
La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Diaco e Lenchi c. Italia dell’11 dicembre 2025, accerta la violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1 CEDU per i ritardi sistematici nei pagamenti dei compensi agli avvocati del patrocinio a spese dello Stato. La Corte qualifica tali crediti come beni tutelati dalla Convenzione, individua un malfunzionamento strutturale dell’amministrazione e fissa un parametro preciso di ragionevolezza dei tempi di pagamento. L’Unione Camere Penali Italiane vede riconosciuto il valore del proprio amicus curiae.
La domanda di fondo è semplice: i ritardi sistematici dell’Italia nel pagare gli avvocati del patrocinio a spese dello Stato violano il diritto al pacifico godimento dei beni?
La Corte EDU risponde sì, riconoscendo che i ricorrenti — avvocati che avevano ottenuto decreti di pagamento rimasti ineseguiti per anni — subiscono un’ingerenza non giustificata nei loro diritti patrimoniali. Dalla documentazione acquisita emergono ritardi da un anno a oltre quattro anni, dovuti non a condotte dei professionisti, ma a carenze amministrative: smarrimento di fascicoli, lentezza nelle comunicazioni, indisponibilità dei fondi.
L’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU tutela il diritto al pacifico godimento dei beni. La Corte chiarisce che:
i decreti di pagamento costituiscono titoli certi ed esigibili, secondo la stessa giurisprudenza italiana;
tali crediti rientrano pienamente nel concetto di beni ai sensi della Convenzione;
l’amministrazione, una volta riconosciuto il credito, deve procedere al pagamento entro un tempo ragionevole, salvo circostanze eccezionali;
ritardi prolungati sono ammessi solo se «giustificati da motivi pertinenti e sufficienti», ciò che non ricorre nel caso italiano.
Un elemento innovativo della sentenza è la fissazione di un parametro di ragionevolezza del pagamento, articolato in due fasi:
sei mesi dal deposito del decreto alla possibilità di emettere la fattura;
sei mesi dall’invio della fattura al pagamento.
Oltre tale limite annuale complessivo, il ritardo è prima facie irragionevole.
Dopo aver ricostruito i fatti, Strasburgo osserva che:
i ricorrenti avevano agito con diligenza, sollecitando più volte gli uffici;
non emergeva alcuna responsabilità degli avvocati nei ritardi;
le criticità derivavano da disfunzioni delle cancellerie, perdite di atti, lentezza procedurale e mancanza strutturale di fondi;
i tempi superavano abbondantemente la soglia di un anno indicata come limite di compatibilità con la Convenzione.
La Corte qualifica il fenomeno come problema strutturale del sistema italiano, assimilabile — per metodologia di risposta — al caso Torreggiani sul sovraffollamento carcerario. Ne discende l’obbligo per lo Stato di adottare misure generali ai sensi dell’art. 46 CEDU.
Le implicazioni sono molteplici:
lo Stato dovrà intervenire su procedure, digitalizzazione e dotazione dei fondi per garantire pagamenti entro tempi certi;
gli avvocati potranno invocare la sentenza nei giudizi nazionali per chiedere interessi, risarcimenti e l’accertamento dell’irragionevole durata del pagamento;
il Ministero dovrà rivedere la gestione del patrocinio a spese dello Stato per evitare la prosecuzione di una violazione definita come sistemica.
Strasburgo non riconosce un distinto danno morale, ritenendo sufficiente il ristoro patrimoniale, ma richiama l’Italia ad attuare riforme strutturali per prevenire nuovi ricorsi.
La Corte richiama espressamente il contributo dell’Unione delle Camere Penali Italiane (UCPI) nel proprio amicus curiae, valorizzandone tre aspetti:
la qualificazione del credito dell’avvocato come diritto patrimoniale soggettivo non comprimibile dall’inerzia amministrativa;
la necessità di una particolare diligenza dello Stato nel pagamento delle indennità del patrocinio, data la funzione costituzionale della difesa;
la natura strutturale dei ritardi, che impone misure generali e non soluzioni estemporanee.
L’Unione delle Camere Penali Italiane, con un comunicato, sottolinea come la sentenza rappresenti un passo decisivo sia per la tutela della dignità dell’avvocatura, sia per la garanzia del diritto di difesa dei cittadini meno abbienti: un sistema che non retribuisce tempestivamente i professionisti rischia infatti di compromettere l’effettività stessa del patrocinio.
La sentenza Diaco e Lenchi segna un punto di svolta: i ritardi nel pagamento dei compensi non sono più una disfunzione tollerabile, ma una violazione convenzionale. L’Italia è chiamata a intervenire sul sistema per assicurare certezza, tempestività e rispetto del lavoro dell’avvocatura. Un monito che riguarda tanto i diritti dei professionisti quanto quelli dei cittadini che confidano nella difesa garantita dallo Stato.
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