Diritto all’oblio, sì alla deindicizzazione globale

Articolo di Michele Iaselli del 29/11/2022

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In che cosa consiste il diritto di oblio?

È possibile ordinare al gestore di un motore di ricerca di effettuare una deindicizzazione globale di un contenuto?

Risponde a queste domande la Prima Sezione Civile della Cassazione con la sentenza n. 34658 del 24 novembre 2022.

La analizza per noi il Prof. Michele Iaselli. 

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La pronuncia in esame sancisce un importante principio di diritto in materia di diritto all’oblio. 

In particolare la Suprema Corte precisa che in tema di trattamento dei dati personali, la tutela spettante all'interessato, strettamente connessa ai diritti alla riservatezza e all'identità personale e preordinata a garantirne la dignità personale dell'individuo, ai sensi dell'art. 3 Cost., comma 1 e dell'art. 2 Cost., che si esprime nel cosiddetto "diritto all'oblio", consente, in conformità al diritto dell'Unione Europea, alle autorità italiane, ossia al Garante per la protezione dei dati personali e al giudice, di ordinare al gestore di un motore di ricerca di effettuare una deindicizzazione su tutte le versioni, anche extraEuropee, del suddetto motore, previo bilanciamento tra il diritto della persona interessata alla tutela della sua vita privata e alla protezione dei suoi dati personali e il diritto alla libertà d'informazione, da operarsi secondo gli standard di protezione dell'ordinamento italiano.

La Cassazione giunge a tale conclusione accogliendo un ricorso presentato dal Garante per la protezione dei dati personali nei confronti di  Google LLC, GOOGLE ITALY e dell’interessato contro la decisione del Tribunale di Milano che aveva affermato che la legge italiana non prevedeva alcuna disposizione che permettesse l'applicazione extraterritoriale, e tantomeno globale, della legge sui dati personali e dei provvedimenti del Garante (all’epoca dei fatti era ancora vigente il Codice in materia di protezione dei dati personali pre-GDPR).

Il supremo organo giurisdizionale precisa innanzitutto che non è necessaria la sottoposizione di questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di Giustizia, poiché è escluso l'obbligo del rinvio pregiudiziale, a norma dell'art. 267 del TFUE, nei casi in cui la normativa comunitaria abbia già costituito oggetto di interpretazione da parte dei giudici comunitari e in quelli in cui non vi sia alcun ragionevole dubbio circa il significato della disposizione da applicare (la cosiddetta teoria dell'acte clair).

Inoltre la Cassazione chiarisce che non rilevano, nel caso di specie, i principi di "cortesia internazionale" (international comity), peraltro non codificati, secondo le stesse parti controricorrenti, che precluderebbero l'ammissibilità di ordini di deindicizzazione extraterritoriale, poiché la Corte di Giustizia non esclude affatto tali ordini pur nell'ambito della protezione dei dati personali, rimettendo la soluzione alla discrezionalità degli Stati membri e addirittura li impone a protezione dei diritti dell'onore e della reputazione ("caso Glawischnig"), e ciò a riprova dell'assenza di un ostacolo strutturale alla loro emanazione.

Secondo la Cassazione, quindi, la tesi della inammissibilità degli ordini di rimozione/deindicizzazione globale (ossia destinati a produrre effetti anche sui motori di ricerca extra UE) per ragioni di diritto internazionale consuetudinario, sostenuta dalle società controricorrenti, è in contrasto con il diritto della Unione Europea, così come interpretato dalla Corte di Giustizia. Indubbiamente, come conseguenza di tale principio, si potrebbero delineare conflitti con gli ordinamenti di altri Stati e le decisioni delle loro giurisdizioni potenzialmente contrastanti con quelle dell'Unione Europea e italiane, come del resto può accadere in ogni altro caso di conflitti fra le regolazioni provenienti da distinti ordinamenti giuridici, non mediati da convenzioni internazionali, ma a parere dell’organo giudicante si tratta di un’obiezione e di controindicazione di mero fatto che non incide sull'ammissibilità astratta dell'ordine, ma semmai sulla sua effettiva possibilità di esecuzione e sul riconoscimento della decisione italiana in altri ordinamenti.

Secondo la Corte, quindi, non vi è dubbio che il diritto alla protezione dei propri dati personali e il suo fondamento costituzionale non tollerino limitazioni territoriali all'esplicazione della sfera di protezione, tanto più che nella specie tale diritto si sovrappone e si accompagna ai diritti all'identità, alla riservatezza e alla contestualizzazione delle informazioni.

La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione riconosce e tutela tanto la dignità umana (art. 1) quanto i dati di carattere personale (art. 8), per cui è evidente la strettissima connessione fra la tutela dei diritti sui dati personali e i diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione, come del resto più volte affermato dalla giurisprudenza della stessa Corte (Sez. 1, n. 11864 del 25.6.2004; Sez. 1, n. 18981 del 8.8.2013; Sez.1, n. 368 del 13.1.2021).

Le stesse Sezioni Unite hanno sottolineato il collegamento del diritto all'oblio con la tutela della riservatezza allorché hanno recentemente affermato che in tema di rapporti tra diritto alla riservatezza (nella sua particolare connotazione del c.d. diritto all'oblio) e diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, il giudice di merito - ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a tale rievocazione, che è espressione della libertà di stampa e di informazione protetta e garantita dall'art. 21 Cost. - ha il compito di valutare l'interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti. Tale menzione deve ritenersi lecita solo nell'ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l'interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito. In caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell'onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva. (Sez. U, n. 19681 del 22.7.2019).

Certamente occorre un bilanciamento di tale diritto con il diritto alla libertà di informazione, del resto previsto ed anzi preteso dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Tuttavia, per l'ordinamento costituzionale italiano, a fronte delle modalità liquide e pervasive della circolazione dei dati sulla rete di Internet, non è consentita una limitazione della tutela assicurata alla tutela della vita privata e alla protezione dei dati personali mediante deindicizzazione alle sole versioni dei motori di ricerca corrispondenti a tutti gli Stati membri dell'Unione Europea.

Interessante, nel caso di specie, è anche la presa di posizione della Suprema Corte in merito alla rilevanza di un parere pro-veritate di un professore ordinario presentato dalle controricorrenti come allegato alla memoria difensiva. Nello specifico la Corte ha precisato che in tema di giudizio di legittimità dinanzi alla Corte di Cassazione, è inammissibile l'allegazione - alle memorie illustrative ex art. 378 e 380 bis-1 c.p.c. - di un parere giuridico sulle questioni di diritto agitate nella controversia, redatto da uno studioso del diritto diverso dai difensori ritualmente costituiti. In particolare, viene sottolineato che il parere pro veritate deve essere dichiaratamente redatto non nell'interesse del cliente, ma nell'interesse della verità e della legge. Nel caso di specie, invece, il parere, pur esteso in termini apparentemente asettici e senza riferimenti al contenzioso concreto che impegna le parti, non reca la qualificazione pro veritate, e non contiene né formalmente, né sostanzialmente, alcuna dichiarazione che attesti la sua redazione nell'interesse della legge e non in una logica di parte.


Il testo del provvedimento:

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