LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –
Dott. RORDORF Renato – rel. Consigliere –
Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –
Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 3634/2008 proposto da:
FALLIMENTO IL VACANZIERE SPA (c.f. *****) in persona del Curatore Dr. L.O., elettivamente domiciliata in ROMA, V. MAGLIANO SABINA 10, presso l’avvocato BERRI Luigi, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
ITALEASE FACTORIT SPA, in persona del Presidente di Amministrazione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XXIV MAGGIO 43, presso l’avvocato NUZZO Antonio, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati FATTORI ANDREA, GIOVANARDI CARLO ALBERTO giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5612/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/12/2006;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 09/03/2010 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;
udito per il ricorrente, l’Avvocato SPIZZICHINO, (con delega), che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito per il controricorrente, l’Avvocato PANTELLINI, (con delega), che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 23 ottobre 1996 il curatore del fallimento della società Il Vacanziere s.p.a. citò in giudizio la Factorit s.p.a. dinanzi al Tribunale di Roma e chiese che, a norma della L. Fall., art. 67, fosse revocato un pagamento di L. 7.500.000.000 eseguito da un terzo, per delega della società poi fallita, in favore della convenuta.
Instauratosi il contraddittorio, il tribunale, con sentenza emessa il 24 luglio 2003, rigettò la domanda.
Il curatore propose gravame ed il processo di secondo grado, dopo che il difensore della Factorit ebbe dichiarato che detta società era stata incorporata dalla Banca Italease s.p.a., fu interrotto, all’udienza del 27 gennaio 2006, per essere poi riassunto dall’appellante nei confronti di un’ulteriore società, la Italease Factorit s.p.a., cui la Banca Italease aveva frattanto conferito il ramo d’azienda corrispondente all’area delle attività in precedenza svolte dalla incorporata Factorit.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 18 dicembre 2006, muovendo dal presupposto che la fusione di società per incorporazione da vita ad un fenomeno assimilabile alla successione per causa di morte, rilevò che il processo interrotto avrebbe dovuto essere riassunto nei confronti dell’incorporante Banca Italease, quale successore a titolo universale della parte originaria. Aggiunse che la riassunzione operata nei confronti della società cessionaria del ramo d’azienda, avente veste di successore a titolo particolare nel rapporto controverso, per il disposto dell’art. 110 c.p.c., non appariva invece idonea allo scopo. Di conseguenza, il giudizio fu dichiarato estinto.
Avverso tale sentenza il curatore del fallimento ha proposto ricorso per cassazione, prospettando tre motivi di censura.
La Italease Factorit s.p.a. (che ha frattanto mutato la propria denominazione in Factorit s.p.a., ma che, per evitare possibili confusioni, nel prosieguo verrà sempre ancora designata con la denominazione precedente) ha resistito con controricorso, illustrato poi con memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo del ricorso, nel denunciare la violazione di una pluralità di norme di legge sostanziale e processuale, il curatore del fallimento sostiene che erroneamente il processo d’appello è stato a suo tempo interrotto a causa dell’incorporazione dell’appellata Factorit nella Banca Italease, perchè da tale fusione, intervenuta nel vigore dell’art. 2504 bis c.c., come novellato dal D.Lgs. n. 6 del 2003, nessun effetto era scaturito sul rapporto processuale in corso. Non dovendo siffatto rapporto processuale essere interrotto, tanto meno il processo avrebbe potuto poi essere dichiarato estinto per eventuali difetti dell’atto di riassunzione.
2. Il secondo motivo di ricorso fa essenzialmente leva sul disposto della Legge Bancaria art. 58, comma 5 (D.Lgs. n. 385 del 1993), ed in particolare sulla previsione per la quale, in caso di cessione di aziende bancarie, si configura la responsabilità esclusiva del cessionario per i debiti dell’azienda ceduta una volta trascorso il termine (di trenta giorni dalla pubblicità indicata nel secondo comma) entro il quale i creditori hanno facoltà di esigere l’adempimento delle obbligazioni anche nei confronti del cedente.
A parere del ricorrente tale previsione normativa implicherebbe la perdita della legittimazione sostanziale e processuale della banca cedente. Ne conseguirebbe, per un verso, la necessità di interrompere eventuali giudizi in corso relativi ai rapporti di credito ceduti, analogamente a quanto avviene in ipotesi di fallimento della parte, e, per altro verso, la necessità (e dunque la piena legittimità) della successiva riassunzione nei confronti dell’unico soggetto ormai dotato di legittimazione, ossia del cessionario dell’azienda o del ramo d’azienda bancaria.
3. Da ultimo, il curatore ricorrente censura l’impugnata sentenza assumendo che, pure ove si volessero condividere i presupposti dai quali la corte d’appello è partita per affermare la necessità di interrompere il processo e notificare poi l’atto di riassunzione alla Banca Italease, la corretta conclusione da trame sarebbe stata non già l’estinzione del processo medesimo bensì l’ordine di integrare il contraddittorio nei confronti di detta banca a norma dell’art. 331 c.p.c..
4. Prima di esaminare i motivi di ricorso ora riferiti, occorre farsi carico di due eccezioni preliminari sollevate dalla difesa della controricorrente, la quale sostiene: che il ricorso sarebbe inammissibile perchè proposto contro un soggetto – la Italease Factorit – che non aveva mai validamente rivestito la qualità di parte nel giudizio di merito non potendo esser qualificato un successore a titolo universale dell’appellata; che, qualora invece si volesse ritenere ammissibile il ricorso per cassazione diretto nei riguardi della sola Italease Factorit, sarebbe comunque necessario integrare il contraddittorio nei confronti della Banca Italease.
5. Nessuno di siffatti rilievi appare condivisibile.
5.1. La Italease Factorit, in conseguenza dell’atto di riassunzione notificatole dopo l’interruzione del giudizio d’appello, ha certamente assunto la veste formale di parte nel processo al quale è stata chiamata in tal modo a partecipare (e nel quale si è anche ritualmente costituita); nè sussistono dubbi sul fatto che la sentenza d’appello sia stata pronunciata nei suoi confronti. Anche il ricorso per cassazione non poteva, quindi, che esser proposto nei confronti di quel soggetto.
La questione se l’atto di riassunzione dovesse o meno essere indirizzato alla medesima Italease Factorit si riflette sull’idoneità dell’atto ad impedire l’estinzione del giudizio in precedenza interrotto: investe dunque il tema che forma oggetto del ricorso per cassazione, e quindi attiene alla fondatezza di questo, non certo alla sua ammissibilità.
5.2. Nei riguardi della Banca Italease, pur se si voglia sostenere che essa avrebbe avuto titolo per succedere nella posizione giuridica sostanziale e processuale della Factorit (parte originaria del processo), non può dirsi esser stata pronunciata la sentenza impugnata, giacchè il contraddittorio nel giudizio d’appello, dopo l’interruzione, non è mai stato riattivato nei suoi confronti. Si può discutere sulla correttezza di tale scelta; ma questo, ancora una volta, investe il tema che forma oggetto del ricorso per cassazione, e dunque il merito di tale ricorso, senza implicare conseguenza alcuna quanto all’integrità del contraddittorio in questa sede.
6. Per ragioni di ordine logico è preferibile dare precedenza all’esame del secondo motivo di ricorso. Se fosse vero, infatti, che le disposizioni speciali dettate dalla Legge Bancaria art. 58, comma 5, automaticamente implicano, in caso di cessione di un ramo d’azienda bancaria, il venir meno della legittimazione, anche processuale, della cedente in relazione alle controversie aventi ad oggetto rapporti compresi nel ramo aziendale ceduto, secondo la curatela ricorrente ne deriverebbe, per un verso, la correttezza dell’intervenuta interruzione del processo (sia pure per una causa diversa da quella posta a base del provvedimento interruttivo emesso nel caso in esame dal giudice d’appello) e, per altro verso, l’idoneità a riattivare il processo della notifica dell’atto di riassunzione effettuata alla cessionaria.
La tesi prospettata da parte ricorrente non appare, però, fondata.
La disposizione contenuta nel comma 5 del citato art. 58, da leggersi unitamente a quelle del secondo e del quarto comma, con ogni evidenza ha unicamente il significato di derogare, nello specifico settore bancario, alla disciplina dettata dal codice in tema di opponibilità ai creditori della cessione dei debiti in caso di trasferimento dell’azienda. Essa opera su un piano di diritto sostanziale, disciplinando appunto il trasferimento dei predetti debiti, la relativa pubblicità ed il conseguente effetto nei confronti dei corrispondenti creditori; ma sarebbe del tutto arbitrario farne discendere, sul piano processuale, regole diverse da quelle applicabili in via generale a qualsiasi ipotesi di trasferimento per atto tra vivi, a titolo particolare, del rapporto controverso.
Va perciò senz’altro ribadito il principio per cui, in caso di trasferimento di un’azienda (o di un ramo di azienda) bancaria, nelle controversie aventi ad oggetto rapporti compresi in quell’azienda (o ramo d’azienda) il soggetto cessionario assume la veste di successore a titolo particolare, con la conseguente applicazione delle disposizioni dettate a tal proposito dall’art. 111 c.p.c..
7. Tanto chiarito, può ora senz’altro procedersi all’esame del primo motivo del ricorso.
7.1. Di tale motivo di ricorso è stata però eccepita, dalla controricorrente, l’inammissibilità: perchè sarebbe difettosa la formulazione del quesito di diritto che l’accompagna (applicandosi qui, ratione temporis, la disposizione dell’art. 366 bis c.p.c.), e perchè la questione dedotta sarebbe estranea al motivo del decidere e comunque preclusa da una precedente acquiescenza.
7.2. Nessuna di tali eccezioni coglie nel segno.
In ordine alla prima di esse, è sufficiente osservare che, al di là della più o meno felice formulazione, il quesito enunciato a corredo del motivo di ricorso esprime in modo inequivoco il principio di diritto che si vorrebbe vedere affermato, in contrasto con quanto statuito dal giudice d’appello: cioè che la fusione per incorporazione della società parte in causa non determina l’interruzione del processo, il quale perciò non si estingue se, a seguito dell’erronea pronuncia d’interruzione emessa dal giudice, non sia stato riassunto nei termini prescritti.
Quanto alla seconda eccezione, è da escludere che possa configurarsi un onere della parte di impugnare immediatamente la declaratoria d’interruzione del processo e, dunque, che vi sia stata un’acquiescenza conseguente al mancato reclamo. Trattandosi di un provvedimento reso con ordinanza, esso è sempre soggetto al successivo controllo in sede di decisione della causa; nè può fondatamente sostenersi che la questione sia stata estranea al tema del decidere nel giudizio d’appello, giacchè è proprio nel corso di quel grado di giudizio che si sono verificati gli eventi per effetto dei quali è stata dichiarata l’interruzione, e la conseguente pronuncia di estinzione processuale non poteva che esser censurata per la prima volta col ricorso per cassazione.
7.3. Oltre che ammissibile, il primo motivo di ricorso è fondato.
E’ pacifico in causa che la fusione per incorporazione della società Factorit nella Banca Italease è avvenuta quando era già in vigore la nuova formulazione data dal D.Lgs. n. 6 del 2003 all’art. 2504 bis c.c..
Com’è noto, il comma 1 di tale articolo è stato modificato dal legislatore sotto due profili. Ferma la regola per la quale la società incorporante o quella risultante dalla fusione assumono i diritti e le obbligazioni delle società preesistenti, si è eliminata, con riferimento a queste ultime, la definizione di “società estinte”, sostituta con quella di “società partecipanti alla fusione”; inoltre, è stata aggiunta l’espressione “proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”.
Si è discusso – ed in parte ancora si discute – se, con tali innovazioni, il legislatore abbia inteso aderire a quell’orientamento dottrinario che, già in precedenza, criticava l’assimilazione giurisprudenziale della fusione di società alla figura della successione mortis causa, o comunque negava potesse scaturirne una causa di interruzione del processo. Indipendentemente dalla condivisibilità o meno di tale orientamento in epoca anteriore alla riforma operata col citato D.Lgs. n. 6 del 2003, non è dubitabile che la nuova formulazione della norma – in particolare laddove essa fa espresso riferimento alla prosecuzione dei rapporti processuali, cui altrimenti non sarebbe stato necessario far cenno in modo specifico – mira oggi ad evitare che la fusione comporti una qualche soluzione di continuità nello svolgimento di detti rapporti. E si tratta di una scelta evidentemente operata dal legislatore proprio avendo presente lo stato del pregresso diritto vivente, in forza del quale la dichiarazione del difensore circa l’avvenuta incorporazione della società parte in causa era invece considerata idonea. a provocare l’interruzione del processo, con la conseguente necessità di riassumerlo poi nei confronti della società incorporante.
Va dunque enunciato il principio per cui, dopo l’entrata in vigore del novellato art. 2504 bis c.c., la fusione di società, in pendenza di una causa della quale sia parte la società fusa o incorporata, non determina l’interruzione del processo, nè quindi la necessità di riassumerlo poi nei confronti della società incorporante o risultante dalla fusione (cfr. anche, in tal senso, Sez. un. 8 febbraio 2006, n. 2637; Cass. 23 giugno 2006, n. 14526; e Cass. 23 gennaio 2007, n. 1476).
8. L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento del terzo motivo ed impone l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Roma (in diversa composizione), cui si demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, rigetta il secondo, dichiara assorbito il terzo, cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, demandandole di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 9 marzo 2010.
Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2010