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Stalking, ansia e paura nella vittima possono integrare il reato

Corte di Cassazione, sez. V Penale, Sentenza n.6323 del 30/01/2023 (dep. 15/02/2023)

Nel reato di stalking, il grave e perdurante stato di ansia o di paura deve essere provata attraverso elementi sintomatici del turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta dell'agente e dalle circostanze concrete in cui il reato è stato commesso.

Lo ha ribadito la Quinta Sezione Penale con la sentenza n. 6323 depositata il 15 febbraio 2023.

Nella caso di specie, la Corte ha rigettato il ricorso presentato dall'ex fidanzato, condannato per stalking nei confronti della sua ex compagna, confermando la pena di 1 anno e 2 mesi di reclusione e il risarcimento dei danni a favore della parte civile.

L'ex fidanzato aveva presentato due motivi di ricorso:

  • il primo contestava la qualificazione del fatto come consumato, sostenendo che la sua ex fidanzata avesse migliorato il suo rendimento universitario e fosse stata ritratta sorridente e tranquilla in alcune foto;
  • il secondo denunciava l'inosservanza della legge, la mancata assunzione di una prova decisiva e vizi di motivazione riguardo alla lista dei testimoni.

La Cassazione ha rigettato entrambi i motivi di ricorso, sottolineando che il racconto dell'ex fidanzata, descritto dai giudici di merito come attendibile, lineare, coerente, dettagliato e non animato da sentimenti di astio o di rancore nei confronti dell'imputato, è stato confermato dalle dichiarazioni rese da congiunti, amici e dall'ammissione parziale dei fatti da parte dello stesso ex fidanzato.

La Suprema Corte ha inoltre sottolineato che i dati evocati dall'ex fidanzato, ossia il buon rendimento universitario e le foto che ritraevano la ragazza sorridente, non sono incompatibili con la condizione di profonda prostrazione descritta dalla vittima.

Il ricorso è stato rigettato e l'ex fidanzato è stato condannato al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità.

Atti persecutori, prova dell'evento, grave e perdurante stato di ansia o di paura, elementi sintomatici

La prova dell'evento del delitto di atti persecutori, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente e anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.

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Corte di Cassazione, sez. V Penale, Sentenza n.6323 del 30/01/2023 (dep. 15/02/2023)

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza deliberata il 03/01/2020, il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, per quanto è qui di interesse, dichiarava I.G. responsabile del reato di tentati atti persecutori (così riqualificata l'originaria imputazione del reato nella forma consumata) ai danni di D.F. e lo condannava alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni a favore della parte civile. Investita dalle impugnazioni dell'imputato, del pubblico ministero e della parte civile, la Corte di appello di Messina, con sentenza deliberata il 14/05/2021, ha riqualificato il fatto nella forma consumata, ha rideterminato la pena in anni 1 e mesi 2 di reclusione, nonché la somma liquidata a titolo di risarcimento dei danni, confermando nel resto la sentenza di primo grado.

2. Avverso l'indicata sentenza della Corte di appello di Messina ha proposto ricorso per cassazione I.G., attraverso il difensore Avv. Gaetano Pino, articolando due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p..

2.1. Il primo motivo denuncia inosservanza della legge penale e vizi di motivazione in ordine alla qualificazione del fatto come consumato. Illogicamente la Corte ha ritenuto la sussistenza di due eventi del reato di atti persecutori, ossia il mutamento delle abitudini di vita e il grave stato di ansia a fronte dei dati incontroversi rappresentati dal miglioramento, da parte della persona offesa, del suo rendimento universitario e dalle foto che la ritraevano sorridente e tranquilla. La sentenza non indica elementi probanti degli effetti della condotta perturbativi dello stato d'animo e delle abitudini di vita, avuto riguardo anche alla totale assenza di ogni sentimento di ansia, turbamento o paura.

2.2. Il secondo motivo denuncia inosservanza della legge, mancata assunzione di una prova decisiva e vizi di motivazione, in quanto erroneamente la Corte di appello ha ritenuto sovrabbondante la lista testi a fronte di un fatto/reato così articolato e complesso, verificatosi tra il 27/03/2017 e il maggio 2018, in un contesto territoriale molto ampio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non merita accoglimento.

2. Muovendo in ordine di priorità logico-giuridica dal secondo motivo, esso è inammissibile, in quanto aspecifico; nessuna indicazione viene offerta in ordine ai testi esclusi in quanto sovrabbondanti, mentre del tutto astrattizzante è il riferimento alla durata degli atti persecutori e ai luoghi in cui furono realizzati.

3. Il primo motivo non è fondato.

Il racconto della persona offesa (descritto dai giudici di merito come già di per sé attendibile, lineare, coerente, dettagliato e non animato da sentimenti di astio o di rancore nei confronti dell'imputato) ha trovato conferma nelle dichiarazioni rese non solo da congiunti (il fratello e i genitori), ma anche da un'amica della vittima, la quale, oltre ad aver ricevuto le sue confidenze, ha riferito di esser stata lei stessa destinataria di messaggi contenenti ingiurie nei confronti di D.F.; a ciò si aggiunga, osserva ancora il giudice di appello, la parziale ammissione dei fatti resa dallo stesso imputato in sede di verbale di conciliazione presso la polizia.

Quanto agli eventi del reato, la sentenza impugnata ha rilevato la prova del mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, costretta, oltre che a cambiare il numero di telefono, a evitare di frequentare posti in cui poteva incontrare l'ex fidanzato (compresa la chiesa) ovvero si faceva accompagnare da qualcuno. Rileva ancora il giudice di appello la sussistenza dello stato di ansia e di paura in cui la vittima era costretta a vivere a causa delle condotte persecutorie dell'imputato, tanto da aver sofferto di attacchi di panico e da avere perfino pensato al suicidio quando I. l'aveva minacciata di pubblicare sue foto intime. La sentenza impugnata si confronta poi puntualmente con i dati evocati dall'imputato, ossia il buon rendimento universitario e le foto che ritraevano la ragazza sorridente, escludendo che essi possano escludere l'evento indicato.

Le censure del ricorso non infirmano il ragionamento del giudice di appello, fondato su plurimi e solidi elementi, mentre, sul piano logico, il riferimento ai dati richiamati dal ricorso non è certo incompatibile con la condizione di profonda prostrazione descritta dalla vittima. Del resto, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità è nel senso che la prova dell'evento del delitto di atti persecutori, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente e anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, Sentenza n. 17795 del 02/03/2017, Rv. 269621; conf., ex plurimis, Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, Rv. 261535). Circostanze, queste, tutte conferenti nel senso dell'insussistenza del vizio denunciato dal ricorso.

4. Complessivamente considerato, pertanto, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo; in caso di diffusione della presente sentenza, andranno omesse le generalità e gli altri dati identificativi.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, il ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 2.965,00, oltre accessori di legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. n.196/03 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2023.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2023.

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