
Ogni ordinamento giuridico ha bisogno di simboli.
Alcuni rassicurano, altri inquietano. Alcuni promettono equilibrio, altri vendetta.
Nella tradizione cinese esiste una figura che, se applicata ai nostri tribunali, farebbe probabilmente svuotare le aule in pochi minuti.
Si chiama Xiezhi ed è l’antica divinità cinese della giustizia.
Xiezhi viene raffigurato come una creatura mostruosa, a metà tra una capra e un unicorno. Una scultura celebre si trova ancora oggi nella Città Proibita di Pechino, a ricordare che la giustizia, in origine, non era affatto gentile.
Secondo la tradizione, Xiezhi possiede un dono infallibile: sa distinguere immediatamente l’innocente dal colpevole.
Il primo viene risparmiato.
Il secondo, invece, viene morso, travolto, annientato.
Niente contraddittorio.
Niente istruttoria
Niente termini a difesa.
Una giustizia rapida, definitiva, senza appello.
Viene da chiedersi se non sia il sogno segreto di ogni cittadino esasperato da processi eterni, rinvii, prescrizioni e sentenze che arrivano quando ormai non servono più.
Eppure, a ben vedere, qualcosa non torna.
Una giustizia che morde è una giustizia che non spiega.
Non argomenta.
Non dubita.
Decide e colpisce.
Nel nostro immaginario occidentale, la giustizia ha tutt’altro volto.
È una dea bendata, con una bilancia e una spada.
La benda per non vedere chi ha davanti.
La bilancia per pesare.
La spada solo come extrema ratio.
È una giustizia lenta, imperfetta, spesso frustrante.
Ma è anche una giustizia che accetta l’errore, il dubbio, il conflitto delle versioni.
Forse è proprio questo il prezzo della civiltà giuridica.
Tra una creatura mitologica che annienta i colpevoli a morsi e una giustizia che si prende il tempo di ascoltare, discutere e sbagliare, la scelta non è poi così difficile.
Tutto sommato, teniamoci stretta la nostra dea con la bilancia.
Morde meno.
Ma almeno prova a capire.