
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 185 del 16 dicembre 2025, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sulla riforma del reato di traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.), introdotta nel 2024.
Pur riconoscendo il restringimento dell’area del penalmente rilevante, la Consulta afferma che la scelta rientra nella discrezionalità del legislatore e non viola né l’art. 117 Cost. (obblighi internazionali) né i principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione.
Il Tribunale di Roma ha sollevato la questione nel giudicare la posizione di alcuni imprenditori accusati di aver versato oltre undici milioni di euro a un mediatore che si sarebbe impegnato ad attivarsi presso il Commissario per l’emergenza COVID per l’assegnazione di un appalto relativo alla fornitura di 800 milioni di mascherine.
Secondo il giudice rimettente, la riforma del 2024 – che non punisce più la generica mediazione illecita, ma richiede che l’accordo abbia a oggetto la commissione di un reato da parte di un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio – avrebbe prodotto un arretramento della tutela penale. Il dubbio si è accentuato perché, nello stesso procedimento, al Commissario era contestato l’abuso d’ufficio, fattispecie abrogata dalla medesima riforma del 2024.
Da qui il quesito: la nuova formulazione dell’art. 346-bis c.p. è compatibile con gli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione penale di Strasburgo sulla corruzione (1999), che descrive il traffico di influenze come l’offerta o dazione di denaro per esercitare una “influenza impropria”, senza esigere che essa sia finalizzata alla commissione di un reato?
La Corte richiama anzitutto l’art. 117 Cost., ribadendo – in continuità con la sentenza n. 95/2025 sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio – che la violazione di obblighi internazionali di criminalizzazione può integrare un vizio di costituzionalità. Riconosce inoltre che dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo discende, per l’ordinamento italiano, un vero obbligo di incriminazione del traffico di influenze illecite, obbligo oggi pienamente operante dopo il mancato rinnovo delle riserve da parte dell’Italia nel 2019.
Tuttavia, la Consulta sottolinea che la nozione convenzionale di “influenza impropria” presenta contorni vaghi e richiede una concretizzazione da parte del legislatore nazionale. Tale esigenza è resa ancora più evidente dalla mancanza di una disciplina organica del lobbying, capace di distinguere in modo chiaro le intermediazioni lecite da quelle illecite nei rapporti con i pubblici ufficiali.
Muovendo da queste premesse, la Corte afferma che la scelta del legislatore italiano di adottare una interpretazione restrittiva della mediazione illecita – ancorandola alla commissione di un reato da parte del pubblico ufficiale – si colloca all’interno dello spazio di discrezionalità lasciato agli Stati dalla Convenzione di Strasburgo.
La riforma, secondo la Consulta, risponde anche al principio – di rango costituzionale – di precisione della legge penale, evitando incriminazioni fondate su concetti eccessivamente indeterminati. Ne consegue che il nuovo assetto dell’art. 346-bis c.p. non viola gli obblighi internazionali, né determina una tutela manifestamente irragionevole dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione.
Pur dichiarando la questione non fondata, la Corte coglie l’occasione per rivolgere un chiaro invito al legislatore: introdurre una disciplina organica delle attività di lobbying. Una regolazione trasparente delle interlocuzioni con le istituzioni – osserva la Consulta – consentirebbe di definire con maggiore chiarezza le condotte di illecita influenza, prevedendo sanzioni adeguate e rafforzando il controllo pubblico sull’operato della PA.
Una simile disciplina potrebbe anche permettere, in futuro, di rimeditare le attuali scelte penali sul traffico di influenze: la Corte prende atto che, dopo la riforma del 2024, alcune mediazioni onerose che producono una distorsione dell’azione amministrativa restano penalmente irrilevanti se non sono finalizzate (o riconducibili) a un reato.
La pronuncia ribadisce il primato della discrezionalità legislativa in materia penale e, allo stesso tempo, segnala che il vero vuoto del sistema non è tanto nella norma incriminatrice, quanto nell’assenza di regole chiare sul lobbying. Finché quel tassello manca, il confine tra influenza lecita e illecita resta affidato, ancora una volta, al diritto penale.
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