Congedo anticipato nella PA tra libertà religiosa e carenza di interesse

Articolo di Riccardo Renzi del 19/12/2025

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Il T.A.R. Lazio – Latina, Sez. I, con la sentenza n. 838 del 14 ottobre 2025, ha dichiarato l’improcedibilità di un ricorso proposto contro il diniego ministeriale al congedo anticipato richiesto da un dipendente pubblico per ragioni personali e religiose.

Pur senza entrare nel merito, la vicenda offre lo spunto per una riflessione sul bilanciamento tra esigenze organizzative della pubblica amministrazione e tutela dei diritti fondamentali del lavoratore pubblico, in particolare la libertà religiosa e il diritto al rispetto della vita privata. Viene inoltre in rilievo il tema della sopravvenuta carenza di interesse nel processo amministrativo e la tutela dei dati personali nei giudizi che coinvolgono diritti sensibili.

La pronuncia si colloca nella giurisprudenza relativa alla gestione delle situazioni giuridiche dei dipendenti pubblici, con specifico riferimento alle richieste di congedi anticipati motivati da esigenze personali e, nel caso di specie, anche religiose. L’esito meramente processuale del giudizio, conclusosi con una declaratoria di improcedibilità, non consente una risposta sul piano sostanziale, ma lascia aperte alcune questioni di fondo.

La vicenda trae origine dalla domanda di congedo anticipato presentata da un dipendente della pubblica amministrazione. Il diniego opposto dall’amministrazione ha condotto alla proposizione del ricorso, successivamente abbandonato mediante dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse. In applicazione dell’art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a., il Collegio ha dichiarato l’improcedibilità dell’azione, compensando le spese di giudizio.

Al di là dell’esito decisorio, il caso richiama l’attenzione sul rapporto tra poteri discrezionali dell’amministrazione datrice di lavoro e posizioni soggettive del dipendente pubblico, soprattutto quando fondate su diritti fondamentali quali la libertà di coscienza e di religione (art. 19 Cost., art. 9 CEDU). La giurisprudenza ha più volte evidenziato la necessità di un esercizio proporzionato e ragionevole del potere amministrativo, tale da non comprimere irragionevolmente tali diritti.

Un diniego di congedo fondato esclusivamente su esigenze organizzative, se non adeguatamente bilanciato con le istanze personali e religiose del dipendente, potrebbe entrare in tensione con i principi di buon andamento e imparzialità (art. 97 Cost.), nonché con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), ove produca trattamenti differenziati non giustificati.

Sul piano processuale, la decisione consente di richiamare la nozione di sopravvenuta carenza di interesse, che comporta il venir meno di una condizione dell’azione e rende superflua la prosecuzione del giudizio. La rinuncia all’interesse non equivale ad acquiescenza e non determina necessariamente l’estinzione del diritto sostanziale, che può essere eventualmente fatto valere in altre sedi.

Di rilievo è infine l’applicazione delle norme in materia di protezione dei dati personali. Il Tribunale ha disposto l’oscuramento delle generalità del ricorrente, in applicazione dell’art. 52 del Codice della privacy e dell’art. 9 GDPR, valorizzando l’esigenza di tutela della riservatezza in presenza di informazioni sensibili.

In conclusione, pur in assenza di una decisione nel merito, la sentenza consente di riflettere sulla tensione tra autorità e libertà, tra organizzazione amministrativa e tutela delle libertà personali dei dipendenti pubblici. Una gestione equilibrata di tali situazioni contribuisce a rafforzare il principio di buona amministrazione e l’effettività dei diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento costituzionale e sovranazionale.


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