Infortunio sul lavoro: responsabilità del datore se manca la formazione

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, n.15697 del 18/03/2025 (dep. 22/04/2025)

Il datore di lavoro risponde dell'infortunio del dipendente se non ha provveduto a formarlo sui rischi connessi all'attività lavorativa?

Sulla questione è intervenuto la Cassazione con la sentenza n. 15697 del 22 aprile 2025.

La vicenda

Nel caso esaminato, un dipendente di una società edile si è infortunato durante lo scarico di materiali da un furgone.

Un tubo di cemento, pesante oltre 40 kg, è caduto sulle sue dita, provocando lesioni gravi e una malattia durata 140 giorni.

Il datore di lavoro è stato condannato perché non aveva formato il lavoratore sui rischi e sulle corrette modalità di movimentazione dei carichi.

I principi in materia

Secondo gli articoli 18, 37 e 169 del D.Lgs. n. 81/2008, il datore di lavoro ha l'obbligo di:

  • informare, formare e addestrare i dipendenti sui rischi presenti sul luogo di lavoro;

  • garantire che il lavoratore acquisisca competenze specifiche per prevenire incidenti;

  • attuare tutte le misure necessarie per tutelare la salute e la sicurezza.

Inoltre, l'articolo 299 del D.Lgs. n. 81/2008 precisa che la posizione di garanzia grava anche su chi riveste formalmente il ruolo di legale rappresentante, indipendentemente dal fatto che gestisca o meno l'attività in concreto.

La decisione

Nel caso concreto, la Corte d'Appello ha confermato la responsabilità del legale rappresentante della società datrice di lavoro, ritenendo che l'omessa formazione del dipendente fosse causalmente collegata all'infortunio.

La Cassazione ha ribadito che il datore di lavoro risponde degli incidenti occorsi ai dipendenti se la mancata formazione ha contribuito al verificarsi del danno. Non conta che il rappresentante sia solo un "prestanome": la carica formale è sufficiente per attribuirgli la responsabilità.

La Suprema Corte ha inoltre evidenziato che, se il lavoratore fosse stato correttamente formato, avrebbe potuto prevenire l'incidente, ad esempio adottando tecniche di movimentazione sicura dei carichi.

Conclusione

Chi assume il ruolo di datore di lavoro deve garantire formazione adeguata ai dipendenti in materia di sicurezza sul lavoro. Se omette questo obbligo, risponde delle conseguenze dannose, anche se non è coinvolto direttamente nella gestione dell'impresa.

Non basta essere "solo" il rappresentante legale sulla carta: il datore è sempre responsabile della sicurezza dei suoi dipendenti. E omettere la formazione può trasformarsi in una pesante condanna.

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Cassazione penale, sez. IV, sentenza 18/03/2025 (dep. 22/04/2025) n. 15697

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d'Appello di Campobasso, in data 24 ottobre 2024, ha confermato la sentenza del Tribunale di Campobasso di condanna di Bu.Do., in qualità di legale rappresentante pro tempere della Bu. Costruzioni Srl e quindi datore di lavoro, in ordine al reato di cui all'art. 590 cod. pen. in danno del lavoratore dipendente Ci.Mi. (commesso in C il (Omissis)) alla pena di mesi 6 di reclusione.

Il processo ha ad oggetto un infortunio sul lavoro, descritto dalle conformi sentenze di merito nel modo seguente. Alla data su indicata, Ci.Mi. era impegnato a scaricare della merce (cementi, tubi, attrezzi) da un furgone da cantiere; mentre egli era intento a movimentare tale materiale, un tubo di cemento per fognature del peso di oltre 40 kg. era caduto sulle dite della sua mano sinistra, cagionandogli lesioni personali, consistite nella frattura scomposta pluriframmentaria della testa della falange prossimale del secondo dito e l'infrazione della testa della falange intermedia del terzo dito, dalle quali era derivata una malattia della durata di 140 giorni.

L'addebito di colpa nei confronti dell'imputato è stato individuato nella imprudenza, negligenza e imperizia e violazione degli artt. 18 comma 1 lett. f), 37 comma 1 e 169 comma 1 D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, per aver omesso di formare adeguatamente il lavoratore e di impartirgli disposizioni sui rischi e sulle azioni da intraprendere nella movimentazione dei carichi manuali.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso l'imputato a mezzo del difensore formulando quattro motivi.

2.1. Con il primo motivo, ha dedotto la violazione di legge in relazione al riconoscimento della responsabilità penale dell'imputato fondata sulla qualifica formale di legale rappresentante della società. Il difensore afferma che Bu.Do. era un mero prestanome e, non essendo stata dimostrata la sua partecipazione attiva nella gestione dell'attività aziendale, non avrebbe dovuto rispondere dell'infortunio.

2.2. Con il secondo motivo, ha dedotto il vizio di motivazione in relazione alla prevedibilità e prevenibilità dell'evento. Secondo il difensore, il cedimento del materiale edilizio sarebbe un evento imprevedibile e non evitabile secondo la ordinaria diligenza: la sentenza impugnata si limita a richiamare gli obblighi generali di prevenzione ma non considera la concreta possibilità di impedire il fatto.

2.3. Con il terzo motivo, ha dedotto il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131 bis cod. proc.

pen. Il difensore osserva che la Corte avrebbe richiamato in maniera generica la gravità del fatto e l'intensità del dolo e non avrebbe tenuto conto del modesto danno economico e della natura delle lesioni, oltreché della scarsa incidenza del comportamento omissivo ascritto all'imputato.

2.4. Con il quarto motivo, ha dedotto il vizio di motivazione in relazione alla determinazione della pena. Il difensore lamenta la scelta della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria e il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

3. Il Procuratore Generale, nella persona del sostituto Marilia Di Nardo, ha rassegnato conclusioni scritte con cui ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso deve essere rigettato.

2. Il primo motivo, con cui si censura nella sostanza la qualifica del datore di lavoro del ricorrente, è inammissibile o comunque manifestamente infondato.

Invero la doglianza, a fronte della motivazione della Corte di Appello che ha richiamato i principi della giurisprudenza di legittimità secondo cui il legale rappresentante di una società, anche qualora prestanome, sia pur sempre destinatario degli obblighi di protezione antinfortunistica, si limita a ribadire in maniera generica la sua qualifica di mero prestanome, senza indicare alcun elemento a sostegno di tale assunto e, soprattutto, senza contrappore al percorso giuridico seguito nella sentenza impugnata alcuna ragione di fatto o di diritto.

Va piuttosto ribadito che la posizione di garanzia in tema di debito di sicurezza antinfortunistica deve essere riferita anche solo alla assunzione della carica di legale rappresentante della società alle cui dipendenze è posto il lavoratore e su cui i terzi fanno affidamento. Tale interpretazione è confortata dalla lettura degli artt. 2 e 299 D.Lgs. 81/2008 che definiscono la qualifica di datore di lavoro e perimetrano l'esercizio di fatto delle funzioni tipiche di coloro che rivestono tale qualifica, oltre che quella di dirigente e preposto: il datore di lavoro è il soggetto titolare del rapporto di lavoro, il quale riveste la posizione di garanzia. Correlativamente l'art. 299 D.Lgs. 81/2008, nel definire l'esercizio di fatto dei poteri direttivi, stabilisce che la posizione di garanzia relativa al datore di lavoro grava altresì su colui che, pur sprovvisto di formale investitura, eserciti in concreto i poteri riferiti al soggetto definito dall'art. 2. La norma nell'estendere gli obblighi di garanzia a coloro ai quali di fatto svolgono le mansioni tipiche delle figure di cui si è detto, non esclude la corresponsabilità di coloro i quali sono titolari formali della qualifica. Permane, dunque, in capo al titolare del rapporto di lavoro la posizione di garanzia, a meno che questi non abbia investito tramite delega altri soggetti delle funzioni prevenzionistiche (Sez. 4. n. 2157 del 23/21/2021, dep 2002, Beccalini, Rv 282568). Alla luce di tali considerazioni devono essere ribaditi i precedenti di legittimità che hanno affermato come la responsabilità dell'amministratore di società in ragione della posizione assegnatagli dall'ordinamento, non viene meno per il fatto che il ruolo rivestito sia apparente (Sez. 4 n. 30167 del 06/04/2023, Di Rosa, Rv 284828; Sez. 4, n. 49732 del 11/11/2014, Canigiani, Rv. 261181-01).

3. Il secondo motivo, con cui si è censurata la prevedibilità e prevenibilità dell'evento, è infondato.

Incontestata la dinamica dell'infortunio e l'assenza di qualsivoglia attività di formazione e informazione del lavoratore dipendente, assunto dapprima con contratto di lavoro a tempo determinato (dal 29 gennaio 2018 al 15 febbraio 2018) e poi (dal mese di marzo 2018) con contratto di lavoro a tempo indeterminato, il tema della prevedibilità e della prevenibilità dell'infortunio è stato adeguatamente affrontato dai giudici di merito.

Il Tribunale ha osservato che era stata la movimentazione manuale del carico a determinare la caduta del tubo, sicché era ragionevole ritenere che ove il lavoratore fosse stato correttamente istruito sulle modalità di movimentazione manuale dei carichi l'infortunio non si sarebbe verificato. Non è circostanza imprevedibile - prosegue il Tribunale - che tubi accatastati su un furgone assieme ad altro materiale di varia specie possono scivolare e colpire i lavoratori che stanno scaricando quel materiale: d'altronde le regole relative alla corretta movimentazione manuale di carichi valgono proprio a prevenire il rischio specifico di caduta disordinata degli stessi con conseguente lesione dell'incolumità fisica del lavoratore.

In coerenza con tale assunto, la Corte ha ribadito la responsabilità del datore di lavoro per non aver ottemperato all'obbligo di fornire al lavoratore assunto una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza con particolare riferimento al posto di lavoro e alle mansioni a cui è addetto e ha affermato che, laddove il datore di lavoro non adempia a tale obbligo, l'omessa formazione potrà essere considerata causa dell' infortunio verificatosi in conseguenza della mancata consapevolezza da parte del lavoratore dei rischi connessi alla lavorazione e del modo in cui ovviare a tali rischi.

L'iter argomentativo seguito è rispettoso del dettato normativo e dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.

Le nozioni di informazione, formazione e addestramento sono definite nel D.Lgs. n. 81/08 all'art. 2, lettere aa), bb) e cc) dove si legge che:

- la "formazione" è il "processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi";

- l'"informazione" è il "complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro";

- l'"addestramento" è il "complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l'uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro". L'art. 37 D.Lgs. n. 81/08 nei primi tre commi disciplina i contenuti e le modalità della formazione e dell'informazione e stabilisce al quarto comma che debbano avvenire -unitamente all'addestramento specifico "ove previsto" - "in occasione: a) della costituzione del rapporto di lavoro o dell'inizio dell'utilizzazione qualora si tratti di somministrazione di lavoro; b) del trasferimento o cambiamento di mansioni; c) della introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e miscele pericolose".

L'obbligo di fornire adeguata formazione ai lavoratori, è uno dei principali gravanti sul datore di lavoro, ed in generale sui soggetti preposti alla sicurezza del lavoro (Sez. 4, n. 41707 del 23 settembre 2004, Bonari, Rv. 230257; Sez. 4, n. 6486 del 3 marzo 1995, Grassi, Rv. 201706). Il datore di lavoro risponde dell'infortunio occorso al lavoratore, in caso di violazione degli obblighi, di portata generale, relativi alla valutazione dei rischi presenti nei luoghi di lavoro nei quali siano chiamati ad operare i dipendenti, e della formazione dei lavoratori in ordine ai rischi connessi alle mansioni, anche in correlazione al luogo in cui devono essere svolte (Sez. 4, n. 49593 del 14/06/2018, T., Rv. 274042-01; Sez. 4, n. 45808 del 27 giugno 2017, Catrambone ed altro, Rv. 271079). È, infatti, tramite l'adempimento di tale obbligo che il datore di lavoro rende edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti (Sez. 4, n. 11112 del 29 novembre 2011, P.C. in proc. Bortoli, Rv. 252729). Ove egli non adempia a tale fondamentale obbligo, sarà chiamato a rispondere dell'infortunio occorso al lavoratore, laddove l'omessa formazione possa dirsi causalmente legata alla verificazione dell'evento, ovvero laddove sia accertato che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo (ex multis, Sez. Un., n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, Rv. 222138).

Il motivo, di contro, contesta in maniera apodittica la prevedibilità e la prevenibilità dell'evento, senza contrapporre all'iter argomentativo dei giudici di merito alcuna ragione di fatto o di diritto: il ricorrente si limita ad addure la imprevedibilità della caduta del materiale durante la movimentazione, in contraddizione con le comuni massime di esperienza (per cui i carichi movimentali manualmente sono soggetti a caduta), e la non prevenibilità dell'evento, in contraddizione con i principi che, come detto, governano l'accertamento della casualità della colpa.

4. Il terzo motivo, con cui si censura il mancato riconoscimento della causa non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. è inammissibile per difetto di specificità.

Secondo un consolidato orientamento, in merito al riconoscimento (o diniego) della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis cod. pen., il giudice deve motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l'entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il richiamo a mere clausole di stile (Sez. 6, n. 18180 del 20/12/2018, dep. 2019, Venezia, Rv. 275940). Il giudizio sulla tenuità dell'offesa deve essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all'art. 133, comma 1, cod. pen. (a seguito della entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, a decorrere dal 30 dicembre 2022 ex art. 6 D.L. 31 ottobre 2022 n. 162, anche della condotta susseguente al reato), ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. 6 n. 55107 del 8/11/2018, Milone, Rv. 274647; sez. 3 n. 34151 del 18/6/2018, Foglietta e altro, Rv. 273678). Peraltro la richiesta di applicazione della causa di non punibilità deve ritenersi implicitamente disattesa dal giudice qualora la struttura argomentativa della sentenza richiami, anche rispetto a profili diversi, elementi che escludono una valutazione del fatto in termini di particolare tenuità (Sez, 3, n. 43604 del 08/09/2021, Cincolà, Rv. 282097-01), sicché la motivazione può risultare anche implicitamente dall'argomentazione con la quale il giudice d'appello abbia considerato gli indici di gravità oggettiva del reato e il grado di colpevolezza dell'imputato, alla stregua dell'art. 133 cod. pen., per stabilire la congruità del trattamento sanzionatorio irrogato dal giudice di primo grado (ex plurimis, Sez. 5, n. 15658 del 14/12/2018, dep. 2019, D., Rv. 275635; Sez. 4 n. 27595 del 11/05/2022, Omogiate Rv. 283420)

Trattandosi, quindi, di una valutazione da compiersi sulla base dei criteri di cui all'art. 133, cod. pen., essa rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito e, di conseguenza, non può essere sindacata dalla Corte di legittimità, se non nei limiti della mancanza o della manifesta illogicità della motivazione postavi a sostegno.

La Corte distrettuale, nel caso in esame, ha reputato decisivi, ai fini della non configurabilità della causa di non punibilità la condotta nelle sue modalità concrete, i plurimi precedenti specifici, richiamando in tal modo il presupposto ostativo della abitualità, nonché l'intensità del dolo.

L'iter argomentativo, per quanto eccentrico nel riferimento al dolo a fronte della contestazione del reato di lesioni colpose, si deve, comunque, saldare con la motivazione complessiva adottata dalla Corte e dalla valutazione di gravità del reato desumibile dalla scelta della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria.

Il motivo, di contro, si limita a richiamare in maniera apodittica "il modesto danno economico" e ad affermare la scarsa entità delle lesioni prodotte, in contraddizione con la rilevante durata della malattia indicata nel capo di imputazione, e, dunque, ad addurre censure del tutto generiche.

5. Il quarto motivo, incentrato sul trattamento sanzionatorio e in particolare sulla scelta della pena detentiva e sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, è inammissibile per difetto di specificità.

Sotto il primo profilo, la Corte ha posto l'accento sui numerosi precedenti penali anche specifici gravanti sull'imputato e in tal modo ha assolto all'onere di indicare la ragioni della scelta (Sez. 6, n. 10772 del 20/02/2018, F. Rv. 272762-01; Sez. 4 n. 4361 del 21/10/2014, dep. 2015, Ottino, Rv. 263101).

Sotto il secondo profilo, la Corte ha sottolineato l'assenza di elementi positivi di valutazione in tale senso (in conformità di Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986-01).

La censura del ricorrente è meramente avversativa e, dopo che la Corte ha motivato in ordine ad entrambe le richieste con indicazione di ragioni pertinenti e coerenti con gli atti, deduce una carenza argomentativa, in realtà inesistente.

6. Al rigetto del ricorso segue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il 18 marzo 2025.

Depositata in Cancelleria il 22 aprile 2025.

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