Salario minimo costituzionale, tanto tuonò che piovve!

Articolo di Manuela Rinaldi del 10/10/2023

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Tanto tuonò che piovve: la retribuzione “minima” dei lavoratori dipendenti può essere fissata anche dai giudici; ciò in quanto la stessa deve essere effettivamente adeguata e proporzionata al contenuto dell’articolo 36 della nostra Carta costituzionale secondo cui, come noto “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Così ha stabilito, nelle more delle decisioni del Governo, la quarta sezione civile della Cassazione lavoro  con la recentissima e storica sentenza del 2 ottobre 2023 n. 27711, andandosi ad inserire nel “caldo” tema del salario minimo già alle luci della ribalta con la proposta di legge n. 1275/2023, presentata lo scorso 4 luglio da alcuni deputati, e tenendo soprattutto in considerazione, come ci ricorda la più autorevole dottrina (Treu e Martone) che la retribuzione è sempre e da sempre un argomento centrale nel diritto del lavoro e delle relazioni industriali, in quanto “rappresenta un elemento determinante della condizione del lavoratore dipendente nonché l’oggetto principale della regolazione dei rapporti di lavoro, siano essi individuali e collettivi”.

La sopra menzionata dottrina ci ricorda ancora come lo stesso articolo 36 della Costituzione non prenda posizione su quali siano gli strumenti necessari per garantire i minimi salariali, non essendovi, peraltro, nulla che escluda un possibile intervento legislativo in materia, né che faccia concludere per una riserva a favore della contrattazione collettiva come confermato dalla stessa Corte Costituzionale ormai nel lontano 1962 con la sentenza n. 106, per cui “….Occorre subito avvertire che la Corte non ritiene fondata la tesi, richiamata da quasi tutte le ordinanze di rimessione e sostenuta dalla difesa delle parti interessate, secondo la quale l’ora richiamato art. 39 contiene una riserva, normativa o contrattuale, in favore dei sindacati, per il regolamento dei rapporti di lavoro…”.

E’ bene precisare, altresì, che senza dubbio la più importante voce della retribuzione mensile è il minimo contrattuale e rappresenta il salario minimo garantito dal CCNL applicato per ogni lavoratore o lavoratrice che hanno stessa qualifica e stesso livello di inquadramento.

Si ricorda, peraltro, che non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario nell'attuale ordinamento costituzionale, anche e soprattutto considerando lo stato, ancora oggi, di mancata attuazione dell’art.39 Cost., ed ancora, per una più completa disamina del tema trattato occorre altresì ricordare che proprio nel contesto di mancata attuazione della suddetta norma costituzionale (ovvero nello specifico della seconda parte nei commi, 2,3 e 4) la giurisprudenza ha utilizzato come parametro di riferimento della giusta retribuzione, non vincolante per il giudice, le tariffe salariali dei contratti collettivi della categoria, ove non direttamente applicabili (per approfondire il tema si veda Ponterio C., Il lavoro per un’esistenza libera e dignitosa: art. 36 Cost. e salario minimo legale, in Questione e Giustizia).

Nel caso concreto affrontato dalla Corte la questione prendeva avvio dal ricorso di un lavoratore – vittorioso in primo grado - in cui lo stesso lamentava la non conformità all’articolo 36 della Costituzione del suo CCNL.

In secondo grado la situazione veniva ribaltata dai giudici di appello che “riconoscevano” (senza un grande sforzo interpretativo!!) il primato – avuto da sempre – alla contrattazione collettiva.

Da qui la vicenda si spostava dinanzi all’attenzione della Suprema Corte che, di nuovo, ribaltava la decisione d’appello sancendo, contrariamente, la prevalenza della norma costituzionale, ovvero il già citato articolo 36, e riprendeva un  precedente e consolidato orientamento secondo cui “l’art. 36, 1 comma, Cost. garantisce due diritti distinti che, tuttavia, nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda: quello ad una retribuzione proporzionata garantisce ai lavoratori una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata; mentre quello ad una retribuzione sufficiente dà diritto ad una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo, ovvero ad una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (si veda Cass. civ 24449/2016).

Ed ancora si legge testualmente che “…Ribadito che secondo la comune interpretazione mai derogata da questa Corte, il riferimento al salario di cui al CCNL integra solo una presunzione relativa di conformità a Costituzione, suscettibile di accertamento contrario, va anche detto che attraverso questo sistema si è pure temperata, in concreto, in mancanza dell'attuazione dell'art. 39 Cost., la tesi espressa dalla già richiamata sentenza delle Sez. Unite n. 2655/1997, secondo cui l'ordinamento consentirebbe al datore di lavoro di autodeterminare la categoria di appartenenza ovvero di poter applicare un contratto stipulato da organizzazioni operanti in un settore produttivo diverso rispetto a quello nel quale si trovi concretamente ad operare. Pur in mancanza dell'applicazione ai contratti di diritto comune dell'art. 2070 c.c., che vincolerebbe la regolamentazione collettiva all'area professionale di pertinenza, si è infatti ammesso comunque che il lavoratore possa appellarsi ad un contratto collettivo diverso da quello di provenienza, non già per ottenerne l'applicazione bensì come termine di riferimento per la determinazione della giusta retribuzione deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto collettivo applicato al proprio rapporto (Sez. Un. 2665/1997; Cass. nn. 7157/2003, 9964/2003, 26742/2014, 4951/2019)”.

Nella sentenza in commento la Corte precisa che, sul tema dell’adeguatezza dei salari, deve tenersi assolutamente in considerazione la Direttiva UE 2022/2041, “relativa a salari minimi adeguati nell'Unione Europea termine”, quale parametro per avvalersi del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe o fare riferimento a indicatori economici o statistici, come consiglia la stessa direttiva.

Nel caso concreto, la Corte ha sottolineato che per la verifica della “proporzionalità” della retribuzione del lavoratore all’attività svolta, il giudice deve fare riferimento prima di tutto agli importi previsti dal CCNL di categoria, potendo, PERO’, anche discostarsene nel caso in cui la paga non possa ritenersi sufficiente al dettato costituzionale dell’articolo 36.

In sostanza nella decisione la Corte ha enunciato i seguenti principi di diritto:

  1. Nell’attuazione dell’art.36 della Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata
  2. Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.
  3. Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost. il giudice, nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099,2° comma c.c., può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022.

In definitiva, secondo la Corte n. 27711/2023 i salari dettati dalla contrattazione collettiva possono essere disapplicati dal giudice ed il trattamento retributivo annullato e sostituito con uno più congruo che rispetti il minimo costituzionale.

Una sentenza che sicuramente farà storia in quanto l’introduzione di un salario minimo c.d. “di Stato” andrebbe senza dubbio a sminuire se non abdicare del tutto il potere rappresentativo e contrattuale del sindacato che si ritroverebbe ad avere un ruolo del tutto marginale in un tema da sempre “di competenza”  della contrattazione collettiva incaricata, appunto, di rideterminare e aggiornare i minimi tabellari del CCNL.

Il risvolto non sarà, a sommesso parere di chi scrive, solo del sindacato e del ruolo che lo stesso riveste all’interno del nostro ordinamento in tema di retribuzione nei rapporti di lavoro, ma anche e soprattutto nei contenziosi – e quindi con risvolto anche per i Colleghi Avvocati, che potrebbero instaurarsi proprio al fine di richiedere in giudizio la (ri)determinazione della retribuzione da parte del magistrato, nell’ambito degli ampi poteri allo stesso riconosciuti,  con verifica,  a mezzo dei parametri individuati dalla decisione in commento, della adeguatezza ex art. 36 Cost.

Ai posteri, quindi, l’ardua sentenza….!!

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