La prova testimoniale nel processo tributario: evoluzione normativa e giurisprudenziale

Articolo di Maurizio Villani e Lucia Morciano del 19/10/2022

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Tra le novità più importanti della riforma della giustizia tributaria attuata dalla Legge n. 130/2022, si annovera la possibilità per il giudice tributario di ammettere la prova testimoniale, in forma scritta, in presenza di specifici presupposti.

Nello specifico, l’articolo 4, comma 1, lett. c) della L. 130/2022 sostituisce il comma 4 dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992, rubricato “Poteri delle commissioni tributarie”, che disponeva al comma 4, senza mezzi termini, che “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”, così rappresentando una delle criticità più dibattute e controverse del panorama processuale tributario.

Pertanto, a far data dal 16 settembre (giorno di entrata in vigore della Legge n. 130 del 31 agosto 2022) anche nei processi tributari sarà possibile ammettere la prova testimoniale.

Tale novità rappresenta un traguardo importante-seppur con dei limiti- per garantire l’equità del processo tributario, atteso che il divieto previgente rappresentava un vulnus al principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, incompatibile con il principio del giusto processo, così come è stato rammentato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui l’ammissione delle prove testimoniali nell’ambito del processo tributario è da considerarsi doverosa quando la stessa risulti indispensabile per il corretto esercizio del diritto di difesa (decisione n. 73053 del 2006 Jussila contro Finlandia).

Normativa e giurisprudenza ante riforma sul divieto di prova testimoniale

L’art. 7 previgente del Dlgs n. 546/1992, rubricato “Poteri delle Commissioni Tributarie”, al comma 4 prevedeva “Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”.

Tale addentellato normativo escludeva la prova testimoniale dall’ambito delle prove ammesse, sottolineando così il carattere scritto e documentale del processo tributario.

Secondo parte della dottrina, l’esclusione della prova testimoniale si ricollegava alla generale esigenza che i fatti economici, aventi rilevanza tributaria, fossero prevalentemente documentali; ciò si connetteva con il novero di disposizioni normative che, nelle leggi tributarie sostanziali, statuiscono l’esclusività della prova documentale.

Autorevole dottrina aveva messo in dubbio sia l’opportunità di tale esclusione, stabilita in termini generali e assoluti, sia della sua costituzionalità, poiché non sempre la normativa richiede che i fatti con rilevanza tributaria siano documentati per iscritto; per tale ragione, l’esclusione della prova testimoniale si poneva come un impedimento all’esercizio del diritto d’azione (art. 24 cost) degli attori processuali e, pertanto, come un ostacolo per l’accertamento dei fatti da parte del giudice.

Secondo altri autori, il divieto di prova testimoniale ledeva il principio del contraddittorio nella formazione della prova, poiché la testimonianza, assunta dinanzi al giudice, ha una forza probatoria non sostituibile con nessun altro mezzo di prova.

E’ di tutta evidenza che, ai fini del convincimento del giudice, acquista rilievo ogni elemento, anche gestuale o semplicemente visivo, che possa influire sul suo prudente apprezzamento; per tale motivo, il giudicante non può prescindere da una ricostruzione diretta dei fatti con tutti i mezzi possibili.

La testimonianza è uno strumento indispensabile di accertamento della verità, anche in campo tributario, dove sono sempre più numerosi i tributi che hanno un presupposto e una base imponibile per la cui determinazione il ricorso ai soli documenti e alle massime di esperienza risultano del tutto insufficienti.

Oltre alle numerose critiche della dottrina, altrettanto numerose sono state le questioni di legittimità costituzionale sottoposte al vaglio della Corte Costituzionale.

Per la prima volta, la Consulta è intervenuta sulla questione della prova testimoniale, con la sentenza n. 18 del 2000, ritenendo non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 4, del D.Lgs. n. 546/92, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione, nella parte in cui esclude l’ammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario.

La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti e dalla Commissione tributaria provinciale di Torino. Nell’ordinanza, i giudici di Chieti avevano dedotto la violazione tanto degli artt. 3 e 24 della Cost., dal momento che il divieto in oggetto, per un verso, determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra le parti, essendo inibito all’Amministrazione finanziaria, nella fattispecie sottoposta al loro giudizio, di provare una circostanza decisiva ai fini della legittimità del provvedimento impositivo emanato e, per l’altro, di conseguenza, comprometterebbe il suo diritto di difesa, per essere la stessa impossibilitata a dimostrare l’esistenza di una causa ostativa del concordato di massa, quanto dell’art. 53 della Cost., giacché da siffatta inibizione istruttoria discenderebbe l’inevitabile soccombenza dell’Amministrazione e, quindi, la diminuzione del gettito tributario.

Invece, la Commissione piemontese, nell’ordinanza di rimessione, si è limitata ad affermare che il divieto della prova testimoniale sarebbe lesivo del principio di uguaglianza e del diritto di difesa, poiché l’attività difensiva del contribuente è impedita dall’impossibilità giuridica di fornire elementi probatori su circostanze di fatto rilevanti per la decisione della controversi tributaria.

Tanto chiarito, con la sentenza n. 18 del 2000, la Consulta rigetta la questione di legittimità costituzionale perché manifestatamene infondata, ritenendo che non esiste assolutamente un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole processuali tra i diversi tipi di processo.

In particolare, con specifico riferimento alla violazione dell’art. 53 della Cost., il Giudice delle Leggi l’ha esclusa sulla base del fatto che tale norma concerne la disciplina sostanziale dei tributi e non quella del processo. L’art. 53 pone un vincolo al legislatore tributario, imponendogli di collegare quella particolare categoria di prestazioni, che sono le prestazioni d’imposta, a fatti espressivi di capacità contributiva. Pertanto, il limite costituzionale opera all’atto della individuazione delle astratte fattispecie sostanziali impositive e, quindi, detto limite non può in alcun modo venire in considerazione in tema di disciplina del processo tributario, nell’ambito del quale si colloca, per l’appunto, la norma che sancisce il divieto della prova testimoniale in tale ambito.

Tanto chiarito, in linea generale, per la Corte Costituzionale, il divieto della prova testimoniale trova, da un lato e nel caso di specie, una sua non irragionevole giustificazione nella  pregnante specificità del processo tributario rispetto a quello civile ed amministrativo, derivante  sia dalla configurazione dell’organo decidente sia dal rapporto sostanziale oggetto del giudizio e, dall’altro, nella circostanza che il processo tributario è ancora, soprattutto sul piano istruttorio, prevalentemente  scritto e documentale.

Tuttavia, occorre evidenziare che la Corte Costituzionale, con la sentenza de qua, ha sì confermato il divieto della prova testimoniale, ma ne ha ristretto la portata, poiché  ha riconosciuto che il divieto in esame non esclude l’utilizzo nel processo tributario di dichiarazioni scritte dei terzi, a contenuto essenzialmente testimoniale, raccolte eventualmente dall’Amministrazione Finanziaria in fase procedimentale; tali dichiarazioni, però, hanno efficacia probatoria minore rispetto alla prova testimoniale e possono considerarsi come meri argomenti di prova, da soli non idonei a formare il convincimento del giudice in assenza di riscontri oggettivi.

Nello stesso senso la Corte Costituzionale si è espressa con la sentenzan. 395/2007, considerando manifestatamente inammissibile la questione di legittimità sollevata dalla CTP di Milano, non ravvisando alcuna violazione del principio di parità delle parti e dell’articolo 111 Cost.

Ciò posto, occorre evidenziare che l’esclusione dal processo tributario della prova testimoniale ha rappresentato un elemento di dibattito anche in ambito internazionale ed europeo, ove è stato oggetto di rilievi di incompatibilità con i principi convenzionali della CEDU (nello specifico art. 6 CEDU) da parte della Corte Europea dei Diritti dell’uomo: fondamentale, in tal senso, la decisione n.73053 del 23 novembre 2006 sul caso Jussila contro Finlandia.

In particolare, con tale decisione, la Corte ha sancito l'applicabilità del principio del giusto processo anche a quello tributario se, oltre al recupero dell'imposta, il contenzioso verte sull'irrogazione di sanzioni che vanno oltre la finalità di recupero – non quindi per il recupero di sole imposte ed interessi che non avrebbero natura punitiva ma solo di ripristino della situazione corretta.

Secondo la Corte EDU, infatti, "l'assenza di pubblica udienza o il divieto di prova testimoniale nel processo tributario sono compatibili con il principio del giusto processo solo se da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul piano probatorio, non altrimenti rimediabile".

Fondamentale è l’assunto fornito dalla Corte EDU con la sentenza de qua: in conformità con le regole del giusto processo, l’ammissione delle prove testimoniali nell’ambito del processo tributario è doverosa quando si configura come indispensabile per il corretto esercizio del diritto di difesa.

In altri termini, la sentenza Jussilia, seppure non ha dato una risposta definitiva nel senso dell’incompatibilità del divieto di testimonianza con le norme della Convenzione, correttamente interpretata, aveva  offerto numerosi e  nuovi spunti di riflessione per una diversa lettura dell’articolo 7 del D.lgs. 546 da parte  della giurisprudenza nazionale.

Le conclusioni alle quali giunge la CEDU sono diametralmente opposte a quelle della Corte Costituzionale. Secondo la Consulta, come innanzi esposto, il divieto della prova orale, quand’anche fosse l’unico mezzo possibile per contrastare la pretesa tributaria, resta comunque legittimo in vista dell’assoluta specificità del processo tributario; dall’altra parte, la Corte europea, invece, afferma che l’impossibilità di ricorrere alla prova testimoniale è in contrasto con l’equo processoeuropeo, salvo che il pregiudizio sia altrimenti rimediabile (con altra tipologia di prove o per altre ragioni).

In senso conforme alla sentenza Iussila, la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 21233 del 18 maggio 2006 ha applicato il principio  come espresso dalla CEDU, ammettendo la prova testimoniale nel caso di furto della documentazione.

Nella caso de quo, il contribuente, impossibilitato ad esibire, a seguito di furto subito, i documenti contabili di cui è obbligatoria la conservazione “non è esonerato dall’onere di provare la sussistenza dei crediti esposti in dichiarazione, ma è -in forza del dettato dell’articolo 2724 n.3 c.p.c.- autorizzato alla deduzione di prova testimoniale”.

Nello stesso senso si sono pronunciati i Supremi Giudici anche con ordinanza n.587 del 15 gennaio 2009 per un caso di impossibilità derivante da distruzione della documentazione a seguito di incendio, e con sentenza 5182 del 4  marzo 2011.

In  particolare in quest’ultima sentenza (Cass.n.5182 del 4 marzo 2011) la Suprema Corte , vertendo in tema di accertamento della sussistenza di un credito IVA, ha ribadito l’onere per il contribuente - che voglia attestare una circostanza a lui favorevole - di darne dimostrazione,  e la possibilità in caso di perdita incolpevole della documentazione scritta di derogare ai limiti imposti dall’articolo 7 del D.Lgs. 546.

Il principio, sempre in tema di IVA, è stato ribadito più di recente dalla sentenza 23331 del 16 novembre 2016 e dalle ordinanze 9611 del 13 aprile 2017 e 1323 del 19 gennaio 2018.

Giova evidenziare che le decisioni succitate attenevano  alla
perdita incolpevole della documentazione contabile per eventi straordinari (furto o incendio) ma, alla luce della sentenza Jussilia appariva irragionevole il “divieto assoluto di prova testimoniale” e appariva urgente un intervento riformatore che introducesse la prova testimoniale, soprattutto al cospetto di ulteriori evenienze per le quali era auspicabile – se non indispensabile -  ammettere la prova testimoniale, quali ad esempio, altre ipotesi di causa di forza maggiore che rendevano non più ricostruibile l’effettivo imponibile; lo stato psicologico di un operatore economico coinvolto in una “frode carosello”; la giustificazione della capacità di spesa ai fini della ricostruzione del reddito; la sussistenza di valide ragioni economiche a fondamento di scelte negoziali ritenute elusive dall’amministrazione; le cause di giustificazione di scostamento da studi di settore o la dimostrazione di poste ritenute rilevanti in tema di accertamenti bancari. 

Differenze tra la testimonianza di nuova introduzione e la dichiarazione del terzo.

Come rammentato nel paragrafo precedente, la testimonianza è stata considerata dalla CEDU, in ossequio ai principi comunitari e all’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardai dei diritti dell’Uomo, doverosa, se e quando indispensabile per il corretto esercizio del diritto di difesa.

Sulla base di tale concetto dell’indispensabilità, la giurisprudenza nazionale, nonostante il previgente divieto espresso dall’art. 7 del D.lgs n.546/1992, ha autorizzato la deduzione della prova testimoniale ex articolo 2724 n. 3 c.p.c.  secondo cui la stessa va sempre ammessa quando il soggetto, senza sua colpa, ha perso il documento che gli avrebbe potuto fornire la prova (vedi in tal senso Cassazione nn.1323/2018; 9611/2017 e 25694/2016).

E invero. la giurisprudenza di legittimità, oltre alla possibilità di autorizzare in ipotesi eccezionali  la testimonianza, si è occupata piuttosto delle dichiarazioni di terzi, considerate certamente ammissibili nel processo tributario, anche per garantire  il principio della parità delle armi tra le parti, vista la possibilità mai negata agli enti  impositori di veicolare all’interno del processo dichiarazioni orali raccolte nella fase istruttoria amministrativa ( ad esempio le dichiarazioni contenute nei verbali della Guardia di Finanza). 

Giova evidenziare il labile discrimen tra la testimonianza e la dichiarazione dei terzi: la testimonianza può essere definita come “la narrazione che fa una persona dei fatti a lei noti per darne conoscenza ad altri, con la funzione di rappresentare un fatto passato e renderlo presente alla mente di chi ascolta o, come nel caso della testimonianza scritta, di chi legge”.

Parimenti, anche le dichiarazioni di terzo sono caratterizzate dagli stessi elementi oggettivi e soggettivi della testimonianza, consistendo nella descrizione di un fatto narrato da una persona diversa dalle parti processuali.

Entrambe sono dichiarazioni di scienza ma, a differenza della testimonianza che si forma all’interno del processo, le dichiarazioni di terzo sono rese prima ed al di fuori del processo stesso.  

In altri termini, come già affermato dal Giudice delle Leggi (sentenza Corte Cost. n.18/2000), le dichiarazioni di terzo sono “libere espressioni” raccolte ed acquisite senza alcun controllo o formalità: conseguenza di questa minor ritualità, è l’attribuzione di una minor efficacia probatoria, assurgendo un ruolo puramente indiziario che necessita di riscontro con altro materiale probatorio.

Con l’introduzione della prova testimoniale nel processo ad opera dell’articolo 4, comma 1, lett. c) della L. 130/2022 , che sostituisce il comma 4 dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992, i due mezzi probatori saranno destinati a coesistere: se da un lato, le dichiarazioni di terzo continueranno, poiché indizi ,  a dover essere avvalorate  da altri elementi univoci e potranno essere introdotte nel processo a cura del contribuente per il tramite dell’atto notorio, dall’altro lato, la prova testimoniale - quale prova costituenda - ammessa avanti le nuove Corti di Giustizia Tributaria, avrà valore probatorio pieno e potrà rappresentare il mezzo che serve a dare conoscenza e convincimento al giudice.

A questo punto, appare opportuno ricostruire l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in riferimento al valore probatorio delle dichiarazioni dei terzi nel processo tributario.

La giurisprudenza di legittimità, a partire dagli anni ’90, si era espressa con parere favorevole in merito all’ammissione della dichiarazione di terzo, precisando che deve esserci “un legame tra il soggetto  che rende la dichiarazione ed il soggetto accertato”(Cassazione 19.1.1990, n. 316; nel caso specifico le dichiarazioni poste alla base dell’accertamento di maggior reddito erano state riportate da una commessa dell’impresa e confermate dalle risultanze di un quaderno rinvenuto nei locali dell’impresa medesima).
Lo stesso orientamento era stato confermato con la sentenza n. 14774 del 15.11.2000 dove la Suprema Corte aveva ribadito che il divieto esplicito dell’articolo 7 era da riferirsi solo alla  testimonianza in senso stretto e che ciò non implicava il divieto di utilizzare le dichiarazioni rese nella fase amministrativa dell’accertamento.

Successivamente, la Suprema Corte  era intervenuta con sentenza n. 5957 del 15 aprile 2003,  al fine di evitare  che l’ammissibilità di tali dichiarazioni  potesse pregiudicare l’inviolabile difesa del contribuente e il principio di uguaglianza delle parti, che mal si attagliano con la possibilità riconosciuta alla sola Amministrazione Finanziaria di far entrare nel giudizio, con pieno valore probatorio, elementi orali, raccolti senza la garanzia del contraddittorio; secondo la giurisprudenza di legittimità, inoltre, non può ritenersi sufficiente, per salvaguardare la parità di armi in giudizio, ridurre il valore probatorio di tali dichiarazioni a semplice indizi, in quanto tali dichiarazioni sono soggette al libero convincimento del giudice che potrebbe fondare la propria decisione anche solo su tali dichiarazioni, ignorando il fatto che sulla veridicità  del loro contenuto non è mai instaurato un contraddittorio , al quale sarebbe preclusa la possibilità di avvalersi delle controdichiarazioni dei terzi.

Pertanto, secondo il Supremo Consesso, in attuazione dell’art. 111 Cost., è necessario riconoscere che, al pari dell’Amministrazione Finanziaria, anche il contribuente poteva introdurre nel giudizio innanzi alle Commissioni tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale per far valere le proprie ragioni; tali dichiarazioni devono assurgere a rango di indizi, che necessitano di essere valutati congiuntamente ad altri elementi.

In particolare,  secondo la Corte di Cassazione (Cass.n.5957/2003), in osservanza del principio delle parità delle parti - applicabile anche nel processo tributario - il giudice tributario deve prendere in considerazione le dichiarazioni extraprocessuali di persone informate dei fatti, sia che siano rese all’ufficio finanziario o alla Guardia di finanza, sia che siano rese al contribuente o a chi lo assiste; poiché in quest’ultimo caso non sussiste alcuna pubblica garanzia della provenienza e della fedele riproduzione della dichiarazione, il giudice può acquisire tale garanzia attraverso l’esercizio dei poteri conferitigli dall’art. 7 del D.Lgs. n. 546/92 e, nel caso, può incaricare la Guardia di Finanza di procedere a raccogliere le dichiarazioni.

Pertanto, il previgente art. 7, comma 1, D.Lgs. n. 546/92, poteva dirsi garante dei fondamentali principi processuali, in particolare della condizione di parità, soltanto se tale norma veniva interpretata nel senso che, al soggetto contribuente, dovevano essere attribuiti tutti i poteri di allegazione che sono concessi all’Amministrazione Finanziaria.

Precisamente, se la raccolta di informazioni presso terzi non integra l’esperimento della prova testimoniale, sebbene ad effettuarla sia l’Amministrazione finanziaria, la disposizione deve garantire al ricorrente la possibilità di presentare  all’organo giudicante un tale genere di prova,  allegando le dichiarazioni di terzi che abbiano come fine quello di rappresentare determinati fatti o circostanze.

E’, infatti,  evidente che la mancanza di responsabilizzazione del terzo rispetto alla veridicità delle informazioni fornite, dovrebbe portare con sé la necessità di instaurare, quantomeno, un contraddittorio su di esse, con il conseguente beneficio non tanto delle posizioni delle parti autonomamente considerate, quanto piuttosto dell’accertamento della verità.

Il potenziamento della difesa del contribuente, in evidente posizione di disparità rispetto all’Amministrazione Finanziaria, dovrebbe essere sentita in misura maggiore, essendo le dichiarazioni dei terzi trasfuse nel processo verbale di contestazione, che rappresenta il presupposto della pretesa fatta valere dall’amministrazione Finanziaria, parte in causa.

A conforto di ciò, appare opportuno richiamare l’iter logico seguito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.18/2000 summenzionata, secondo il quale, il contribuente può, nell’esercizio del proprio diritto di difesa, “contestare la veridicità delle dichiarazioni di terzi raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale”.

Qualora ciò avvenga, il giudice “potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell‘articolo 7 D.Lgs. n. 546 del 1992, rinnovando ed eventualmente integrando -secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità - l‘attività istruttoria svolta dall‘ufficio”.

Anche relativamente a questo tema, la giurisprudenza meno recente non è stata uniforme ma, a seguito  dell’indirizzo offerto dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza di legittimità, i giudici delle Commissioni si sono orientati ad ammettere la possibilità anche per il contribuente di esibire al giudice dichiarazioni di terzi a sostegno delle proprie tesi.
Nonostante le difficoltà che il contribuente potrebbe incontrare per ottenere delle dichiarazioni scritte di terzi (a differenza di quanto accade per la Guardia di Finanza o la pubblica amministrazione a cui i terzi, nell’ambito delle indagini svolte, hanno l’obbligo di rispondere), nelle sentenze più recenti si  è ammesso il valore probatorio, con valenza di indizio, delle dichiarazioni prodotte dal contribuente.

Sia la giurisprudenza di merito che quella di legittimità apparivano concordi nell’ammettere la  produzione in giudizio di dichiarazioni sostitutive di atto notorio, scritti non dissimili  da quelli verbalizzati dall’Amministrazione.
Si è così ammesso l’utilizzo di tali dichiarazioni per sostenere le argomentazioni del contribuente, ad esempio in tema di acquisto di beni immobili, dove è stato riconosciuto valore alla dichiarazione dei genitori in merito alla provenienza del denaro utilizzato (Commissione Regionale di  Milano del 29.11.2000, n. 223) ed agli aiuti economici ottenuti dal contribuente per il mantenimento dell’immobile stesso (Commissione Regionale dell‘Umbria del 24.10.2000, n. 562). .
Anche la  i giudici di legittimità si erano spesso pronunciati sull’utilizzabilità nel giudizio tributario dell’atto notorio prodotto dal contribuente, proprio per garantire l’effettività del suo diritto di difesa e la parità delle armi delle parti; a sostegno di ciò, vi è la sentenza n. 4269 del 25 marzo 2002, che richiama il principio del giusto processo di cui all’articolo 111 della Costituzione, e la pronuncia n. 6407 del 22.4.2003 che, in tema di accertamento bancario, ha ammesso la produzione di atto notorio con dichiarazione di un parente del contribuente accertato (cfr. Cassazione n. 24200  del 13.11.2006 e Cassazione n. 11221 del 16.5.2007).
In ultimo, a conferma dell’indirizzo ormai pacifico, la Suprema Corte, con la decisione  n. 10261 del 21.4.2008,aveva ribadito che, cosi come le dichiarazioni raccolte dai verificatori “non hanno natura di prova testimoniale bensì di meri indizi … utilizzabili per la formazione del convincimento del giudice di merito” così al contribuente è assicurato un pieno diritto di difesa, poiché anch’egli “può produrre documenti contenenti dichiarazioni rese da terzi in sede extra- processuali con il medesimo valore  probatorio”, nel pieno rispetto del principio del giusto processo costituzionalmente garantito.

Più di recente, il Supremo Consesso, con l’ordinanza n. 6616 del 16 marzo 2018 ha affermato che le dichiarazioni di un terzo costituiscono elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice. Ciò posto, l’elevato numero e la rilevante rappresentatività delle stesse in relazione alle operazioni poste in essere dal contribuente, costituisce valido elemento per contrastare la ricostruzione induttiva dei ricavi ipotizzati dall’Ufficio.

In particolare, i giudici di legittimità, con ordinanza n. 9593 del 5 aprile 2019, con riferimento alle dichiarazioni di terzi raccolte dalla Polizia tributaria e inserite nel processo verbale di constatazione, hanno affermato che non hanno natura di testimonianza - quand'anche siano state già rese in seno al procedimento penale - piuttosto di mere informazioni acquisite nell'ambito di indagini amministrative, sfornite, pertanto, "ex se" di efficacia probatoria, con la conseguenza che esse risultano del tutto inidonee a fondare un'affermazione di responsabilità del contribuente in termine di imposta, potendo soltanto fornire un ulteriore riscontro a quanto già accertato e provato "aliunde" in sede di procedimento tributario.

In ultimo, in alcune recentissime pronunce (Cassazione nn. 31588/2021, 30209/2021, 25804/2021), la Corte di Cassazione ha sostenuto che  “in tema di contenzioso tributario, al contribuente, al pari dell'Amministrazione finanziaria, è riconosciuta - in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle armi - la possibilità di introdurre, nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, le quali hanno valore indiziario, spettando al giudice il potere-dovere di valutare dette dichiarazioni nel contesto probatorio emergente dagli atti, al fine di riscontrare la credibilità dei dichiaranti in base ad elementi oggettivi e soggettivi”.

La prova testimoniale nel processo tributario: ambito applicativo e iter procedurale

Seppur in ritardo,la prova testimoniale ha trovato ingresso nel processo tributario tramite l’art. 4, co. 1, lett. c) della L. 130/2022 che sostituisce all'articolo 7 del D.lgs. 546/1992 il comma 4, il qualeconfermal’inammissibilità del giuramento ma, diversamente rispetto alla previgente disposizione, consente l’assunzione della testimonianza in sede processuale quando la Corte di giustizia tributaria di primo grado lo ritenga necessario ai fini della decisione anche in mancanza di accordo tra le parti.

L’art. 4 L.n. 130/2022, rubricato “Prova testimoniale”, a far data dall’entrata in vigore della legge, quindi dal 16 settembre 2022 – ha così sostituito, alla lettera c), il comma 4 dell’articolo 7 del Dlgs 546/1992:

4. Non è ammesso il giuramento. La corte di giustizia tributaria, ove lo ritenga necessario ai fini della decisione e anche senza l’accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’articolo 257-bis del codice di procedura civile. Nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale”.

Alla luce di tanto, il giuramento continua a essere escluso dal processo tributario, mentre trova ingresso la prova testimoniale in forma scritta, sia pure con due rigidi limiti: uno processuale e uno oggettivo.

Il novellato articolo 7 si applica ai ricorsi notificati a decorrere dal 16 settembre 2022, data di entrata in vigore della legge 130/2022.

  • Requisito di necessità

Nella versione originaria del Ddl governativo, era contemplata l’ammissibilità della testimonianza solo se “assolutamente necessaria”, relegando l’applicazione della testimonianza a casi eccezionali, solo qualora riguardasse un fatto decisivo della controversia.

In realtà, nessun mezzo di prova può ritenersi indispensabile, in quanto il giudizio su un fatto non provato viene risolto con il principio processuale dell’onere probatorio.

Successivamente, nella versione definitiva approvata, è stato espunto l’avverbio “assolutamente” che avrebbe suscitato difficoltà interpretative ma è rimasto il requisito delle “necessità” della prova testimoniale ai fini decisori, tale requisito è previsto anche nell’art. 58 del D.lgs n.546/1992, pertanto, utilizzando l’interpretazione data al predetto art.58, per ammettere la prova testimoniale, il giudice deve ritenerla unica, non fungibile con altri mezzi istruttori per dirimere la controversia.

Tanto chiarito, la prova testimoniale può dirsi “eccezionale” poiché ammissibile solo in mancanza di altri elementi istruttori.

  • Circostanze diverse da quelle verbalizzate

Il secondo limite, di natura sostanziale, attiene all’oggetto della prova testimoniale e consiste nella sua ammissibilità “soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale» quando “la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti” fidefacenti.

Difatti, è di tutta evidenza che per superare l’efficacia probatoria dei fatti attestati da un pubblico ufficiale è necessaria la querela di falso.

A titolo esemplificativo:

− se in un pvc il verbalizzante dà conto del rinvenimento di un documento extracontabile, il verbale è munito di fede privilegiata ex art. 2700 Cc della circostanza del rinvenimento, ma non della veridicità del relativo contenuto che attiene al merito ed è contrastabile con ogni mezzo istruttorio, compresa oggi la prova testimoniale;

− di converso, se dal pvc emergono fatti specifici, comprovati dalle dichiarazioni dei terzi o del contribuente, tali fatti non possono essere confutati con la prova testimoniale bensì con la querela di falso.

  • Iter procedurale di assunzione della prova testimoniale scritta

La prova testimoniale scritta è disciplinata dal codice di procedura civile all'articolo 257-bis e nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile all'art. 103-bis, a cui l’art. 7, comma 4, del decreto legislativo n. 546 del 1992 come da ultimo novellato, rinvia.

Tuttavia, nella prova testimoniale scritta da assumere nel processo tributario, a differenza del modello processual-civilistico, non è richiesto il previo accordo tra le parti.

Questo è dettato dall’evidente logica che, altrimenti, richiedendo il consenso, si sarebbe svuotato di senso l’istituto della prova testimoniale, atteso che l’Amministrazione Finanziaria avrebbe avuto tutto l’interesse a opporsi all’acquisizione di prove testimoniali sfavorevoli.

Secondo l’art. 257-bis c.p.c., il giudice dispone che la parte che ha richiesto la prova predisponga il modello di testimonianza, approvato con decreto 17 febbraio 2010 del Ministro della giustizia, seguendo le istruzioni per la sua compilazione,  e lo notifichi al testimone.

Il testimone rende la deposizione compilando il modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, e precisa quali sono quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione (art. 257-bis ,comma 3 c.p.c.).

Inoltre, il testimone sottoscrive la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, che spedisce in busta chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice (art. 257-bis, comma 4).

Nelle seguenti ipotesi:

• quando il testimone si avvale della facoltà d’astensione di cui all’articolo 249, ha l’obbligo di compilare il modello di testimonianza, indicando le complete generalità e i motivi di astensione (art. 257-bis ,comma 5);

• quando il testimone non spedisce o non consegna le risposte scritte nel termine stabilito, il giudice può condannarlo alla pena pecuniaria di cui all’articolo 255, primo comma(art. 257-bis, comma 6);

• quando la testimonianza ha ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, essa può essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al modello di cui al secondo comma (art. 257-bis, comma 7).

Il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il teste sia chiamato a deporre davanti a lui.

Alla luce di tanto, ciò che appare limitante nell’assunzione della prova testimoniale non è tanto la forma scritta ma i “paletti” di natura processuale e sostanziale posti dal legislatore, rendendo condizionato l’utilizzo della testimonianza, ovvero:

− l’assunzione da parte del giudice quando sia “necessaria”, in quanto le circostanze della controversia non possono essere provate con altri mezzi istruttori;

− la preclusione nelle casistiche espressamente richiamate dalla novella legislativa dell’utilizzo della prova per teste finalizzata a disattendere fatti e circostanze attestate già dalla GdF in concomitanza dell'accertamento.

Il modello di testimonianza scritta e le relative istruzioni per la sua compilazione.

Il modello di testimonianza scritta è stato approvatocon decreto 17 febbraio 2010 del Ministro della giustizia (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 49 del 1 marzo 2010), e consta di:

  • Allegato A, che predispone il modello su cui deve essere resa la testimonianza scritta;
  • Allegato Bche reca le istruzioni per la sua compilazione.

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