lazzaro, Rv. 237605, In motivazione).

Secondo la costante interpretazione di questa Corte, il contenuto dell'obbligo la cui violazione è sanzionata dall'art. 326 c.p., deve essere desunto dal nuovo testo del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 15, come sostituito dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 28, recante nuove norme in tema di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.

Tale norma prevede che "l'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio; non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardarti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso.

In tal contesto assume rilevante valenza il D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, art. 37 che fa divieto alle persone estranee all'ufficio di anagrafe l'accesso all'ufficio stesso e quindi la consultazione diretta degli atti anagrafici e sono escluse da tale divieto solo le perone appositamente autorizzate dall'Autorità giudiziaria.

La giurisprudenza della Corte di cassazione, che il Collegio pienamente condivide, ha affermato che la nozione di "notizie d'ufficio, le quali debbono rimanere segrete" assume non soltanto il significato di informazione sottratta alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma anche quello di informazione per la quale la diffusione (pur prevista in un momento successivo) sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, nel momento in cui viene indebitamente diffusa ovvero utilizzata, perché svelata a soggetti non titolari del diritto o senza il rispetto delle modalità previste (coli, tra le diverse, Sez. 6, n. 35779 del 11/05/2023, Agnetto, Rv. 285179; Sez. 6, n. 39312 del 01/07/2022, Mango, Rv. 283941; Sez. 6, n. 9409 del 09/12/2015, dep. 2016, Cerato Rv. 267274; Sez. 6, n. 9726 del 21/02/2013, Carta, Rv. 254593).

4.2. In tale quadro di riferimento il motivo rivela la sua strutturale inammissibilità non essendo obiettivamente chiaro perché, secondo il ricorrente, B. avrebbe potuto rivelargli i dati personali anagrafici di altre persone.

Le doglianze del ricorrente non si confrontano con la sentenza impugnata, la quale ha puntualmente e correttamente sottolineato come, nel caso di specie, la notizia rivelata, cioè i dati anagrafici di determinate persone, non fosse affatto rilevabile se non nel rispetto delle norme specifiche in precedenza indicate a tutela del segreto di ufficio.

5. E' infondato anche il primo motivo del ricorso proposto dall'avv.ta Castellucci, relativo al reato di peculato.

5.1. In punto di fatto emerge dalle sentenze di merito che: a) il 9.1.2012 l'impresa individuale di cui era titolare G.C. e la HGB Connex s.p.a., società concessionaria della Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, avevano concluso una convenzione in forza della quale G. si era impegnata a versare un canone di concessione mensile e a riversare le somme dovute a titolo di prelievo unico erariale (Preu); b) dal 27 luglio 2014 i versamenti delle somme spettanti alla concessionaria era no stati omessi (cfr., pag. 14 sentenza di primo grado); c) per effetto del mancato versamento erano stati convenuti alcuni piano di rientro il 6.7.2016, il 17-27/11/2017 e il 6.12.2018 con cui l'impresa aveva sostanzialmente riconosciuto il proprio debito relativo alle somme in precedenza non versate al concessionario; d) il concessionario aveva provveduto a versare le somme dovute alla Agenzia delle dogane e dei Monopoli.

5.2. Le Sezioni unite hanno affermato che integra il delitto di peculato la condotta del gestore o dell'esercente degli apparecchi da gioco (leciti di cui all'art. 110, commi 6 e 7, TULPS, che si impossessi dei proventi del gioco, anche per la parte destinata al pagamento del Prelievo Erariale Unico (PREU), non versandoli al concessionario competente, in quanto il denaro incassato appartiene alla pubblica amministrazione sin dal momento della sua riscossione. (In motivazione, la Corte ha precisato che il concessionario riveste la qualifica formale di "agente contabile" ed è incaricato di pubblico servizio, funzione cui partecipano il gestore e l'esercente essendo loro delegate parte delle attività proprie del concessionario).

In particolare, le Sezioni unite hanno chiarito che:

- tutti i proventi del gioco presenti negli apparecchi, al netto del denaro restituito quale vincita agli scommettitori, appartengono all'Amministrazione;

- il peculato, quanto al gestore, non discende dal mancato pagamento del PREU quale imposta, ma dall'indebita appropriazione dell'intero incasso prelevato dagli apparecchi di cui una (maggior) parte, ma non il tutto, destinata al pagamento del PREU;

- l'esercente e il gestore assumono la qualifica di incaricato di pubblico servizio e, in particolare;

- il denaro che le figure di supporto dell'attività del concessionario hanno in gestione non può mai definirsi a loro appartenente, atteso che il rapporto del gestore con il denaro che raccoglie dagli apparecchi è di detenzione nomine alieno, che ai fini dell'art. 314 c.p., integra la condizione di altruità della cosa (Sez. U, n. 6087 del 24/09/2020, dep. 2021, Rubbo, Rv. 280573).

5.3. Sulla base di tale quadro di riferimento, ili motivo di ricorso è inammissibile.

Secondo il ricorrente, l'assunto accusatorio sarebbe errato perché l'impresa esercente avrebbe versato cospicue somme di denaro al concessionario che, tuttavia, le avrebbe imputate in modo arbitrario nel senso che le avrebbe imputate, in violazione di quanto previsto dalla convenzione, non all'erario ma, sostanzialmente, ad altre voci e, in particolare, ai propri compensi: ciò avrebbe fatto emergere un fittizio inadempimento della impresa esercente.

Si tratta di un assunto giuridicamente non condivisibile e meramente reiterativo di argomenti già portati alla cognizione della Corte di appello e da questa correttamente valutata.

Sotto un primo profilo, è stato spiegato dai Giudici di merito come, al di là delle imputazioni in concreto compiute dal soggetto concessionario, l'impresa esercente sottoscrisse accordi con il concessionario che avevano una portata probatoria ricognitiva del debito e, quindi, del mancato versamento di somme dovute e, sostanzialmente, della condotta appropriativa già compiuta.

Dunque, al di là dell'ipotizzato distorto meccanismo imputativo dei pagamenti che il concessionario avrebbe compiuto, è stato spiegato che il gestore aveva trattenuto e omesso di versare indebitamente somme altrui.

Non assume rilievo né il meccanismo imputativo delle somme da parte del concessionario e neppure la circostanza che questi avesse versato il denaro alla Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, atteso che il peculato è configurabile per il fatto che il gestore, esercente pubblico servizio, trattenne denaro altrui, appropriandosene.

Ciò chiarito, il motivo si risolve in una generale critica difettiva che, da una parte, conferma che l'impresa riconobbe di non aver versato parte del denaro altrui raccolto e, dall'altra, l'irrilevanza, ai fini della configurazione del reato di peculato, del pagamento del concessionario all'Agenzia di quanto dovuto.

Ne' il ricorrente ha spiegato il senso e la portata di quegli accordi ricognitivi del debito, né, soprattutto, ha fornito una qualche giustificazione degli omessi versamenti; nel caso di specie non è contestato all'imputato un ritardato versamento delle somme altrui ma l'omesso versamento di somme, sicché non assumono decisiva valenza i riferimenti giurisprudenziali più recenti in tema di configurabilità della condotta appropriativa in caso di ritardato versamento.

Ne', ancora, assumono rilievo l'art. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, i temi della prevedibilità delle conseguenze della condotta, della accessibilità e della chiarezza della base legale incriminatrice, del dolo del peculato, non solo perché non è stato nemmeno dedotto da parte dell'imputato l'adempimento esatto, ancorché tardivo, della somma dovuta e la puntuale esecuzione degli accordi convenuti, ma, soprattutto, perché, al momento della commissione dei fatti, era consolidata la giurisprudenza che riteneva configurabile il delitto di peculato in relazione a fatti come quelli per cui si procede: la giurisprudenza precedente alla pronuncia delle Sezioni unite era, ad eccezione di un'unica sentenza, del tutto conforme nel ritenere sussistente il delitto di peculato per le condotte come quelle in esame.

Dunque non è chiaro perché, secondo l'imputato, nella specie non sarebbero state prevedibili le conseguenze della condotta posta in essere e vi sarebbe stato invece un affidamento incolpevole.

5.4. Inammissibile è il secondo motivo del ricorso proposto dall'avv.ta Castellucci relativo alla confisca del profitto derivante dal reato di peculato; si è già spiegato come l'assenza di un danno erariale, in ragione dell'avvenuto versamento delle somme da parte del concessionario, non escluda la configurabilità del peculato per il soggetto gestore che si appropri di somme altrui.

Dunque è legittima la confisca del profitto derivante dal peculato.

Inammissibile è anche la parte del motivo di ricorso relativo alla quantificazione del profitto attesa la genericità della stessa, non essendo stato dedotto alcunché di specifico ed essendosi il ricorrente limitato a sollecitare una diversa valutazione probatoria degli atti.

6. E' inammissibile anche il terzo motivo di ricorso, relativo alla somma riconosciuta a titolo di provvisionale.

La Corte di cassazione in più occasioni ha chiarito che non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento (cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019, Tuccio, Rv. 277773).

7. E' invece fondato il terzo motivo del ricorso proposto dall'avv. Galliano relativo alla determinazione della pena.

7.1. Secondo la Corte di appello l'aumento di pena di otto mesi di reclusione di pena a titolo di continuazione interna per il reato di corruzione sarebbe corretto in ragione del compimento da parte del pubblico ufficiale infedele di "una serie di atti contrari ai propri doveri di ufficio, elemento questo che esclude che si tratti di un'unica condotta" (così testualmente la Corte a pag. 62 della sentenza).

Dunque, secondo la Corte di appello, una pluralità di fatti corruttivi, confermata anche dalla indicazione della data del commesso reato "almeno sino al 27 febbraio 2019".

7.2. Si tratta di un ragionamento che non può essere condiviso.

Il tema attiene alla esatta ricostruzione dell'oggetto del patto corruttivo nei casi in cui, come quello in esame, "il rapporto" tra soggetto pubblico e privato ruoti su interessenze sganciate "a monte" dal compimento di specifici atti, atteso che, al momento della conclusione del patto, il pubblico ufficiale non "vende" atti specifici, ma sé stesso, il suo essere pubblico ufficiale, la sua funzione, il futuro esercizio del potere pubblico.

Concluso l'accordo, il reato è perfezionato e non assume rilievo decisivo la sua esecuzione, le sue dinamiche, la sua evoluzione nel tempo; è l'accordo che si punisce, è la "presa in carico" da parte del pubblico ufficiale d'interessi differenti da quelli che la legge impone di perseguire: un inquinamento di base, un asservimento diffusivo che ha la capacità di propagarsi nel tempo, in futuro, in modo non preventivato e non specificamente preventivabile rispetto al momento della conclusione del patto corruttivo.

I delitti di corruzione puniscono il collateralismo clientelare o mercantile.

Il tema si incrocia con l'accertamento probatorio dei fatti, e, in particolare, con la prova del senso e della natura dell'accordo, della sua struttura, della sua attuazione, della eventuale esistenza di un ulteriore patto.

Si tratta di un accertamento che deve essere compiuto caso per caso ed in cui, si è fatto già notare, possono assumere rilievo la situazione concreta, le aspettative specifiche del corruttore, cioè il movente della condotta del corruttore, il senso ed il tempo della pretesa di questi, la condotta in concreto compiuta dal pubblico agente, le modalità della corresponsione del prezzo.

Deve essere accertato il "colore" del patto corruttivo (così, diffusamente, Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555 ed in motivazione).

Nel caso di specie, il riferimento da parte della Corte di appello a più episodi, a più atti, a distinti momenti temporali, non consente, in assenza di elementi probatori contrari, di escludere che il fatto corruttivo, nella sua complessità e nella sua evoluzione temporale, costituisca l'esplicitazione, la manifestazione della operatività di un unico accordo, che conserva la sua unicità strutturale, con l'effetto ineludibile che viene in considerazione una sola corruzione e non una pluralità di corruzioni.

Un unico patto corruttivo sviluppatosi nel tempo in relazione alla condotta del pubblico ufficiale corrotto - che, in attuazione dell'impegno di "curare" l'interesse del corruttore, pone in essere atti contrari ai doveri d'ufficio in qualsiasi occasione - e del corruttore - che garantisce utilità multiple.

Ciò spiega l'insegnamento secondo cui il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale non fa parte della struttura del reato e che la plurima attività pubblica posta eventualmente in essere dal pubblico ufficiale corrotto, in esecuzione di un unico accordo illecito concluso, non dà luogo alla continuazione nel reato, la quale è legata soltanto alla esistenza di pluralità di pattuizioni.

Se l'accettazione della promessa e la ricezione dell'utilità sono unitarie, nel senso che sono riconducibili geneticamente alla stessa fonte, anche se in funzione di una pluralità di atti da compiere, il reato è e rimane unico (in tal senso, lucidamente, Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella, Rv. 234360; in senso sostanzialmente conforme, Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246583 e, più recentemente, Sez. 6, n. 51126 del 18/07/2019, Evangelisti, Rv. 278192).

Ne consegue che sul punto la sentenza deve essere annullata; la Corte di appello, in sede di rinvio, applicherà i principi indicati, verificherà se siano o meno configurabili nella specie più reati di corruzione, rideterminerà eventualmente la pena.

8. E' invece fondato il primo motivo del ricorso proposto nell'interesse di G.C. che attiene alla compartecipazione criminosa di questa al fatto di peculato compiuto dal marito C..

8.1. Il presupposto del ragionamento probatorio della Corte di appello è che effettivamente la gestione dell'impresa fu compiuta nel corso del tempo solo dal marito dell'imputata; ciò nondimeno, il giudizio di responsabilità di G. è stato confermato per essere configurabile quanto meno un concorso morale della ricorrente, "essendo consapevole delle condotte di impossessamento poste in esser dal marito gestore di fatto della impresa" (così la Corte a pag. 37 della sentenza).

La prova della compartecipazione deriverebbe in particolare dall'avere G.C.: a) sottoscritto il contratto che fissava gli obblighi del gestore nei riguardi del concessionario; b) proposto giudizio di opposizione il 15.9.2015 avverso il decreto ingiuntivo con cui le era stato intimato il pagamento di una data somma in favore del concessionario; c) sottoscritto le dichiarazioni con cui veniva determinato il piano di rientro; d) consegnato assegni in pagamento alla società concessionaria.

Dunque, si assume, G. avrebbe saputo sin dal 2015 della condotta appropriativa del marito e non si sarebbe mai attivata per assumere in prima persona la gestione della impresa al fine di evitare ulteriori fatti appropriativi.

Tali conclusioni sarebbero avallate dal contenuto di una conversazione intercettata il 16.4.2019 in cui, al momento della perquisizione presso la sede della impresa, l'imputata avrebbe invitato un dato soggetto a "far sparire tutto".

8.2. Si tratta di un ragionamento viziato.

L'imputata, come detto, sarebbe stata a conoscenza del mancato versamento delle somme da parte del marito e, ciò nondimeno, avrebbe omesso di provvedere.

Una responsabilità sostanzialmente concorsuale in cui ciò che si imputa alla ricorrente è di essere stata a conoscenza del fatto illecito altrui, cioè l'appropriazione delle somme da parte del coniuge marito, e di non aver personalmente provveduto o comunque, di non essere subentrata nella gestione della impresa.

In tale contesto non è innanzitutto chiaro se la Corte abbia configurato un concorso omissivo o commissivo della donna, se abbia cioè ritenuto sussistente una forma di collusione predeterminata ed originaria, ovvero una silenzio doloso sul presupposto della conoscenza della illiceità della condotta del coniuge.

Ciò che inoltre non è stato spiegato è perché si debba escludere che l'imputata abbia potuto non fare alcunché, cioè non versare e non compiere nemmeno un'efficace verifica, non perché in accordo con il marito ovvero perché consapevole dell'uso egoistico e privato delle somme da parte di questi, ma per mera negligenza, per colpa anche grave, per grave affidamento colposo.

La circostanza che il marito della ricorrente potesse essersi appropriato delle somme che avrebbero dovuto essere versate non consente né di ritenere che questa avesse concertato il fatto illecito e neppure che la donna, sottoscritti i piani di rientro, percepì il successivo inadempimento parziale da parte del marito.

Non sono stati evidenziati elementi chiaramente rivelatori di un accordo doloso e, soprattutto, dell'effettiva consapevolezza dell'imputata del fatto Illecito altrui dopo la sottoscrizione degli piani di rientro, in cui alcune somme furono in effetti versate.

Ne', ancora, può essere utilizzato il dubbio sulla consapevolezza della illiceità dal fatto altrui da parte della ricorrente per costruire in modo inequivoco una concorrente responsabilità dolosa.

Il dubbio irrisolto non è sinonimo di dolo eventuale, perché compatibile con la colpa aggravata dalla previsione dell'evento. Per sostenere l'esistenza anche solo del dolo eventuale, occorre dimostrare che il dubbio sia "alle spalle", perché superato dalla consapevolezza che il reato è in itinere; né il dolo eventuale coincide, come acutamente si osserva in dottrina, con l'eventualità del dolo (sul tema, per tutte, Sez. U, n. 38343 del 02/04/2014, Espenhahn, Rv. 2611104-105, e, soprattutto, in motivazione).

Pur volendo ragionare con la Corte di appello, non è peraltro chiaro perché assumerebbe rilievo, ai fini della prova della consapevolezza del fatto illecito altrui da parta dell'imputata, la sottoscrizione del contratto o delle scritture ricognitive del debito o di quella relativa all'atto di impegno con il concessionario, essendo il primo un atto neutro rispetto alla prova del reato - salvo che non vi sia la prova della previa collusione - ed essendo gli altri atti successivi alla originaria condotta appropriativa e non essendovi elementi di prova idonei a comprovare che la donna potesse percepire la successiva condotta del coniuge.

Ne' è stato chiarito cosa fu dedotto con l'atto di opposizione al decreto ingiuntivo disposto nel 2015 in favore della società concessionaria e neppure è stato spiegato perché assumerebbero rilevanza, ai fini della prova del concorso nel reato, la dazione di alcuni assegni alla società concessionaria da parte della ricorrente ovvero il contenuto di quella conversazione intercettata nel 2019 la cui riferibilità ai fatti i causa è del tutto congetturale.

Si tratta di vizi che minano strutturalmente il ragionamento probatorio sicché la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio con riferimento alla posizione di G.C. per non avere commesso il fatto.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento alla posizione di G.C. per non avere commesso il fatto; annulla, altresì, la sentenza impugnata nei confronti di C.D. limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo; rigetta nel resto il ricorso di C.D..

Visto l'art. 624 c.p.p. dichiara l'irrevocabilità della sentenza in ordine alla responsabilità di C.D. per i reati contestatigli.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2023.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2023.

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