La riscrittura del delitto di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346-bis c.p., operata dalla legge n. 114 del 2024, che circoscrive la nozione di “mediazione illecita” alla sola induzione del pubblico ufficiale alla commissione di un atto costituente reato, non viola l’obbligo di incriminazione derivante dall’art. 12 della Convenzione penale di Strasburgo sulla corruzione, né si pone in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., rientrando tale scelta nello spazio di discrezionalità riservato al legislatore nazionale nella concreta definizione delle fattispecie penali, in conformità al principio di precisione della legge penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.
SENTENZA N. 185
ANNO 2025
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da: Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera e), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare), sostitutivo dell’art. 346-bis del codice penale, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, nel procedimento penale a carico di A.V. T. e altri con ordinanza del 31 gennaio 2025, iscritta al n. 47 del registro ordinanze 2025 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2025.
Visti gli atti di costituzione di A.V. T., S. srl, J.E. S.S.A., D.A. S.C., G. srl, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 ottobre 2025 il Giudice relatore Francesco Viganò;
uditi gli avvocati Alfonso Celotto e Giorgio Perroni per A.V. T., Bruno Andò per S. srl, Luca Ripoli per J.E. S.S.A., D.A. S.C. e G. srl, nonché gli avvocati dello Stato Massimo Di Benedetto e Lorenzo D’Ascia per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 7 ottobre 2025.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 31 gennaio 2025, iscritta al n. 47 reg. ord. del 2025, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera e), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare), che ha sostituito l’art. 346-bis del codice penale, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 12 della Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, ratificata e resa esecutiva con la legge 28 giugno 2012, n. 110 (di seguito: Convenzione di Strasburgo).
1.1.– Il giudice a quo sta celebrando l’udienza preliminare nei confronti di numerosi imputati, persone fisiche e società, in un procedimento nel quale sono contestati, tra gli altri, i delitti di traffico di influenze illecite, di riciclaggio e autoriciclaggio, nonché i corrispondenti illeciti amministrativi da reato.
1.2.– In punto di rilevanza delle questioni, il rimettente riferisce di dover fare applicazione dell’art. 346-bis cod. pen. per decidere tanto sulla richiesta di applicazione della pena formulata da uno degli imputati, quanto sull’istanza di rinvio a giudizio nei confronti degli altri (che non hanno richiesto riti alternativi).
Le imputazioni, secondo la prospettazione accusatoria, hanno a oggetto una «mediazione onerosa», finalizzata «alla commissione di fatti che, nella legislazione all’epoca vigente, costituivano ipotesi di abuso di ufficio (art. 323 c.p.) a vantaggio indebito di privati». L’imputato M. B. (nel frattempo deceduto, come risulta dai verbali di udienza trasmessi con gli atti del procedimento principale), sfruttando relazioni esistenti con l’allora Commissario straordinario per l’emergenza sanitaria nazionale, D. A., si sarebbe fatto promettere e consegnare oltre 11,9 milioni di euro dall’imprenditore e coimputato A.V. T., che agiva d’intesa con altri imprenditori essi pure imputati. Tale somma avrebbe costituito il compenso della sua illecita mediazione presso il Commissario straordinario, finalizzata a indurre quest’ultimo ad affidare al gruppo T. una posizione privilegiata nelle forniture dalla Cina di mascherine protettive, «in aperta violazione dei doveri di imparzialità richiamati espressamente dall’art. 122 del dl n. 18/20 (cd. decreto cura Italia) e delle norme sulla forma scritta ad substantiam dei contratti della pubblica amministrazione».
In adempimento del mandato illecito, M. B. avrebbe poi effettivamente “accreditato” A.V. T. presso il Commissario, il quale avrebbe assicurato all’imprenditore la possibilità di selezionare le società cinesi con le quali lo stesso Commissario avrebbe concluso contratti aventi a oggetto la fornitura di circa 800 milioni di mascherine protettive, per un importo complessivo di circa 1.250.000.000 di euro; e ciò senza alcun incarico formale o contratto scritto con A.V. T., il quale avrebbe così potuto incassare provvigioni sui prezzi pagati dal Governo, senza alcun controllo pubblico.
Senonché, a seguito dell’abrogazione del reato di abuso d’ufficio e della riduzione del perimetro applicativo della fattispecie di traffico di influenze illecite ad opera della legge n. 114 del 2024, il fatto contestato ad A.V. T. e agli altri imprenditori coimputati sarebbe ormai privo di rilevanza penale.
1.3.– Ancora in punto di ammissibilità, il rimettente ricorda che una delle eccezioni alla preclusione del sindacato di legittimità costituzionale in materia penale con effetti in malam partem (come quelli che si determinerebbero dalla auspicata reviviscenza della fattispecie incriminatrice precedente alla legge n. 114 del 2024) è individuata dalla giurisprudenza costituzionale nel contrasto della disposizione censurata con obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. (sono richiamate, tra le altre, le sentenze n. 37 del 2019 e n. 8 del 2022). Tale ipotesi ricorrerebbe nel caso di specie, nel quale il legislatore avrebbe violato «un vero e proprio obbligo di incriminazione» del traffico di influenze illecite, discendente dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo.
1.4.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo si sofferma sull’evoluzione della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 346-bis cod. pen., introdotta con la legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) e riformulata una prima volta con la legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici).
Con l’intervento del 2019, in attuazione dell’obbligo internazionale derivante dalla Convenzione penale sulla corruzione, il legislatore avrebbe ampliato l’area di applicabilità del delitto, punendo con la reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi la condotta di chi, fuori dei casi di concorso in corruzione propria e impropria, «sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, ovvero per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri», pena estesa anche a «chi indebitamente dà o promette denaro o altra utilità».
La legge n. 114 del 2024, con la disposizione censurata, avrebbe invece ridotto «in misura consistente» il perimetro applicativo della fattispecie sotto plurimi profili: a) in primo luogo, la mediazione illecita dovrebbe ora consistere nella «utilizzazione intenzionale di relazioni esistenti con l’agente pubblico», con esclusione di quelle meramente «asserite»; b) l’utilità data o promessa, poi, sarebbe limitata al denaro o ad altra utilità «economica»; c) infine, la mediazione onerosa sarebbe penalmente rilevante soltanto in quanto finalizzata alla commissione, da parte dell’agente pubblico, di «un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito».
La contestuale abrogazione dell’abuso di ufficio, operata dalla stessa legge n. 114 del 2024, avrebbe reso la fattispecie di cui al modificato art. 346-bis cod. pen. «di difficile, se non impossibile, applicazione» nei casi di mediazione onerosa (quale quello di cui si discute nel giudizio a quo), in quanto «uno dei reati più frequentemente obiettivo della mediazione onerosa era proprio l’abuso d’ufficio».
Tanto premesso, il rimettente sottolinea il carattere cogente della disposizione dell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo, evidenziato dall’espressione «shall adopt […] as criminal offences». Dalla Convenzione, quindi, discenderebbe un «vero e proprio obbligo di incriminazione» del traffico di influenze in capo agli Stati parte e non già una mera «raccomandazione» o un «obbligo a prendere in considerazione», come previsto invece, sempre per il traffico di influenze, dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003, ratificata e resa esecutiva con la legge 3 agosto 2009, n. 116 (di seguito: Convenzione di Mérida).
Alla luce del citato art. 12 della Convenzione di Strasburgo, che individua un nucleo minimo di condotte che debbono essere necessariamente oggetto di incriminazione, il legislatore italiano avrebbe in particolare il dovere di assicurare rilievo, ai fini della punibilità, allo sfruttamento da parte del mediatore di relazioni «non solo esistenti ma anche asserite/millantate», come pure alla promessa o dazione, quale contropartita della condotta illecita, di «qualsiasi vantaggio indebito e non solo [di] utilità economiche».
Inoltre, la Convenzione di Strasburgo non limiterebbe «il concetto di mediazione illecita a quella diretta a far commettere al funzionario pubblico un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato».
Né potrebbe ritenersi che la definizione convenzionale del traffico di influenze, «nel delineare in maniera dettagliata le condotte che devono essere previste come reato dagli stati membri (quale “contenuto minimo”)», si ponga essa stessa in contrasto con i principi di tassatività e determinatezza della norma incriminatrice ricavabili dall’art. 25, secondo comma, Cost. «ovvero con altri principi fondamentali della Carta Costituzionale»; sicché essa ben potrebbe essere assunta quale parametro interposto nel giudizio di legittimità costituzionale. Né, ancora, potrebbero essere fatte valere le riserve apposte dal Governo italiano al momento del deposito della ratifica della Convenzione di Strasburgo con riguardo al traffico di influenze illecite, valendosi della facoltà prevista dall’art. 37 della Convenzione stessa, poiché lo Stato italiano avrebbe deciso di non confermarle all’atto della approvazione della legge n. 3 del 2019.
In conclusione, il rimettente dubita della legittimità costituzionale della disposizione censurata perché avrebbe circoscritto la fattispecie incriminatrice a «un novero di condotte assai più limitate rispetto al “contenuto minimo” previsto dall’art. 12» della Convenzione di Strasburgo. Più specificamente, essa dovrebbe ritenersi costituzionalmente illegittima, «per quanto rileva nel caso di specie, nella parte in cui, nel richiedere che la mediazione illecita sia solo quella finalizzata alla commissione di un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato, non prevede, tra le possibili finalità della condotta, i fatti rientranti [n]ella ormai abrogata ipotesi di abuso di ufficio».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o infondate.
2.1.– L’inammissibilità risulterebbe dalla «granitica giurisprudenza» costituzionale secondo cui, «in linea di principio, sono inammissibili questioni di legittimità costituzionale che tendano ad ottenere declaratorie di incostituzionalità con effetti in malam partem nell’ambito del diritto penale sostanziale».
Il caso in esame non sarebbe sussumibile in alcuna delle eccezioni al principio enucleate dalla giurisprudenza di questa Corte, poiché tutte le sentenze direttamente o indirettamente richiamate dal giudice a quo «si esprimevano in relazione a casi in cui era una fonte di diritto eurounionale, e non di diritto internazionale pattizio, a militare nel senso della declaratoria di incostituzionalità» (sono richiamate tra le altre le sentenze n. 37 del 2019, n. 32 del 2014 e n. 28 del 2010). Peraltro, il rimettente non avrebbe «minimamente motivato sulle ragioni della ritenuta possibilità di includere tra le eccezioni enucleate dalla giurisprudenza costituzionale […] l’ipotesi di norma del diritto internazionale pattizio previsiva dell’obbligo di incriminazione». Le questioni sarebbero pertanto inammissibili per l’erronea assimilazione tra il diritto pattizio e il diritto eurounionale, avente «una valenza ordinamentale diversa, più intensa rispetto a quanto accade per il diritto internazionale pattizio, ciò che ben giustifica la non automatica estensione al diritto internazionale di ogni statuizione relativa al diritto UE».
A impedire una pronuncia di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. con effetti in malam partem sarebbe «il principio di stretta legalità del reato e della pena (in una al suo corollario della riserva di legge)», sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., «espressivo non di un generico principio costituzionale, ma di un principio fondamentale, rilevante anche come controlimite». Lo Stato eventualmente inottemperante all’accordo internazionale sarebbe tutt’al più «esposto a responsabilità politica (o, comunque, alle conseguenze previste dal diritto internazionale dei trattati per la violazione della regola pacta servanda) innanzi alla Comunità internazionale», non potendo «il principio di stretta legalità/riserva assoluta di legge in materia penale […] risultare subvalente e recessivo a fronte di una ipotetica violazione dell’art. 117 Cost. (nella prospettiva […] del diritto internazionale pattizio, e non del diritto eurounionale)».
2.2.– Le questioni sarebbero inammissibili anche per difetto di rilevanza, sotto tre diversi profili:
a) perché il giudice a quo avrebbe «radicalmente omesso di accertare la definibilità del giudizio ai sensi dell’art. 129 c.p.p.», verificando, in specie, che difetti «il presupposto della c.d. evidente innocenza» dell’imputato, in presenza del quale le formule assolutorie «perché il fatto non sussiste» e «perché l’imputato non lo ha commesso» prevarrebbero, in quanto più favorevoli, «anche in un eventuale concorso con la formula assolutoria relativa ad abolitio criminis»;
b) perché lo stesso giudice avrebbe omesso di motivare sulle ragioni per le quali «i fatti concreti non sarebbero sussumibili anche nel perimetro concettuale della nuova versione dell’art. 346bis c.p.», pur a fronte di una modifica dell’imputazione, da parte del pubblico ministero, successiva alla introduzione della disposizione censurata;
c) perché il rimettente avrebbe appuntato le sue censure su tre aspetti di novità della fattispecie incriminatrice riformulata (riferiti alla necessità di relazioni «esistenti» e non anche meramente «asserite ma inesistenti», di una utilità di natura solo «economica» e di una mediazione «teleologicamente orientata alla commissione di un reato»), i quali, però, almeno in parte, non assumerebbero alcun rilievo nel giudizio principale. L’ipotesi concreta descritta dallo stesso giudice a quo, infatti, sarebbe «suscettiva di soddisfare […] entrambi i [i primi due] requisiti anche considerando la nuova versione dell’art. 346bis c.p., perché: − l’accusa rappresenta lo sfruttamento di relazioni esistenti; − l’accusa ha ipotizzato la promessa/consegna di undici milioni» di euro.
2.3.– Nel merito, le questioni sarebbero «infondat[e] in modo manifesto».
2.3.1.– Sotto un primo profilo, la difesa dello Stato ritiene che dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo non derivi un obbligo, e «comunque non un obbligo del tipo ritenuto dal Giudice a quo», come dimostrerebbero le circostanze che alcuni dei Paesi aderenti non abbiano introdotto nei loro ordinamenti il reato in oggetto (tra gli altri, la Germania, i Paesi Bassi, la Danimarca e il Regno Unito), e che, invece, la «criminalizzazione dei fatti di traffico di influenze illecite» sia prevista nel «progetto di direttiva UE (proposta COM-2023-234 final), in materia di corruzione»: ciò che, secondo l’interveniente, presupporrebbe «la consapevolezza dell’insussistenza, ad oggi, di un obbligo di tal fatta».
La disposizione convenzionale, peraltro, non consegnerebbe agli interpreti «una rigida, completa e analitica figura delittuosa che gli Stati debbono semplicemente trasporre nel proprio ordinamento», ma indicherebbe «soltanto delle direttrici generali in relazione all[e] quali gli Stati debbono legiferare», ben potendo l’obbligo internazionale essere soddisfatto «anche mercé la lettura congiunta di più norme incriminatrici».
In particolare, la fonte sovranazionale non intenderebbe criminalizzare «qualsiasi traffico di influenze, qualsiasi attività di lobbying», essendo «la carica del disvalore penale […] soggettivamente orientata soltanto nei confronti di quel particolare traffico di influenze che è illecito». Secondo l’Explanatory Report to the Criminal Law Convention on Corruption, infatti, la «improper influence must contain a corrupt intent by the influence peddler: acknowledged forms of lobbying do not fall under this notion». Sarebbe legittima, quindi, una norma (come quella censurata) che limita «i casi in cui l’influenza è illecita a quelli in cui la mediazione tende alla commissione di un reato da parte dell’agente pubblico», essendo il legislatore nazionale andato «anche oltre rispetto al minimo teorizzato dalla Convenzione (appunto incriminando la mediazione tesa alla commissione di qualsivoglia reato, e non soltanto alla commissione di un fatto corruttivo)».
In ogni caso la Convenzione di Strasburgo, «non definendo in maniera esatta e compiuta i fatti di traffico di influenze illecite da penalmente sanzionare, e neppure lumeggiando il confine tra il reato e l’attività di lobbying», non imporrebbe agli Stati un obbligo di criminalizzazione inderogabile, ma rimetterebbe loro «un margine di discrezionalità per concretamente poter declinare la fattispecie […] in considerazione “del proprio diritto interno” (e, pertanto, nel caso di interesse, in considerazione della necessità di maggiormente valorizzare i principi di offensività e di determinatezza)».
2.3.2.– Le questioni sarebbero, inoltre, infondate perché le censure si rivolgerebbero nei confronti di una norma che non avrebbe avuto l’effetto innovativo che il giudice a quo le attribuisce, ma si sarebbe limitata a precisare ciò che la Corte di cassazione aveva già affermato con riferimento alla previgente formulazione dell’art. 346-bis cod. pen., ossia che per mediazione «illecita» debba intendersi quella «volta alla commissione di un illecito penale – di un reato – idoneo a produrre vantaggi al committente» (sono citate Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 14 ottobre 2021-13 gennaio 2022, n. 1182 e sentenza 8 luglio-9 novembre 2021, n. 40518).
La giurisprudenza di legittimità, pertanto, avrebbe già escluso «l’opzione ermeneutica di ritenere illecita la mediazione tesa a far commettere al pubblico ufficiale un qualsiasi illecito (in tesi, solamente disciplinare, o civile, amministrativo, o contabile)». Tale soluzione sarebbe «ben ragionevole, anche in considerazione degli esiti applicativi incerti che tale interpretazione avrebbe consegnato agli interpreti».
2.3.3.– Quanto, poi, alla critica rivolta al venir meno, nella nuova formulazione del reato, della rilevanza penale delle ipotesi in cui le relazioni siano solo millantate ma non effettivamente esistenti, l’interveniente sostiene che il testo dell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo non richiederebbe la necessaria criminalizzazione anche delle ipotesi di relazioni non esistenti. Infatti, la coppia di verbi «afferma o conferma» («asserts or confirms») utilizzata nel citato art. 12 non sembrerebbe «dover essere necessariamente intesa come “afferma relazioni inesistenti, o conferma relazioni esistenti”, ma più semplicemente come “afferma (nel senso di sostenerne l’esistenza) o conferma (nel senso che dà prova dell’esistenza)”, senza che nella prima ipotesi, tuttavia, il Legislatore convenzionale si sia intrattenuto sul profilo della verità o meno di ciò che si afferma»; profilo su cui, pertanto, lo Stato contraente conserverebbe un residuo margine di apprezzamento e discrezionalità.
2.3.4.– Analoghe considerazioni, infine, varrebbero per la limitazione, ad opera del legislatore del 2024, della nozione di «utilità» rilevante a quella di natura economica: anche in questo caso, la norma convenzionale non sembrerebbe necessariamente richiedere che l’indebito vantaggio possa essere di natura «anche non economica».
3.– Si è costituito in giudizio A.V. T., imputato nel giudizio principale del reato di cui all’art. 346-bis cod. pen., chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
3.1.– L’inammissibilità deriverebbe, sotto un primo profilo, dal difetto di rilevanza della questione, essendo la condotta contestata conforme alla nuova formulazione della fattispecie incriminatrice. L’attuale secondo comma dell’art. 346-bis cod. pen., peraltro, costituirebbe «un’esplicitazione (quasi letterale) dell’interpretazione che la Suprema Corte di Cassazione aveva a più riprese già dato alla locuzione “mediazione illecita” contenuta nel previgente art. 346-bis c.p.», riducendola a quella «finalizzata alla commissione di un “fatto di reato” idoneo a produrre vantaggi per il privato committente» (sono citate, anche in questo caso, le sentenze della Corte di cassazione n. 40518 del 2021 e n. 1182 del 2022, quest’ultima resa nell’ambito dello stesso procedimento principale): fatto di reato che dovrebbe altresì «costituire un atto contrario ai doveri dell’ufficio cui il soggetto “trafficato” è tenuto» (al riguardo viene richiamata Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 18 maggio-2 agosto 2022, n. 30564).
3.2.– Le questioni sarebbero, comunque, manifestamente infondate.
3.2.1.– In primo luogo, l’art. 12 della Convenzione di Strasburgo non imporrebbe «un obbligo generalizzato di criminalizzazione del traffico di influenze illecite», essendo detta disposizione «contestualmente (e fortemente) “depotenziata”» dalla possibilità per gli Stati di apporre riserve, rinnovabili ogni tre anni, in relazione a tale fattispecie, ai sensi degli artt. 37 e 38 della stessa Convenzione. Della facoltà di apporre riserve, peraltro, si sarebbe avvalsa anche l’Italia, in occasione della ratifica della Convenzione di Strasburgo, «tenendo ferma la non punibilità del privato che, a fronte di un’influenza soltanto vantata, corrispondesse denaro o altra utilità all’asserito mediatore».
Come già l’Avvocatura dello Stato, anche la difesa dell’imputato rileva, poi, che alcuni altri Stati firmatari – quali la Germania, il Regno Unito, la Danimarca e i Paesi Bassi – non avrebbero addirittura affatto introdotto il reato in questione nei rispettivi ordinamenti: introduzione che, invece, sarebbe prevista nel progetto di direttiva dell’Unione europea in materia di corruzione, presentato dalla Commissione e «attualmente in discussione».
Nemmeno il mancato rinnovo delle riserve da parte dell’Italia sembrerebbe «elemento idoneo a far propendere per l’imposizione, da parte della Convenzione in parola, di un generalizzato obbligo di criminalizzazione del traffico di influenze illecite».
3.2.2.– In secondo luogo, la Convenzione di Strasburgo non identificherebbe «un nucleo minimo di condotte sanzionabili», ma lascerebbe a ciascun legislatore nazionale, «secondo il proprio diritto interno», un ampio margine di apprezzamento in ordine alle «misure necessarie a definire l’illecito penale del traffico di influenze illecite» e ai suoi «confini rispetto alla legittima attività di lobbying». Come chiarito dall’Explanatory Report to the Criminal Law Convention on Corruption, infatti, la repressione penale dovrebbe indirizzarsi solo verso le «forme di mediazione che appaiono illecite», facendo salve «le forme di lobbismo “riconosciute” (ossia, consentite dall’ordinamento nazionale, anche solo implicitamente o in forza dei relativi principi generali)».
3.3.– Le questioni, infine, sarebbero inammissibili anche per il potenziale «effetto in malam partem di una sentenza di accoglimento».
Sotto tale profilo, la parte denuncia il contrasto tra l’art. 12 della Convenzione di Strasburgo e l’art. 25 Cost. La previsione convenzionale, infatti, sarebbe a tal punto generica da «non consent[ire] al legislatore nazionale di […] circoscrivere con chiarezza l’ambito del penalmente rilevante, ossia il confine tra le attività di lobbying e le influenze illecite sull’azione dei titolari di pubbliche funzioni o esercenti di pubblici servizi». Ne risulterebbero compromessi «il principio di legalità» ed i suoi «corollari della precisione e/o determinatezza e dell’offensività». Il principio di legalità, quale «principio supremo dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo», agirebbe quindi quale «controlimite», neutralizzando «il vincolo “esterno” di matrice sovranazionale».
4.– Si è costituita in giudizio S. srl, alla quale – nel giudizio principale – è addebitato l’illecito amministrativo di cui agli artt. 5 e 25 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300), in relazione alla contestazione del reato di cui all’art. 346-bis cod. pen. La parte chiede che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate, sulla base di argomentazioni identiche a quelle svolte da A.V. T.
5.– Si è costituito in giudizio J.E. S.S.A., coimputato nel giudizio principale del reato di cui all’art. 346-bis cod. pen., chiedendo parimenti che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
5.1.– Gli argomenti sviluppati dalla parte sono sostanzialmente coincidenti con quelli proposti da A.V. T. quanto alla inammissibilità delle questioni, sotto il duplice profilo della inadeguata motivazione sulla rilevanza e della preclusione del sindacato in malam partem, a fronte di un obbligo di matrice convenzionale che si porrebbe in contrasto con i principi di legalità e offensività di cui all’art. 25 Cost.
5.2.– Quanto ai profili sostanziali, la parte ripercorre le origini e l’evoluzione normativa della fattispecie incriminatrice, soffermandosi sugli interventi giurisprudenziali che l’avrebbero sottoposta a una «lettura tipizzante e tassativizzante» (è richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 29 febbraio-15 maggio 2024, n. 19357), per poi giungere alla conclusione che dalla Convenzione di Strasburgo non deriverebbe un obbligo di criminalizzazione del traffico di influenze illecite, considerata la «previsione del diritto di muovere riserve ex art. 37».
Argomenti del tutto sovrapponibili a quelli già riassunti in relazione alla costituzione in giudizio del coimputato A.V. T. sono sviluppati anche in ordine alla mancata individuazione, da parte della Convenzione di Strasburgo, di un nucleo minimo di condotte sanzionabili e all’ampio margine di apprezzamento rilasciato ai legislatori nazionali nella definizione dell’illecito penale, secondo il proprio diritto interno.
In tale contesto, andrebbe anche considerato che «il c.d. “deficit democratico” delle istituzioni europee si riflette, inevitabilmente, sul procedimento di formazione delle norme comunitarie» e che «[p]roprio tale circostanza, però, deve indurre a una maggiore ponderazione quando si tratta di abilitare l’Unione Europea (o la Comunità internazionale) ad interventi penetranti nella materia penale».
In considerazione di questi rilievi e del «valore sostanziale della riserva di legge», che risiederebbe «nell’ampia libertà del Parlamento nazionale, in quanto espressione della sovranità popolare», non si rinverrebbero «nella giurisprudenza costituzionale – dalla istituzione del Giudice delle leggi ad oggi – sentenze dichiarative di incostituzionalità di norme penali per presunte violazion[i] a obblighi di criminalizzazione derivanti da convenzioni europee o internazionali, in palese contrasto con il principio di riserva di legge (statale), corollario del principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2 Cost., oltre che in spregio al divieto di reviviscenza, in seguito ad abolitio criminis (totale o parziale), della norma penale più sfavorevole».
6.– Si è costituita in giudizio D.A. S.C., imputata nel giudizio principale del delitto di riciclaggio e legale rappresentante della società G. srl, in relazione a condotte aventi a oggetto i profitti illeciti derivanti dal reato di traffico di influenze illecite. La parte chiede che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate, con argomenti identici a quelli proposti da J.E. S.S.A.
7.– Si è costituita in giudizio la stessa G. srl, alla quale – nel giudizio principale – è addebitato l’illecito amministrativo di cui agli artt. 5 e 25 del d.lgs. n. 231 del 2001 in relazione alle contestazioni dei reati di traffico di influenze illecite e riciclaggio. La parte chiede che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate, sulla base di argomentazioni identiche a quelle svolte da J.E. S.S.A.
8.– In prossimità dell’udienza hanno depositato memorie illustrative le difese di A.V. T., di S. srl e, fuori termine, J.E. S.S.A., D.A. S.C. e G. srl.
Nella propria memoria, la difesa di A.V. T. sottolinea in particolare, a dimostrazione della «assoluta irrilevanza della questione», che «l’addebito formulato sin dall’inizio (e, quindi, ben prima della riforma normativa) e quindi definitivamente formalizzato nel capo di imputazione dell’odierno interveniente ripercorre alla lettera i requisiti elencati nell’attuale art. 346-bis c.p., in quanto nell’ottica accusatoria: la mediazione onerosa sarebbe stata esercitata sfruttando relazioni effettivamente esistenti tra il “mediatore” M. B. e il Commissario Straordinario per l’Emergenza Covid, Dott. D. A.; la contropartita della mediazione illecita sarebbe consistita in un’utilità economica (conseguimento di 12 milioni di euro da parte della Società riconducibili a B.); la mediazione sarebbe stata finalizzata a far compiere al funzionario pubblico atti contrari ai suoi doveri d’ufficio costituenti reato (abuso d’ufficio)».
La medesima difesa eccepisce infine l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 11 Cost.: il giudice a quo, infatti, non chiarirebbe «per quale ragione la violazione di obblighi di diritto internazionale pattizio darebbe luogo a una violazione (oltre che, in ipotesi, dell’art. 117 Cost.) anche dell’art. 11 Cost.» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 95 del 2025).
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza in epigrafe, il GUP del Tribunale di Roma ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera e), della legge n. 114 del 2024, che ha sostituito l’art. 346-bis cod. pen., in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 12 della Convenzione di Strasburgo sulla corruzione.
Secondo il giudice a quo, la riscrittura della fattispecie di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346-bis cod. pen. ad opera della disposizione censurata avrebbe comportato una riduzione del suo perimetro applicativo incompatibile con gli obblighi derivanti dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo, ratificata dall’Italia e resa esecutiva nell’ordinamento interno con legge n. 110 del 2012. Da ciò deriverebbe la violazione tanto dell’art. 11, quanto dell’art. 117, primo comma, Cost.
2.– Ai fini di un migliore inquadramento delle questioni, conviene anzitutto ricapitolare il contenuto della norma convenzionale assunta a parametro interposto, e ripercorrere la successione delle disposizioni con le quali è stata data attuazione all’obbligo convenzionale dal 2012 ad oggi.
2.1.– L’art. 12 della Convenzione di Strasburgo recita, nel testo ufficiale inglese: «Each Party shall adopt such legislative and other measures as may be necessary to establish as criminal offences under its domestic law, when committed intentionally, the promising, giving or offering, directly or indirectly, of any undue advantage to anyone who asserts or confirms that he or she is able to exert an improper influence over the decision-making of any person referred to in Articles 2, 4 to 6 and 9 to 11 in consideration thereof, whether the undue advantage is for himself or herself or for anyone else, as well as the request, receipt or the acceptance of the offer or the promise of such an advantage, in consideration of that influence, whether or not the influence is exerted or whether or not the supposed influence leads to the intended result».
L’art. 37 della Convenzione ha previsto la possibilità, per gli Stati firmatari, di apporre, all’atto della ratifica, riserve relative ad alcune previsioni, tra cui lo stesso art. 12. Di tale facoltà si sono avvalsi vari Stati firmatari – tra i quali Danimarca, Finlandia, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia –, i quali non hanno ritenuto in particolare di vincolarsi all’obbligo di introdurre nei rispettivi ordinamenti l’incriminazione del traffico di influenze. Anche l’Italia, all’atto della ratifica dello strumento, ha apposto due riserve, con efficacia temporale dal 1° ottobre 2013 al 1° ottobre 2019, con le quali limitava tra l’altro l’attuazione dell’obbligo alle condotte, commesse nell’ambito di una relazione esistente con il pubblico agente, finalizzate a remunerare il compimento di una condotta antidoverosa.
2.2.– La legge n. 190 del 2012, ha per la prima volta previsto, in un nuovo art. 346-bis cod. pen., una fattispecie di traffico di influenze illecite, affiancata a quella preesistente di millantato credito, disciplinata dall’art. 346 cod. pen.
I primi due commi di tale nuova disposizione testualmente prevedevano:
«Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni.
La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale».
Dunque:
– a fronte del testo convenzionale imperniato sul fatto di chi «affermi o confermi» («asserts or confirms») di essere in grado di esercitare una “influenza impropria” sul processo decisionale di un pubblico agente, il testo del 2012 richiedeva lo sfruttamento di relazioni «esistenti» con un pubblico agente, sì da marcare una netta distinzione rispetto all’ipotesi (allora mantenuta parallelamente in vigore) di millantato credito, in cui – in base al tenore letterale dell’art. 346 cod. pen. – l’autore del reato doveva per l’appunto “millantare” credito presso il pubblico agente, e cioè vantare rapporti in realtà inesistenti con lo stesso;
– la disposizione richiedeva poi la ricezione o l’accettazione della promessa (ovvero, nell’ipotesi del secondo comma, la dazione o la promessa) di «denaro o altro vantaggio patrimoniale»;
– e descriveva in via alternativa l’oggetto del patto, analogamente a quanto già previsto dalla parallela norma incriminatrice del millantato credito, a) in termini di «mediazione illecita» verso il pubblico agente, ovvero b) in termini di “remunerazione” dello stesso, «in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio»: inciso, quest’ultimo, che evocava chiaramente la fattispecie di corruzione di cui all’art. 319 cod. pen., e che la giurisprudenza ha riferito a entrambe le ipotesi alternative di accordo (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 5 marzo-1° luglio 2024, n. 25650; sezione quinta penale, sentenza 18 maggio-2 agosto 2022, n. 30564).
2.3.– Il testo dell’art. 346-bis cod. pen. fu quindi incisivamente modificato dalla legge n. 3 del 2019.
In particolare, i primi due commi della disposizione furono così riformulati:
«Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all’articolo 322-bis, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, ovvero per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, è punito con la pena della reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi.
La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altra utilità».
In tal modo, lo spettro applicativo della fattispecie fu ampliato, essendosi previsto segnatamente:
– che il mediatore sfruttasse o vantasse «relazioni esistenti o asserite» con un pubblico agente, tale modifica conseguendo logicamente alla contestuale abrogazione del delitto di millantato credito di cui all’art. 346 cod. pen.;
– che la promessa o la dazione concernessero, genericamente, «denaro o altra utilità», a fronte del precedente riferimento specifico a «denaro o altro vantaggio patrimoniale»;
– che il patto avesse a oggetto, alternativamente, a) una «mediazione illecita» verso il pubblico agente, in termini identici rispetto alla formulazione precedente (salva l’estensione del reato ai pubblici ufficiali stranieri di cui all’art. 322-bis cod. pen.), ovvero b) la “remunerazione” dello stesso pubblico agente «in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri»: espressione, quest’ultima, assai più ampia rispetto alla previgente, che faceva invece riferimento al concreto compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, ovvero all’omissione o al ritardo di un atto dell’ufficio, e pertanto in grado di comprendere anche l’ipotesi della corruzione per l’esercizio delle funzioni di cui all’art. 318 cod. pen.
Queste modifiche normative furono esplicitamente giustificate, nella relazione illustrativa al disegno di legge governativo poi sfociato nella legge n. 3 del 2019 (Relazione introduttiva al disegno di legge A.C. n. 1189 - XVIII Legislatura, recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici», presentato alla Camera dei deputati dal Ministro della giustizia in data 24 settembre 2018, punti 3 e seguenti), sulla base dell’opportunità di allineare la nuova disciplina al modello di cui all’art. 12 della Convenzione di Strasburgo, anche tenendo conto dei rilievi formulati rispetto alla previgente disciplina dal Group of States against Corruption (GRECO) – e cioè dall’organismo al quale l’art. 24 della Convenzione demanda la verifica dell’attuazione degli obblighi convenzionali da parte degli Stati firmatari (Addendum to the Second Compliance Report on Italy, adottato il 22 giugno 2018).
Conseguentemente, la stessa legge n. 3 del 2019, all’art. 1, comma 10, ha impegnato il Governo a non rinnovare, alla scadenza del 1° ottobre 2019, le riserve originariamente apposte in relazione all’art. 12 della Convenzione. Ciò che è effettivamente accaduto, come risulta dal sito ufficiale del Consiglio d’Europa.
2.4.– La formulazione attuale dell’art. 346-bis cod. pen., contro cui si dirigono le censure del rimettente, è dovuta – come anticipato – alla disposizione censurata, e cioè l’art. 1, comma 1, lettera e), della legge n. 114 del 2024.
Il primo comma dell’art. 346-bis cod. pen. è stato, anzitutto, riformulato nei termini seguenti:
«Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319 e 319-ter e nei reati di corruzione di cui all’articolo 322-bis, utilizzando intenzionalmente allo scopo relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità economica, per remunerare un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, in relazione all’esercizio delle sue funzioni, ovvero per realizzare un’altra mediazione illecita, è punito con la pena della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni e sei mesi».
Conviene immediatamente notare:
– che la nuova formulazione confina la condotta incriminata alla “utilizzazione intenzionale” di «relazioni esistenti», con conseguente espunzione dall’area di rilevanza penale dell’ipotesi della vanteria di relazioni inesistenti, oggi non più coperta dalla fattispecie di millantato credito, abrogata nel 2019;
– che oggetto della promessa o della dazione torna ad essere «denaro o altra utilità economica», secondo il modello che – nella sostanza – era stato seguito dalla legge n. 190 del 2012;
– che il patto ha ora a oggetto alternativamente, in ordine invertito rispetto alle precedenti formulazioni, a) la “remunerazione” del pubblico agente «in relazione all’esercizio delle sue funzioni», e dunque – ancora – una corruzione (in questo caso, anche solo ai sensi dell’art. 318 cod. pen.), ovvero b) un’«altra mediazione illecita» con lo stesso.
La novità più significativa della riforma del 2024 consiste però nell’introduzione di un nuovo secondo comma nell’art. 346-bis cod. pen., che definisce la mediazione illecita nei termini seguenti:
«Ai fini di cui al primo comma, per altra mediazione illecita si intende la mediazione per indurre il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito».
La seconda ipotesi in cui si sostanzia il patto illecito incriminato dall’art. 346-bis cod. pen. deve consistere dunque nell’induzione del pubblico agente al compimento di un atto connotato da tre requisiti cumulativi: a) la contrarietà ai doveri d’ufficio, b) il suo carattere costitutivo di «reato», e c) la sua idoneità a produrre un «vantaggio indebito».
Dal momento che – come appena si è rilevato – l’ipotesi della “remunerazione” allude chiaramente a una corruzione del pubblico agente, l’ipotesi dell’altra mediazione illecita esige, dunque, che le due parti del traffico illecito si accordino per indurre il pubblico ufficiale a compiere una diversa tipologia di condotta criminosa, nell’interesse del soggetto che dà o promette l’utilità al “mediatore”.
Il terzo comma dell’art. 346-bis cod. pen., infine, estende la punibilità al soggetto che dà o promette al mediatore denaro o altra utilità economica.
3.– Le questioni di legittimità costituzionale ora all’esame della Corte muovono dal presupposto che le modifiche apportate all’art. 346-bis cod. pen. ad opera della riforma del 2024, restringendo l’ambito applicativo della fattispecie di traffico di influenze illecite così come in precedenza configurato in seguito alla riforma del 2019, producano un risultato in contrasto con l’obbligo che discende a carico degli Stati firmatari dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo.
Conseguentemente, il rimettente invoca da questa Corte un intervento ablativo sulla disposizione modificatrice – l’art. 1, comma 1, lettera e), della legge n. 114 del 2024 –, con il dichiarato intento «di far rivivere» il testo dell’art. 346-bis cod. pen. come risultante dalla riforma del 2019; testo che lo stesso rimettente assume, implicitamente, essere conforme al menzionato obbligo di incriminazione.
A ben guardare, peraltro, il petitum del rimettente – che pure si sofferma, nella motivazione dell’ordinanza di rimessione, su tutte le modifiche apportate alla disposizione incriminatrice dalla legge n. 114 del 2024, e sui loro asseriti profili di contrasto con l’art. 12 della Convenzione – finisce per appuntarsi su di un unico profilo, e cioè sulla definizione di «mediazione illecita» di cui al nuovo secondo comma dell’art. 346-bis cod. pen.
Come giustamente rileva l’Avvocatura generale dello Stato, i due ulteriori profili di novità della nuova formulazione dell’art. 346-bis cod. pen., confluiti nel primo comma e rappresentati a) dalla sostituzione del sintagma «sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite» con «utilizzando intenzionalmente allo scopo relazioni esistenti», e b) dalla sostituzione del sintagma «denaro o altra utilità» con «denaro o altra utilità economica», non sono in alcun modo rilevanti rispetto al caso concreto oggetto del giudizio a quo. In tale procedimento penale, infatti, la pubblica accusa contesta agli imputati di avere corrisposto somme considerevoli di denaro al mediatore, il quale avrebbe sfruttato le proprie relazioni esistenti con il Commissario straordinario, come dimostrato dalla circostanza che – secondo lo stesso capo di imputazione – quest’ultimo si sarebbe effettivamente determinato a compiere gli atti, in ipotesi contrari ai propri doveri d’ufficio, auspicati dagli stessi imputati.
Di ciò appare consapevole lo stesso rimettente, il quale dopo aver sostenuto la contrarietà di tutte e tre queste modifiche agli obblighi discendenti dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo, conclude la propria motivazione chiedendo che venga dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, «per quanto rileva nel caso di specie, nella parte in cui, nel richiedere che la mediazione illecita sia solo quella finalizzata alla commissione di un atto contrario ai doveri di ufficio costituente reato, non prevede, tra le possibili finalità della condotta, i fatti rientranti [n]ella ormai abrogata ipotesi di abuso di ufficio».
Per quanto poi il dispositivo dell’ordinanza di rimessione investa formalmente l’intero art. 1, comma 1, lettera e), della legge n. 114 del 2024, e pertanto il complesso delle modifiche apportate al testo dell’art. 346-bis cod. pen., dalla motivazione dell’ordinanza stessa si evince, dunque, che le censure si appuntano soltanto sul nuovo secondo comma di tale disposizione, e più in particolare sull’inciso «costituente reato» (evidenziato in corsivo dalla stessa ordinanza di rimessione), che determina già prima facie l’irrilevanza penale del fatto contestato dalla pubblica accusa agli imputati.
In definitiva, il rimettente interroga questa Corte esclusivamente sulla compatibilità di tale requisito, stabilito dal nuovo secondo comma dell’art. 346-bis cod. pen., con l’obbligo di incriminazione discendente dall’art. 12 della Convenzione. E proprio tale interrogativo segna i limiti del thema decidendum sottoposto oggi a questa Corte.
4.– Così perimetrato l’oggetto del giudizio, possono anzitutto esaminarsi i profili di ammissibilità delle questioni.
4.1.– È fondata, in primo luogo, l’eccezione, sollevata dalla difesa di A.V. T. nella propria memoria integrativa, di inammissibilità della questione formulata in riferimento all’art. 11 Cost.
Il rimettente evoca infatti quale parametro interposto esclusivamente l’art. 12 della Convenzione di Strasburgo: e cioè una norma di diritto internazionale pattizio, che non è idonea a integrare il parametro di cui all’art. 11 Cost (sentenza n. 95 del 2025, punto 5.3. del Considerato in diritto).
4.2.– L’Avvocatura generale dello Stato e tutte le parti costituite eccepiscono poi l’inammissibilità delle questioni in quanto tendenti a conseguire una pronuncia in malam partem in materia penale, al di fuori delle ipotesi ammesse dalla giurisprudenza di questa Corte. In particolare, non si potrebbe far leva a questo scopo sull’asserita violazione di norme di diritto internazionale pattizio che pongano obblighi di incriminazione, dal momento che all’accoglimento delle questioni osterebbe, in tale ipotesi, il principio di legalità, segnatamente nella sua declinazione di riserva di legge in materia penale, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. La deroga alla preclusione delle pronunce in malam partem, riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte allorché venga in considerazione il rispetto degli obblighi sovranazionali, sarebbe infatti riferibile unicamente agli obblighi discendenti dal diritto dell’Unione europea, e non a quelli di matrice pattizia.
Una identica eccezione è stata recentemente esaminata e ritenuta infondata da questa Corte con la sentenza n. 95 del 2025, sulla base di considerazioni (punti da 5.3.1. a 5.3.4. del Considerato in diritto) che vanno qui integralmente ribadite.
In risposta agli specifici argomenti addotti dall’interveniente e dalle parti, conviene soltanto sinteticamente osservare:
– che l’art. 117, primo comma, Cost. subordina il legittimo esercizio della potestà legislativa statale e regionale al rispetto tanto dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» quanto degli «obblighi internazionali», di talché la violazione degli uni e degli altri da parte della legge statale e regionale determina – secondo la costante giurisprudenza di questa Corte – l’identica conseguenza della sua illegittimità costituzionale; ferme restando, naturalmente, la possibilità per il giudice comune di disapplicare la legge allorché contrasti con una norma del solo diritto dell’Unione europea, allorché essa sia dotata di effetto diretto (possibilità, quest’ultima, che discende dal principio del primato del diritto dell’Unione, riconosciuto dallo Stato italiano sulla base dell’art. 11 Cost.), nonché la diversa estensione dei limiti a tali vincoli e obblighi (sentenza n. 95 del 2025, punto 5.3.2. del Considerato in diritto);
– che un’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge penale contrastante con un obbligo internazionale o unionale, dalla quale discendano effetti in malam partem per il consociato, non è incompatibile con il principio di legalità in materia penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., e segnatamente con la riserva di legge, sempre che la responsabilità penale che ne risulti discenda comunque dalla legge statale, e non direttamente dalla norma internazionale o unionale (sentenza n. 95 del 2025, punto 5.3.3. del Considerato in diritto);
– che tale principio vale anche nell’ipotesi, che qui viene specificamente in considerazione, in cui a questa Corte non sia richiesto di ripristinare integralmente la vigenza di una disposizione incriminatrice abrogata dal legislatore in violazione di un obbligo internazionale, come era accaduto nei casi decisi con la sentenza n. 95 del 2025, ma di eliminare un singolo requisito di una disposizione incriminatrice, introdotto da una modifica legislativa in asserita violazione di un obbligo internazionale, dal momento che anche in questa ipotesi la responsabilità penale degli individui continuerebbe a fondarsi non direttamente sulla norma internazionale, ma sulla legge penale interna, come risultante dalla sentenza di questa Corte;
– che l’argomento che fa leva sul supposto “deficit democratico” del parametro interposto – peraltro riferito dalla difesa di J.E. S.S.A., D.A. S.C. e G. srl alle «norme comunitarie», anziché alla norma di diritto internazionale pattizio che qui viene in considerazione – parimenti non ha pregio, sol che si consideri che la Convenzione di Strasburgo è stata ratificata sulla base di una legge parlamentare di autorizzazione, la quale ne ha altresì disposto la piena e intera esecuzione. D’altra parte, come già osservato nella sentenza n. 95 del 2025, lo Stato italiano resta sempre libero di discostarsi dall’obbligo pattizio «con le modalità previste dallo stesso diritto internazionale, e in particolare promuovendo un emendamento al trattato, ovvero denunciandolo. Evento che si può verificare anche grazie all’intervento del Parlamento, nell’esercizio della sua essenziale funzione di indirizzo e controllo» (punto 5.3.4. del Considerato in diritto);
– che, infine, l’argomento speso dalla difesa di A.V. T., secondo cui la norma internazionale qui evocata quale parametro interposto sarebbe troppo generica per poter fondare un preciso obbligo a carico del legislatore penale nazionale attiene, a ben guardare, al merito della questione anziché alla sua ammissibilità, concernendo in realtà l’interpretazione della norma medesima e la puntuale enucleazione degli obblighi che da questa discendono a carico degli Stati parti.
4.3.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce poi l’inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza della questione residua (quella sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.), perché il giudice a quo avrebbe «radicalmente omesso di accertare la definibilità del giudizio ai sensi dell’art. 129 c.p.p.», verificando se non sia possibile assolvere gli imputati con formule diverse e più favorevoli rispetto a quella secondo cui il fatto non è più previsto come reato.
L’eccezione non è fondata.
Questa Corte ha già avuto modo di escludere che il giudice penale che sollevi una questione di legittimità costituzionale «sia tenuto a motivare espressamente sull’assenza di cause di non punibilità o non procedibilità rilevabili ai sensi dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen.», in quanto «[i]l suo (legittimo) silenzio in proposito non può che essere inteso […] come indicativo del mancato riconoscimento, allo stato, di simili condizioni negative della responsabilità penale dell’imputato» (sentenza n. 27 del 2025, punto 3.2 del Considerato in diritto).
In ogni caso, in un ordinamento fondato sul principio di legalità in materia penale, già il venir meno dell’astratta conformità tra la descrizione del fatto contenuta nel capo di imputazione e una figura legale di reato determina in capo al giudice l’obbligo di prosciogliere immediatamente l’imputato, senza che egli debba – né, a ben guardare, possa – procedere a una valutazione degli elementi di prova raccolti a suo carico, anche solo al fine di pronunciare una sentenza di proscioglimento perché il fatto materiale non sussiste o l’imputato non lo ha commesso. Il “fatto” nel processo penale è unicamente quello che secondo l’accusa corrisponde a una precisa fattispecie astratta stabilita dalla legge, e che l’accusa ha l’onere di descrivere nel capo di imputazione in modo esattamente conforme a quella fattispecie. Pertanto, laddove la descrizione della condotta contenuta nel capo di imputazione non sia più congruente rispetto alla fattispecie normativa (né ad altra ancora vigente nella quale il fatto concreto possa essere sussunto), nessun ulteriore accertamento è richiesto né consentito al giudice: il cui compito non è stabilire la verità o falsità di addebiti estranei al modello legale, bensì – unicamente – verificare la fondatezza di un’ipotesi di accusa che corrisponda esattamente a una figura legale di reato.
4.4.– Ancora l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce il difetto di rilevanza della questione perché il giudice a quo avrebbe omesso di motivare sulle ragioni per le quali i fatti contestati, in seguito alla modifica dell’imputazione compiuta dal pubblico ministero nel corso della stessa udienza preliminare, non sarebbero più sussumibili anche nella fattispecie dell’art. 346-bis cod. pen. così come modificata nel 2024.
L’eccezione è infondata.
Il giudice a quo ha chiaramente illustrato che i fatti contestati non possono più essere sussunti nella fattispecie ridisegnata dalla legge n. 114 del 2024, perché la condotta cui sarebbe stata finalizzata la mediazione illecita – l’abuso di ufficio originariamente contestato allo stesso Commissario straordinario – non costituisce più reato, a seguito della abrogazione dell’art. 323 cod. pen. disposta con la stessa legge n. 114 del 2024. Poiché la nuova fattispecie di traffico di influenze illecite richiede, invece, che oggetto della pattuizione sia l’induzione del pubblico agente a commettere un reato, la modifica normativa ha privato di rilevanza penale la condotta contestata agli odierni imputati.
4.5.– L’irrilevanza della questione è altresì eccepita con un argomento diverso da varie parti costituite in giudizio, e in particolare dalla difesa di A.V. T. Esse sottolineano come il pubblico ministero abbia già contestato i fatti in maniera corrispondente alla nuova fattispecie; sicché la modifica normativa intervenuta non avrebbe spiegato alcun effetto rispetto alla contestazione. La corresponsione di somme al defunto coimputato M. B. sarebbe infatti avvenuta affinché quest’ultimo, secondo la descrizione operata dallo stesso pubblico ministero, inducesse il Commissario straordinario a «compiere atti contrari ai doveri di ufficio costituenti reato di abuso di ufficio meglio specificato al capo f della rubrica». Indicazione, quest’ultima, che sarebbe perfettamente sovrapponibile alla descrizione normativa astratta contenuta nel nuovo testo dell’art. 346-bis cod. pen.
Ancorché indubbiamente suggestiva, nemmeno questa eccezione può essere accolta.
L’inciso appena citato intende semplicemente individuare, in punto di fatto, l’oggetto dell’illecita pattuizione, rappresentata dalla condotta del Commissario straordinario che il mediatore si sarebbe impegnato a ottenere: condotta, quest’ultima, meglio descritta in un successivo e separato capo di imputazione elevato contro lo stesso Commissario, e che all’epoca dei fatti costitutiva – secondo la prospettazione accusatoria – il delitto di abuso di ufficio.
Tuttavia, l’abolizione del delitto di abuso di ufficio ad opera della legge n. 114 del 2024 non avrebbe di per sé determinato il venir meno della rilevanza penale della condotta di traffico di influenze illecite contestata agli attuali imputati, se ad essa non si fosse affiancata anche la modifica in senso restrittivo della fattispecie di cui all’art. 346-bis cod. pen. Infatti, come in precedenza rammentato (supra, 2.3.), il testo dell’art. 346-bis cod. pen. in vigore al momento dei fatti richiedeva semplicemente che la pattuizione avesse a oggetto una «mediazione illecita» verso il pubblico agente, ovvero la sua remunerazione «in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri»: formulazioni che sarebbero state certamente compatibili anche con una pattuizione avente a oggetto l’induzione del pubblico ufficiale a compiere una condotta in ipotesi contraria ai suoi doveri d’ufficio, ancorché non più costitutiva di reato.
È soltanto per effetto della contestuale modifica dell’art. 346-bis cod. pen. che la pattuizione descritta nel capo di imputazione elevato nei confronti degli odierni imputati ha perso, già in astratto, rilievo penale, richiedendosi ora che l’accordo abbia a oggetto l’induzione del pubblico ufficiale a commettere non già un generico atto contrario ai doveri di ufficio, ma una condotta costituente reato.
Ne è riprova la considerazione che, ove l’odierna questione fosse accolta, il fatto contestato agli imputati riacquisterebbe – quanto meno in astratto – rilievo penale, nonostante l’intervenuta abolizione del delitto di abuso di ufficio, già ritenuta costituzionalmente non illegittima da questa Corte con la più volte menzionata sentenza n. 95 del 2025. Il che conferma la rilevanza della questione ora in esame per la definizione del giudizio a quo.
Né convince l’ulteriore argomento, sviluppato ancora dalla difesa di A.V. T., secondo cui la giurisprudenza della Corte di cassazione avrebbe in effetti anticipato la modifica legislativa del 2024, richiedendo che il pactum avesse a oggetto l’induzione del pubblico ufficiale a commettere un reato (Cass., n. 1182 del 2022 e n. 40518 del 2021). A prescindere infatti dal rilievo che tale orientamento non poteva ancora ritenersi espressione di diritto vivente (il requisito in parola non è ad esempio menzionato nelle sentenze della sezione sesta penale della Corte di cassazione 25 giugno-23 settembre 2021, n. 35280, concernente i medesimi fatti oggetto del giudizio a quo, e 22 ottobre 2019-12 giugno 2020, n. 18125), è evidente che l’indirizzo giurisprudenziale in questione si innestava in un contesto sistematico affatto diverso, caratterizzato dalla presenza di un’incriminazione ad hoc dell’abuso di ufficio: ciò che assicurava, in ogni caso, l’astratto rilievo penale di condotte come quelle contestate agli odierni imputati. Il rilievo penale di siffatte condotte è oggi, invece, venuto meno, proprio per effetto della modifica normativa oggetto dell’odierna questione di legittimità costituzionale, della quale viene così a confermarsi – una volta ancora – la rilevanza per la definizione del giudizio a quo.
4.6.– Quanto infine all’eccezione, formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, di irrilevanza della questione rispetto ai due profili di novità della nuova formulazione dell’art. 346-bis cod. pen. rappresentati dalla sostituzione del sintagma «sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite» con «utilizzando intenzionalmente allo scopo relazioni esistenti», e dalla sostituzione del sintagma «denaro o altra utilità» con «denaro o altra utilità economica», il suo esame risulta assorbito dalla riperimetrazione del thema decidendum già in precedenza effettuato (supra, 3).
5.– Nel merito, la questione residua – così definita quanto all’oggetto (supra, 3) e al parametro, che è unicamente l’art. 117, primo comma, Cost. (supra, 4.1.) – non è fondata.
Dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo discende un obbligo, a carico degli Stati contraenti, di criminalizzare le condotte di traffico di influenze (infra, 5.1.).
Tale obbligo vincola, nella sua integralità, anche l’Italia, che nel 2019 non ha rinnovato le riserve apposte all’atto della ratifica della Convenzione (infra, 5.2.).
Frequentemente accade che gli strumenti internazionali pattizi che impongono obblighi di criminalizzazione utilizzino, nella descrizione della fattispecie, formule volutamente elastiche e generiche. Ciò non fa venir meno la vincolatività dell’obbligo, ma apre uno spazio di discrezionalità per il legislatore nazionale, sul quale incombe l’obbligo costituzionale di formulare con precisione l’ambito applicativo della norma incriminatrice che attua l’obbligo internazionale (infra, 5.3.).
La descrizione della fattispecie di traffico di influenze contenuta nell’art. 12 della Convenzione lascia significativi margini di discrezionalità ai legislatori nazionali quanto alla definizione del concetto di «improper influence over the decision-making» del pubblico agente, che il mediatore si impegna a esercitare in cambio del pagamento o della promessa di un compenso (infra, 5.4.).
Il legislatore italiano del 2024 ha utilizzato tale discrezionalità tracciando i confini della fattispecie di traffico di influenze in senso indubbiamente restrittivo, ma a giudizio di questa Corte non incompatibile con l’obbligo discendente dall’art. 12 della Convenzione (infra, 5.5.).
5.1.– Contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura dello Stato e dalle parti, dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo discende l’obbligo, a carico dello Stato contraente, di prevedere come reati nell’ordinamento nazionale («establish as criminal offences under its domestic law») le condotte ivi descritte, denominate sinteticamente nella rubrica come «Trading in influence».
Che si tratti di un vero e proprio obbligo di criminalizzazione risulta evidente dalla formula utilizzata – «shall adopt» –, che marca una essenziale differenza rispetto al linguaggio utilizzato dall’art. 18 della Convenzione di Mérida delle Nazioni Unite, ove invece si utilizza, rispetto alla fattispecie di traffico di influenze, la più blanda espressione «shall consider adopting» (sul cui significato, in relazione alla fattispecie di abuso di ufficio, sentenza n. 95 del 2025, punto 7.3.1. del Considerato in diritto).
Confermano tale conclusione, ad abundantiam: la collocazione della norma nel capitolo dedicato alle «Measures to be taken at national level» (ossia alle misure che debbono essere adottate a livello nazionale); la concomitante imposizione di un obbligo di adottare sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, comprese, quando i reati sono commessi da persone fisiche, quelle privative della libertà che possano dar luogo all’estradizione (art. 19, paragrafo 1); l’altrettanto vincolante previsione di introdurre misure che consentano la confisca o l’apprensione in altro modo degli strumenti e del prodotto dei reati, diretta e per equivalente (art. 19, paragrafo 3).
L’esistenza di un tale obbligo non è affatto “depotenziata”, come sostiene in particolare la difesa di A.V. T., dalla previsione, nel successivo art. 37, della possibilità per lo Stato di apporre riserve, aventi a oggetto tra l’altro l’art. 12; né dalla circostanza che l’ordinamento penale di vari Stati contraenti non preveda il reato di traffico di influenze. L’art. 37 prova, semmai, il contrario: ossia che lo Stato contraente, una volta che abbia ratificato la Convenzione, deve considerarsi vincolato all’obbligo discendente dall’art. 12, a meno che abbia formulato specifiche riserve rispetto a tale obbligo.
Né depone nel senso dell’insussistenza dell’obbligo la circostanza che la proposta della Commissione europea di direttiva in materia di corruzione (UE COM-2023-234 final) preveda espressamente un obbligo di criminalizzazione del traffico di influenze: ciò che – secondo l’Avvocatura dello Stato e la difesa di A.V. T. – sarebbe indicativo della consapevolezza della insussistenza di un obbligo siffatto nel diritto internazionale, risultando altrimenti inutile la sua riproduzione in uno strumento unionale.
L’argomento non coglie nel segno. Da un lato, infatti, è del tutto usuale che il diritto dell’Unione sostanzialmente riproduca, anche in materia penale, obblighi già previsti a carico degli Stati membri dal diritto internazionale pattizio allo scopo di conferire a tali obblighi la speciale vincolatività loro assicurata dalla fonte unionale – ciò che comporta, tra l’altro, l’esposizione dello Stato membro inadempiente al procedimento per infrazione ai sensi degli artt. 258 e 260 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Dall’altro, proprio la circostanza che una parte degli Stati parte della Convenzione di Strasburgo (come la Germania o i Paesi Bassi), giovandosi delle riserve a suo tempo apposte, tuttora non abbiano previsto l’incriminazione in parola nei rispettivi ordinamenti nazionali, conferma l’utilità pratica, dal punto di vista della Commissione europea, di prevedere un obbligo unionale che vincoli anche questi Stati a provvedere in tal senso.
5.2.– Come già rammentato (supra, 2.1.), all’atto della ratifica della Convenzione, l’Italia ha formulato, ai sensi dell’art. 37, due riserve all’art. 12, con lo scopo di circoscrivere l’obbligo di configurare il delitto di traffico di influenze in termini corrispondenti a quelli risultanti dalla versione originaria dell’art. 346-bis cod. pen., introdotta dalla legge n. 190 del 2012, e in particolare per essere autorizzata a limitare l’incriminazione al contesto di una relazione esistente tra il mediatore e il pubblico agente, nonché ad un accordo che avesse a oggetto la remunerazione dello stesso pubblico agente per una condotta di quest’ultimo contraria ai doveri d’ufficio.
Tuttavia, come già a suo tempo evidenziato (supra, 2.3.), alla loro scadenza tali riserve non sono state reiterate dal Governo, conformemente a quanto previsto dall’art. 1, comma 10, della legge n. 3 del 2019. Conseguentemente, l’obbligo posto dall’art. 12 della Convenzione vige ormai nella sua integralità nei confronti dell’Italia.
5.3.– Il nodo che questa Corte deve, piuttosto, sciogliere concerne non già l’esistenza dell’obbligo posto dall’art. 12, ma la sua concreta estensione: sì da stabilire se il legislatore del 2024, restringendo nel senso precedentemente descritto la portata dell’incriminazione del traffico di influenze illecite, abbia o meno violato l’obbligo medesimo.
Prima di affrontare tale quesito, occorre però chiarire un punto preliminare, in risposta agli argomenti dell’interveniente e delle parti, che hanno variamente insistito sulla vaghezza e imprecisione dell’art. 12 della Convenzione, ponendo in dubbio la compatibilità con la Costituzione di tale obbligo, in riferimento al principio di tassatività o sufficiente precisione in materia penale, corollario a sua volta del principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.
Nemmeno tali argomenti colgono nel segno.
Il principio di legalità in materia penale obbliga certamente il legislatore nazionale a prevedere in termini precisi i contorni di ogni incriminazione, sì da fornire un chiaro avvertimento ai consociati circa l’estensione del precetto penalmente sanzionato, e da impedire che l’individuazione del confine tra lecito e illecito sia rimessa alla libera interpretazione del giudice, in violazione dello stesso principio della separazione dei poteri; garantendo così, al tempo stesso, l’uniformità dell’applicazione della norma penale, in conformità al principio dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge (su tale principio, sentenze n. 110 del 2023, punto 4.3.2.1 del Considerato in diritto; n. 98 del 2021, punto 2.4. del Considerato in diritto; n. 134 del 2019, punto 3.2. del Considerato in diritto e, più recentemente, sentenza n. 54 del 2024, punto 4 del Considerato in diritto).
Ma tale principio vincola, appunto, il legislatore italiano nel momento in cui introduce nell’ordinamento domestico una legge penale; non già gli Stati (compreso quello italiano) nella fase di negoziazione e ratifica di uno strumento internazionale che ponga obblighi di incriminazione. Simili obblighi sono, anzi, fisiologicamente connotati dall’uso di formule elastiche e relativamente generiche, che assicurano agli Stati contraenti la discrezionalità indispensabile per adattare l’obbligo di raggiungere le finalità indicate dallo strumento internazionale in maniera congeniale alle peculiarità di ciascun ordinamento nazionale: e in particolare alle sue specifiche categorie normative (strettamente connesse alla tradizione normativa nazionale), al complessivo sistema in cui l’incriminazione andrà a inserirsi, nonché ai vincoli domestici di natura costituzionale, che possono anch’essi differire da uno Stato contraente all’altro.
È ben possibile, dunque, che lo strumento internazionale che stabilisca un obbligo di criminalizzazione utilizzi formulazioni ampie che, se trasposte meccanicamente nella legislazione penale del singolo Stato, darebbero luogo a una violazione del principio di legalità in materia penale. Spetterà in tal caso al legislatore nazionale configurare la legge incriminatrice nell’ordinamento interno in maniera tale da assicurarne la conformità agli scopi perseguiti dal trattato, così come interpretati alla luce del generale criterio di buona fede di cui all’art. 31, paragrafo 1, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, assicurando al contempo che i contorni dell’incriminazione siano tracciati in forma precisa, in ossequio al vincolo costituzionale discendente, nel nostro Paese, dall’art. 25, secondo comma, Cost.
5.4.– Ciò premesso, occorre riconoscere che l’obbligo, stabilito dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo, di incriminare la condotta di chi promette, dà od offre indebiti vantaggi a chi asserisca o confermi di essere in grado di esercitare «an improper influence over the decision-making» di un pubblico agente – e correlativamente la condotta di chi riceve i vantaggi affermando di essere in grado di esercitare tale impropria influenza – presenta un notevole tasso di elasticità, che rende necessaria un’opera di concretizzazione e precisazione da parte del legislatore nazionale.
La disposizione non precisa, in effetti, che cosa debba intendersi per «improper influence»; e anzi il corrispondente testo francese della Convenzione, parimenti ufficiale, è sul punto ancor più generico, richiedendo che oggetto della pattuizione sia l’impegno a «exercer une influence» sulla decisione del pubblico agente, senza ulteriori qualificazioni.
L’Explanatory Report della Convenzione – rilevante quale mezzo complementare di interpretazione ai fini della ricostruzione del significato del trattato ai sensi dell’art. 32 della citata Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati – illustra lo scopo dell’incriminazione, la cui introduzione è richiesta agli Stati contraenti. Essa mira a tutelare la trasparenza e l’imparzialità nel processo decisionale delle pubbliche amministrazioni, colpendo il «corrupt behaviour» delle persone che sono nelle vicinanze del potere e cercano di ottenere vantaggi da questa posizione, ciò che contribuisce a creare quella che lo stesso Report definisce una «atmosfera di corruzione», o «sottofondo di corruzione», che mina la fiducia posta dai cittadini nella imparzialità e correttezza della pubblica amministrazione.
Il successivo paragrafo 65 individua l’essenza del reato nell’impegno, che il mediatore («peddler») assume nei confronti di chi gli corrisponda o prometta un indebito vantaggio, di esercitare una «improper influence» sul processo decisionale del pubblico agente stesso, precisando in proposito che una «“[i]mproper influence” must contain a corrupt intent by the influence peddler: acknowledged forms of lobbying do not fall under this notion».
A quest’ultimo riguardo occorre precisare, in primo luogo, che il concetto di «corrupt intent» richiama, evidentemente, la nozione di «corruption»: termine che, in inglese, ha un’area semantica più ampia rispetto all’italiano “corruzione” (indicato come «bribery» nel linguaggio convenzionale), comprendendo la generalità dei reati commessi contro la pubblica amministrazione, che ne turbano il corretto e imparziale funzionamento. Ciò trova conferma, del resto, nella circostanza che la stessa Convenzione di Strasburgo, così come la parallela Convenzione di Mérida adottata nell’ambito delle Nazioni Unite, si autoqualificano come dirette a combattere la corruzione, prevedendo però al loro interno obblighi di incriminazione relativi a una pluralità di condotte che nel nostro ordinamento sono riconducibili a diversi titoli di reato. I paragrafi 2 e 3 dell’Explanatory Report confermano, del resto, che non è individuabile, a livello internazionale, una nozione universalmente condivisa di “corruzione”.
In secondo luogo, al passo citato del paragrafo 65, si afferma che le forme “riconosciute” («acknowledged») di lobbying non ricadono nella nozione di «improper influence». Non vengono però in alcun modo precisati i confini di liceità del lobbying, esso pure caratterizzato da un accordo con cui una parte si impegna a influire, nell’interesse dell’altra, sulle determinazioni di pubblici agenti.
5.5.– A fronte di un dato convenzionale così vago, in cui l’unica indicazione ragionevolmente certa è quella relativa alla necessità di tenere fuori i fenomeni di (legittimo) lobbying dall’area dell’incriminazione, spetta dunque al legislatore nazionale precisare i confini delle condotte punibili, tenendo conto del principio di sufficiente precisione della legge penale, direttamente riconducibile all’art. 25, secondo comma, Cost.
Ora, il legislatore ha adottato, tra il 2012 e il 2024, tre diverse tecniche di trasposizione del requisito convenzionale della «improper influence».
5.5.1.– Con la legge n. 190 del 2012, il legislatore ha richiesto, alternativamente, a) una «mediazione illecita» verso il pubblico agente, ovvero b) che l’accordo tra soggetto privato e mediatore avesse a oggetto la “remunerazione” del pubblico agente, «in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio»: inciso, quest’ultimo, che la giurisprudenza, come si è poc’anzi rammentato, ha riferito anche all’ipotesi della «mediazione illecita», per l’ovvia necessità di assegnare un contenuto più preciso al concetto di “illiceità” della mediazione stessa (supra, 2.3.).
In tal modo, la versione del 2012 copriva sia i casi in cui l’accordo avesse a oggetto una successiva corruzione del pubblico agente per atto contrario ai doveri del proprio ufficio ai sensi dell’art. 319 cod. pen.; sia quelli in cui il mediatore promettesse comunque di attivarsi presso il pubblico agente – evidentemente usando mezzi diversi da un illecito pagamento o promessa di denaro o altra utilità – per ottenere una condotta non solo favorevole al privato, ma anche contraria ai doveri d’ufficio dello stesso pubblico agente.
5.5.2.– Con la legge n. 3 del 2019, è stata anzitutto confermata l’ipotesi a), relativa alla «mediazione illecita», mentre l’ipotesi b), relativa alla «remunerazione» del pubblico agente, ha visto ampliato il proprio raggio applicativo, richiedendosi semplicemente che l’illecito pagamento avvenisse «in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri», e non già in vista di una condotta contraria a tali doveri; con conseguente attrazione di ogni ipotesi di corruzione – compresa quella prevista dall’art. 318 cod. pen. – tra i possibili oggetti dell’accordo costitutivo del traffico di influenze illecite (supra, 2.3.).
Di riflesso, tuttavia, è venuto meno l’argomento testuale che aveva consentito alla giurisprudenza di ancorare l’ipotesi di cui alla lettera a) (mediazione illecita) all’impegno a ottenere dal pubblico agente, con mezzi diversi dalla corruzione, una condotta contraria ai suoi doveri d’ufficio, ora non più richiesta nemmeno per la fattispecie b) (remunerazione). Il che ha finito per accentuare la vaghezza del concetto di «mediazione illecita», non precisato in alcun modo dal legislatore, e collegato ora semplicemente alla finalizzazione della mediazione stessa a qualsiasi condotta comunque connessa all’esercizio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale – sì da potere comprendere, in astratto, qualsiasi forma di lobbying.
Conseguentemente, la giurisprudenza ha dovuto incaricarsi di individuare criteri praticabili per distinguere le forme di mediazione illecite da quelle lecite: criteri che sono stati identificati ora nella perdurante esigenza – nonostante il mutato dato testuale della disposizione – della contrarietà ai doveri d’ufficio della condotta del pubblico agente che il mediatore si impegnava ad ottenere (Cass., n. 35280 del 2021 e n. 18125 del 2020), ora nell’ancora più esigente requisito che tale condotta fosse altresì costitutiva di reato (Cass., n. 1182 del 2022 e n. 40518 del 2021), beninteso in un quadro sistematico caratterizzato dalla compresenza dell’incriminazione dell’abuso d’ufficio.
5.5.3.– Infine, con la legge n. 114 del 2024, si è confermato che l’accordo può alternativamente avere a oggetto, in successione invertita rispetto alle precedenti versioni della disposizione: a) la remunerazione del pubblico agente «in relazione all’esercizio delle sue funzioni» – in termini, dunque, compatibili anche con l’ipotesi di corruzione di cui all’art. 318 cod. pen. –; ovvero b) un’«altra mediazione illecita». È però lo stesso legislatore che, questa volta, si è incaricato di definire, nel nuovo secondo comma dell’art. 346-bis cod. pen., che cosa si debba intendere per mediazione illecita, chiarendo che tale sia una mediazione mirante a ottenere dal pubblico agente una condotta non solo contraria ai doveri d’ufficio (come già era sotto il vigore della legge n. 190 del 2012, sulla base della interpretazione adottata dalla giurisprudenza), ma anche «costituente reato», che produca un indebito vantaggio a chi abbia dato o promesso al mediatore denaro o altra utilità economica (supra, 2.4.): soluzione, quest’ultima, soltanto apparentemente conforme a quella nel frattempo adottata da una parte della giurisprudenza sotto il vigore della legge n. 3 del 2019, per l’ovvia e già sottolineata ragione che, a seguito della stessa legge n. 114 del 2024, il mero abuso d’ufficio non costituisce più reato.
5.5.4.– Dalla combinazione tra la riscrittura dell’art. 346-bis cod. pen. e l’abrogazione dell’art. 323 cod. pen. deriva, evidentemente, una incisiva riduzione della sfera di applicazione della fattispecie penale di traffico di influenze. A tale reato oggi sfuggono, in particolare, tutti gli accordi onerosi tra privati e mediatori aventi a oggetto l’impegno di questi ultimi a ottenere da pubblici agenti – con mezzi diversi dalla corruzione – condotte non solo favorevoli ai privati, ma anche contrarie ai doveri d’ufficio degli stessi pubblici agenti, laddove non costitutive di altro reato.
Tali accordi – che si risolvono, in buona sostanza, in un patto in forza del quale il privato mira a ottenere favori indebiti da un pubblico agente, attraverso l’intervento di un mediatore remunerato per tale servizio – restano oggi penalmente irrilevanti: e ciò sia nell’ipotesi in cui successivamente il mediatore non si attivi, o comunque non riesca a ottenere dal pubblico agente la condotta antidoverosa cui il privato aspira; sia nell’ipotesi in cui, invece, il mediatore riesca effettivamente a ottenere dal pubblico agente il risultato illegittimo sperato, con mezzi diversi dalla corruzione (ad esempio, facendo leva su pregressi rapporti personali, sul timore determinato dalla propria caratura criminale, o sulla comune militanza politica), provocando così una concreta distorsione dell’attività amministrativa a vantaggio del privato.
Parimenti, resta oggi priva di sanzione penale anche l’ipotesi in cui il mediatore sia egli stesso un pubblico agente, allorché il suo intervento presso altro pubblico agente, finalizzato a ottenere – con mezzi diversi dalla corruzione – un provvedimento favorevole al privato, non sia di per sé connesso all’esercizio della propria funzione o dei propri poteri.
5.5.5.– Cionondimeno, questa Corte non ritiene che una simile riscrittura della disposizione, pur se significativamente limitativa della tutela penale del buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, risulti di per sé incompatibile con l’obbligo stabilito dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo.
Per un verso, infatti, la norma convenzionale lascia – come più sopra sottolineato – ampio margine al legislatore nazionale per precisare e definire in che consista quell’«improper influence» che il mediatore si impegna a esercitare nei confronti del pubblico agente.
Per altro verso, la scelta del legislatore del 2024 di definire direttamente il concetto di «mediazione illecita», in precedenza oggetto di oscillanti letture giurisprudenziali determinate dalla sua indubbia vaghezza semantica, appare essa stessa coerente con il principio costituzionale di sufficiente precisione della legge penale, che vincola il legislatore italiano nella fase di trasposizione degli obblighi di criminalizzazione assunti in sede internazionale. E ciò anche a fronte della persistente mancanza di una disciplina del lobbying, e dunque in assenza di una linea di demarcazione legislativa tra illegittime e legittime forme di intermediazione con i pubblici ufficiali, finalizzate a rappresentare e sostenere interessi di singoli individui e imprese, ovvero interessi diffusi e collettivi, nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dello stesso legislatore.
La scelta, poi, di non ancorare la definizione legislativa di mediazione illecita alla mera contrarietà della condotta ai doveri d’ufficio, ma di richiedere che la condotta auspicata del pubblico agente oggetto dell’accordo sia altresì costitutiva di reato, è coerente con la scelta parallela di abolire il delitto di abuso d’ufficio: scelta, quest’ultima, che non si pone in contrasto con la Convenzione di Strasburgo, la quale non obbliga il legislatore a introdurre o mantenere questa figura di reato, né con la parallela Convenzione di Mérida, secondo quanto già affermato da questa Corte (sentenza n. 95 del 2025). Entrambi gli interventi della legge n. 114 del 2024 si pongono, in effetti, in linea di continuità con le risalenti preoccupazioni del legislatore che anche quella nozione lasciasse ai giudici, e prima ancora ai pubblici ministeri, un eccessivo margine di discrezionalità nell’individuazione delle condotte punibili, con conseguente pregiudizio per la prevedibilità dell’applicazione della legge penale (sentenza n. 8 del 2022, punto 2.3. del Considerato in diritto).
In questo quadro, la pur restrittiva definizione di «mediazione illecita» che ne è scaturita appare ancora collocarsi, a giudizio di questa Corte, all’interno dello spazio di discrezionalità che la stessa Convenzione di Strasburgo lascia aperto al legislatore nazionale, chiamato a concretizzare le clausole generali contenute nello strumento internazionale in armonia con i principi del proprio ordinamento, tra cui quello – di rango costituzionale – di precisione della legge penale.
Di riflesso, deve escludersi che la scelta del legislatore qui censurata si ponga in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.
6.– Questa Corte ritiene, peraltro, opportuno invitare il legislatore a introdurre una organica disciplina delle attività di lobbying, da tempo e da più parti auspicata. Tale disciplina appare necessaria, al fine di definire con chiarezza le condotte di illecita influenza sui pubblici ufficiali e di prevedere sanzioni per l’inosservanza delle relative prescrizioni; garantendo così trasparenza alle prassi di interlocuzione con le istituzioni, onde assicurare ai consociati la possibilità di un più accurato controllo sull’operato della pubblica amministrazione e dei propri rappresentanti eletti.
Ciò potrebbe eventualmente consentire al legislatore di rimeditare le attuali scelte in materia di disciplina penale del traffico di influenze illecite, sì da assicurare una più incisiva tutela degli stessi interessi collettivi – essi pure di rango costituzionale – all’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione contro condotte di indubbia gravità, che restano oggi del tutto sprovviste di sanzione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera e), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare), che ha sostituito l’art. 346-bis del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 11 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera e), della legge n. 114 del 2024, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 12 della Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, ratificata e resa esecutiva con la legge 28 giugno 2012, n. 110, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2025.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 16 dicembre 2025
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA