Viaggio al Centro direzionale

Articolo di Gianmaria Parrotta del 23/10/2022

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C'è una Napoli sotterranea, lo sanno tutti, io lo so ci son già stato: cunicoli gallerie sale maestose, una città ai piedi della città, cui si irradia dal basso con aperture ingressi passaggi a tunnel a scala a chiocciola a gironi a discesa agli inferi, una radice inversa dal sottosuolo clandestina dormiente ammiccante, con le sue memorie richiami spifferi di cose e vite passate viste nascoste celate scordate, talvolta solo appena sussurrate.

E ce n'è un'altra che galleggia sopra tutto il resto, e nonostante se ne stia lì, sospesa, io non l'avevo mai veduta. Ti fa pensare in un capogiro a Gotham City, a Tokyo, alla base di Mazinga che si sradica inscalfibile a qualsiasi attacco, protetta circondata da una barriera energetica invisibile; a ben guardarla a onor del vero ricorda forse più il Financial District di San Francisco, ma che importa? Qualsiasi cosa sia e comunque, non può esistere: non può essere vera. Anche chi ci è abituato, anche chi ci vive accanto o chi qui ci lavora, quando arriva si guarda intorno incredulo, sempre più stupito perplesso fino allo scetticismo ancora invincibile: ma che caxxo sono andati a fare?

Non merita un nome così freddo come quello che gli hanno dato, privo di qualsiasi sforzo di fantasia; ma una invenzione e designazione che spetterebbe dovuta, adeguata, altisonante a identificare designare quel tanto e enorme di sublime magico maestoso incantato spropositato sovrannaturale: e invece la chiamano così: Centro Direzionale.
Al Centro Direzionale di Napoli, si trova il Palazzo di Giustizia: mi ci sono dovuto infilare.

Il Palazzo di Giustizia di Napoli è un elegante buco spazio-temporale che nel giro di pochi piani di scale e ascensore riesce a catapultarti nella rivisitazione fantascientifica del Castello di Franz Kafka. 

I monitor sono tutti accesi e indicano a uomini e donne tutti impegnatissimi come per la preparazione di una cerimonia funebre o matrimoniale – io mi credo lì per lì siano tutti agrimensori, e invece devono essere per il buon ottanta per cento solo avvocati  – la direzione da intraprendere, l'aula cui dirigersi, tutto quello che li aspetterà per quella mattina.

Districarsi non è facile perché devo cercare trovare verificare su quegli schermi l'indicazione di dove si svolgerà il mio processo riferendomi al nome di un giudice che sull'invito (invito si fa per dire, dato che non si può rifiutare, che per legge sono obbligato a ottemperare, da bravo cittadino), che ho ricevuto con raccomandata a casa mesi fa con l'ordine di comparire come testimone in un procedimento penale, è stato scarabocchiato in malo modo, illeggibile, evidentemente da un umano disumanissimo, da qualcosa come uno scarafaggio gigante e dalle sue zampe pelose, mi vien da credere con un brivido.

Mi perdo in fretta, eppure senza muovermi, rimango l'unico con lo sguardo fisso scrutante sui monitor scintillanti a colori gentili, efficientissimi; nessun altro più intorno, hanno in fretta sgomberato, dileguati, tutti sono corsi alle loro destinazioni: a me non riesce neppure quello.

Non trovo nelle vicinanze un ufficio degno di nota cui rivolgersi ma è pieno di bar, banche, tabaccherie, giornalai: e chi se lo sarebbe aspettato? Come nei grandi ospedali: anzi, lo devo ammettere: molto meglio. Mi balza alla mente l'idea che sia un posto così confortevole, seppure oscuro, che ci si potrebbe restare e vagare giorni e giorni senza annoiarsi, e nello stesso istante in cui penso questo mi assale alla gola l'ansia; d'un tratto non vedo l'ora di aver chiuso con quella storia e di poter esser di nuovo finalmente fuori, rilasciato, uscito: via da quell'anticamera di galera, non ho fatto niente! Si respira l'odore viziato dell'aria vecchia opprimente stantia, della gabbia! lasciatemi! perché sono qui cosa volete cosa ci faccio? no, non voglio! lasciatemi, vi dico!

Prima di farmi prendere da queste paranoie o da altri fantasmi e del tutto dallo sconforto decido di chiedere aiuto a due carabinieri che passano: paradossalmente la loro divisa d'un tratto mi si prospetta come l'unico collegamento con la realtà fuori da questo groviglio, quasi un richiamo di libertà; mi ispirano immediatamente fiducia, e non sarà malriposta. Una telefonata alla persona giusta che aiuta a decifrare per assonanze il nome del giudice della causa e mi ci accompagnano persino, altri cinque piani di ascensore, lasciandomi lì, davanti all'aula esatta con un sorriso come a dire: non hai niente da temere.

Entro. Alla cattedra in fondo c'è una signora che sembra sapere il fatto suo, totalmente a suo agio di fronte a tanti estranei si sta dando con estatica smorfia di soddisfazione lo smalto sulle unghie: deve essere la stenografa; mi avvicino e forte è la tentazione di darle del tu e di chiamarla Michela, in tutta confidenza. Invece sono troppo intimidito: lei mi prende nome e cognome e verifica che la causa sarà lì in quel salone ma, mi spiega, probabilmente ci sarà da aspettare un bel po'. Ringrazio non capendo del tutto, non immaginando neppure che per la mattinata sono previste una miriade di udienze e, la mia, chissà quando si svolgerà.

Bisogna fare un po' di anticamera, mi spiega Joseph K. prendendomi per braccio e accompagnandomi all'uscio. Siamo al chiuso ma gli avvocati, fuori dalle aule, sotto al cartello di divieto di fumare, parlano tra loro e fumano. Joseph mi fa accendere allora, e fumo anche io stabilendo che quella sarà la mia ultima sigaretta, manco fossi un condannato a morte. Guardo il mio compagno che scuote la testa e sorride, come sapesse qualcosa che io non so, forse quello che mi potrà accadere a processo. Mi prende un gran freddo, e allora torno in aula, a sedere. Da solo. Joseph mi saluta frettolosamente e quasi se ne scappa: ne ha abbastanza.

Finalmente, dentro, un po' di trambusto: arriva il giudice, vero, in carne e ossa, una donna emaciata pallida spigolosa che pare esser stata scarabocchiata come è stato il suo nome sulla mia citazione, appena abbozzata fin dalla venuta direttamente alla luce scialba dei neon del palazzo, qui in questo utero di legge e giustizia concepita nata e nutrita amata accudita, reclusa: se ne spunta che la si vede a malapena preceduta dal cancelliere, un cerimonioso ragazzone occhialuto e ciondolone (che mi ricorda, è vestito pure uguale in jeans e felpa amaranto, sembra ma non può essere lui, quello del mercato vicino alla stazione qualche ora prima, che mi voleva vendere rifilare calzini e scarpe da ginnastica di marca) sommerso da pratiche e carte e inserti scompaginati che porta in cartelline arancioni voluminose straboccanti impilate in bilico: le poggia sonoramente sul tavolo e crea una torre pendente dondolante, in una vertigine mi pare che sfiori a ondate, segnandolo, il soffitto, funzionando come un sismografo alla rovescia e, d'altronde, il sisma è proprio solo qua dentro e solo noi quelli appesi travolti mossi spostati; il castello che ci ospita, immoto.

L'aula è ampia, con poltroncine rosse imbottite, tavoli comodi e forniti di microfoni, attacchi per computer: ma, questi, non servono a niente, perché si fa tutto sulla carta, con la penna. Nessuno usa un portatile, un tablet. Le pratiche si portano avanti, così: come a i tempi di Kafka. Ma si va veloci per lo meno, si aggiorna e si rimanda tutto tra marzo e maggio del prossimo anno, e si salta a pié pari al plico alla pratica all'udienza successiva.

Non troppo tardi, quindi, mi chiamano al banco: leggo di giurare di dire la verità e infine testimonio quel poco che ho da testimoniare su un procedimento di cui non so neppure i capi di accusa, su fatti accaduti che non mi riguardano e che a malapena ricordo e che non riesco che a balbettare: sembra la pantomima della mia vita.

Quando credo di averla finita, Joseph se ne rispunta battendomi su una spalla, io mi scrollo e me lo levo di torno infastidito ma lui mi indica l'avvocato della difesa con grandi risate, tendendosi la pancia e restando a godersi lo spettacolo. Quello inizia a farmi domande, non capisce, vuole approfondire, l'atmosfera s'inspessisce, piomba un silenzio attonito, tutti mi osservano mi scrutano non si fidano; mi innervosisco sprofondo mi imbarazzo, mi volto, Joseph e Kafka in persona spuntato chissà da dove sghignazzando mi fischiettano all'orecchio la sigla di Perry Mason, l'avvocato per cui ogni puntata finiva che il colpevole era sempre il testimone chiave ma io non ci sto: mi rialzo con orgoglio con forza convinzione sicurezza ribadendo ribattendo riaffermando la mia povera esigua verità, scarna e inutile a tutti, lo so bene!, a me alla difesa e alla parte lesa, all'accusa all'accusato alla giustizia della giudice e all'equanimità della legge, a Napoli al mondo intero all'umanità tutta a tutti loro lì davanti muti a soppesarmi; levo gli occhi su Michela, ha le cuffie indosso e è l'unica, lei che deve tutto trascrivere, a non considerarmi ignorandomi, testa bassa, a quel modo a tutti gli effetti incapace di ascolto e, quindi, di giudizio.

Napoli è solamente il nome di una città che non esiste, schiacciata tra la sua dimensione sotterranea e questa sovrumana onirica sopraelevata in cui mi trovo: e non so se riuscirò più a tornare.
Il signore di Napoli è un uomo piccolo panciuto ingobbito pallido canuto che lavora abita vive al ventiduesimo piano dei trenta della Torre A del Palazzo di Giustizia di Napoli, lì, al Centro Direzionale. Lassù, da dove domina tutto, è stato costretto e sotterrato. Ha le punte delle mani del naso avvizzite, ai piedi unghie incarnite, chiazze buie in occhiaie gli sguardi rossastri annacquati spenti dietro le lenti che si calza per aiutarsi a leggere, non per guardarti. Ti parla come non ci fossi ma è disponibile, scrupoloso, ligio e solerte. Vestito in azzurro tenue e di bianco, candida la barba incolta, appena lo avevo inquadrato me l'ero dipinto più scoglionato.

Dall'ampia finestra del suo ufficio potrebbe godersi la vista sulla città ma è esattamente dalla parte opposta al golfo, gli è stato proibito il luccichio del sole l'azzurro l'infinito del mare del cielo.
Seppellito di carte bianche moduli bianchi scartoffie bianche plichi alti più di quei ventidue piani dove egli si trova e che ingialliscono alla base come lui alle estremità, su una decina di scrivanie che ha tutto intorno si è forse divertito a ricreare in quella sua stanza un modello in fogli del Centro Direzionale, che nome banale freddo anonimo inadatto per tutto questo brulicare.

Il signore finisce con me e mi saluta a malapena, poi passa a quello dietro. Il suo è l'ufficio Modello 12. Il suo compito per tutto il giorno tutti i giorni per una vita intera è far riempire quei moduli ai testimoni che testimoniano fatti accaduti nell'adempimento del loro servizio. L'ufficio Modello 12 è zeppo straripante solo e unicamente di Modelli 12, in bianco o compilati, in lavorazione o già esitati, archiviati tutti uno sopra l'altro senza un ordine ipotizzabile, ricostruibile, immaginabile.

Me ne vado in fretta, non vedo l'ora, e mi chiedo correndo scaraventandomi all'ascensore e poi giù scapicollandomi per le ultime rampe di scale cosa diavolo mai avrà fatto, il signore di Napoli, oppure che cosa gli sia toccato per caso, involontariamente, senza alcuna intenzione, inconsapevolmente, per malasorte destino pura fatalità, dal meritarsi una pena tale, di dover testimoniare.

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