Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.12318 del 19/05/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

SOCIETA’ CONCESSIONARIA ALFA ROMEO LONGO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RODI 32, presso lo studio dell’avvocato LAURITA LONGO LUCIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato DANIELE BARTOLOMEO, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRISTOFORO COLOMBO 436, presso lo studio dell’avvocato VACCARO ORESTE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VITALE ALIDA, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 851/2006 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 17/07/2006 R.G.N. 1796/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/04/2010 dal Consigliere Dott. IANNIELLO Antonio;

udito l’Avvocato LAURITA LONGO LUCIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della decisione non definitiva del Tribunale della medesima citta’, ha condannato la s.p.a. Concessionaria Alfa Romeo Longo, con sentenza depositata il 17 luglio 2006 e notificata il 6 settembre successivo, a pagare alla propria ex dipendente M.M.A. la somma di Euro 30.150,00, oltre accessori, a titolo di danni biologico, morale ed esistenziale da quest’ultima riportati a seguito delle molestie sessuali subite dal legale rappresentante della societa’.

Con ricorso, affidato a cinque motivi, notificato il 30 ottobre 2006, la societa’ chiede ora la cassazione di tale sentenza.

Resiste alle domande M.M.A. con rituale controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2698 c.c., comma 1 (recte, presumibilmente, 2697 c.c., comma 1), art. 2729 c.c., comma 1 e art. 2730 c.c., comma 1, nonche’ il vizio di motivazione.

Riproducendo integralmente il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio nonche’ il contenuto dei verbali di udienza, quanto alle prove testimoniali assunte nel giudizio di primo grado, la ricorrente rileva che le poche dichiarazioni testimoniali (cinque testi su sedici) aventi ad oggetto molestie sessuali poste in essere dal legale rappresentante della societa’ erano riferite ad episodi riguardanti esclusivamente la stessa persona della teste oppure fatti, peraltro del tutto generici, a lei narrati dalla M..

Nessun testimone avrebbe viceversa confermato i pochi episodi riportati nel ricorso ex art. 414 c.p.c..

Pertanto, in mancanza di prova, i giudici di merito avrebbero fatto esclusivamente ricorso a meri indizi relativi ad episodi riferiti come occorsi ad altre persone (tra l’altro da testimoni di cui due poco attendibili in quanto promotori di una causa nei confronti della societa’ e non certo per molestie sessuali) e per giunta secondo una dinamica diversa da quella descritta dalla M..

Inoltre la Corte d’appello avrebbe fondato le proprie valutazioni su di un giudizio di intrinseca credibilita’ delle dichiarazioni rese dalla M. in sede di interrogatorio libero, alle quali viceversa in via di principio non puo’ attribuirsi aprioristicamente piena credibilita’, tanto piu’ nel caso di specie in cui vi sarebbe una notevole discrasia tra la versione dell’episodio riferita in udienza e quella che la lavoratrice avrebbe dichiarato al C.T.U. e risultante dalla relativa relazione.

Da qui la denuncia di violazione delle regole legali sulla ripartizione dell’onere della prova, cosi’ come recentemente ricordate da Cass. 13 ottobre 2005 n. 19894 e di difetto di motivazione anche nell’esame della verosimiglianza o meno delle dichiarazioni sia testimoniali che in risposta all’interrogatorio libero, anche alla luce di elementi di genericita’ o di silenzi significativi, in tal modo utilizzando una sorta di presumptio de presunto a fondamento del preteso accertamento della responsabilita’ del L..

Il motivo conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica la Corte se, ai sensi del combinato disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, dell’art. 2730 c.c., comma 1 e dell’art. 2698 c.c., comma 1(?), sia ammissibile per il giudice di merito fondare il proprio convincimento e la conseguente condanna della parte esclusivamente sulla scorta delle dichiarazioni direttamente rese dalla parte lesa, senza considerare neppure le contraddizioni delle dichiarazioni con i documenti versati in giudizio, cosi’ applicando esattamente al contrario l’art. 2730 c.c. e su elementi indiziari provenienti da alcune testimonianze indirette, a loro volta in contraddizione con altre testimonianze, in assenza di riscontro delle circostanze di fatto dedotte in giudizio”.

2 – Col secondo motivo, la societa’ denuncia il vizio di motivazione della sentenza, che non avrebbe tenuto conto della denuncia di contraddittorieta’ del comportamento della M., la quale, nonostante abbia lamentato episodi di molestie sessuali avvenute sul luogo di lavoro a *****, ove il L. aveva il proprio ufficio principale, avesse impugnato il suo trasferimento a *****, ove il L. si recava viceversa saltuariamente.

3 – Col terzo motivo, viene denunciato un ulteriore vizio di motivazione della sentenza, in quanto la Corte territoriale non avrebbe tenuto adeguato conto del fatto che numerosi testimoni di sesso femminile avevano negato di avere subito molestie sessuali dal L. o di avere assistito a molestie da parte di questi.

4 – Col quarto motivo, la societa’ denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 1226 c.c. e dell’art. 432 c.p.c. nonche’ il vizio di motivazione della sentenza impugnata.

Dopo aver rimarcato il fatto che col proprio modus operandi nella fase delle indagini peritali, la Corte territoriale (assegnando al C.T.U. un quesito “vincolante”, col dare per certo l’accertamento di molestie, in realta’ non provati e con omettere ogni considerazione in ordine ai rilievi del C.T. di parte relativamente alla probabile connessione del disagio psicologico con il trasferimento a Rivoli piuttosto che alle pretese molestie) avrebbe di fatto impedito di imputare diversamente il danno biologico lamentato o comunque di modulare l’ammontare dei danni di cui e’ richiesto il risarcimento, la societa’ ricorrente censura la liquidazione equitativa del danno:

perche’ la stessa ricorrente aveva proposto l’adozione dei criteri elaborati dal Tribunale di Torino;

perche’ non erano indicati i criteri alla base della valutazione equitativa, rimasta pertanto incomprensibile, tenuto altresi’ conto della sua enormita’, anche con riguardo alla liquidazione del danno biologico ed esistenziale.

Il ricorso conclude pertanto con la richiesta di annullamento della sentenza impugnata, con ogni conseguenza di legge.

I primi tre motivi del ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, attengono sostanzialmente, ancorche’ in alcuni snodi evocanti violazioni di legge, a censure relative alla motivazione della sentenza, in punto di valutazione delle risultanze istruttorie, ritenuta erronea, parziale e contraddittoria.

In proposito, va ricordato che il controllo di legittimita’ sulla motivazione della sentenza riguarda unicamente (attraverso il filtro delle censure mosse con il ricorso) il profilo della coerenza logico – formale e della correttezza giuridica delle argomentazioni svolte, in base all’individuazione, che compete esclusivamente al giudice di merito, delle fonti del proprio convincimento, raggiunto attraverso la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilita’ e concludenza, scegliendo tra di esse quelle ritenute idonee a sostenerlo all’interno di un quadro valutativo complessivo privo di errori, di contraddizioni e di evidenti fratture sul piano logico, nel suo interno tessuto ricostruttivo della vicenda (cfr., per tutte, Cass. S.U. 11 giugno 1998 n. 5802 e, piu’ recentemente, Cass., sez. lav. 6 marzo 2006 n. 4770 e Cass. sez. 1A, 26 gennaio 2007 n. 1754 e 21 dicembre 2009 n. 26825).

Ne’ appare sufficiente, sul piano considerato, a contrastare le valutazioni del giudice di merito il fatto che alcuni elementi emergenti nel processo e invocati dal ricorrente siano in contrasto con alcuni accertamenti e valutazioni del giudice o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti.

Ogni giudizio implica infatti l’analisi di una piu’ o meno ampia mole di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente piu’ significativi, coerenti tra di loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione in termini chiari e comprensibili. Giudizio, quindi, che compete al giudice nei due gradi di merito in cui si articola la giurisdizione.

Per delineare il vizio indicato, occorre pertanto i “punti” della controversia dedotti per invalidare la motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione, siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante o determini al suo interno radicali incompatibilita’ cosi’ da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (in proposito, cfr., di recente, Cass. sez. 3A, 21 novembre 2006 n. 24744 e sez. 1A, 22 gennaio 2007 n. 1270).

Cio’ premesso in via di principio, si rileva che la sentenza impugnata si sottrae alle censure svolte con i motivi in esame, avendo provveduto ad esaminare le risultanze in giudizio, a partire dalle dichiarazioni rese dalla originaria ricorrente in sede di risposta all’interrogatorio, ritenute attendibili anche e soprattutto alla stregua dei riscontri probatori costituiti da testimonianze che avevano riferito di ripetuti comportamenti di molestie sessuali posti in essere dal datore di lavoro nei confronti di altre lavoratrici, valutati come univocamente significativi della veridicita’ delle denuncie della M. (cosi’ correttamente utilizzando, come prove, presunzioni semplici, risalendo da fatti noti ad un fatto ignoto da provare, come consentito dall’art. 2727 c.c. e segg. e non, come dedotto dalla ricorrente, mere presumptiones de presunto).

Tale esame e’ stato completo e articolato, con argomentate valutazioni relativamente alla attendibilita’ dei vari testimoni, alla intrinseca credibilita’ dell’episodio narrato dalla originaria ricorrente in sede di risposta all’interrogatorio, nonostante alcune divergenze rispetto alla versione riferita dal C.T.U., (dei motivi delle quali la Corte ha dato ragionevole giustificazione), alle ragioni per cui non tutte le testimoni di genere femminile sono risultate oggetto di molestie sessuali da parte del legale rappresentante della societa’ datrice di lavoro o non hanno assistito ad episodi di molestie (difficilmente manifestabili in pubblico).

Rispetto a tale complesso, articolato, coerente esame delle risultanze istruttorie, la ricorrente, oltre a fuorvianti censure di violazione della legge, si limita a riproporre una diversa possibile “lettura” delle stesse, cui aggiunge un rilievo relativo alla mancata considerazione da parte della Corte d’appello del comportamento della lavoratrice denunciato come contraddittorio e oggetto del secondo motivo di ricorso, argomento la cui decisivita’ in giudizio appare in verita’ anche sfuggente, ove si consideri la molteplicita’ di ragioni possibili del comportamento denunciato.

Nella sostanza, con i motivi in esame, la ricorrente finisce per chiedere a questa Corte di legittimita’ una nuova valutazione dei fatti, favorevole alla propria tesi difensiva, alla luce delle risultanze istruttorie gia’ valutate dai giudici di merito, e quindi una sorta di giudizio di terzo grado, non previsto dall’attuale Ordinamento processuale.

Anche il quarto motivo e’ infondato.

L’esame del motivo va limitato alle censure relative ai criteri di liquidazione equitativa del danno e alla motivazione in ordine all’applicazione degli stessi, mentre ad esso resta estranea quella che nel corpo del motivo costituisce la premessa svolta in ordine al ed. modus operandi del giudice di merito, in quanto essa non si e’ tradotta in una precisa censura nella rubrica relativa al motivo e soprattutto nel quesito c.d. di diritto formulato in ordine ad esso (che nel sistema vigente all’epoca segnava il perimetro del ricorso per Cassazione).

Nel merito delle censure, va premesso che anche i criteri adottati dal Tribunale di Torino in materia di liquidazione del danno non patrimoniale e richiamati dalla ricorrente per censurarne la mancata utilizzazione da parte della Corte territoriale costituiscono e non possono non costituire espressione di un giudizio equitativo, e ad essi la difesa della lavoratrice aveva fatto riferimento, col valutarne opportuna l’adozione, non in assoluto, ma partendo dalla considerazione di un danno c.d. biologico di rilevante consistenza (e quindi formulando richieste risarcitorie ben piu’ elevate di quelle determinate dai giudici), senza quindi vincolarsi ad essi in ogni caso.

Ne consegue che correttamente la Corte territoriale, accertando la lievita’ del danno biologico ma anche la particolare gravita’ ed odiosita’ del comportamento lesivo e quindi la sua notevole capacita’ di offendere i beni personali costituzionalmente protetti indicati come lesi dalla lavoratrice, ha proceduto ad una liquidazione equitativa del danno non patrimoniale sulla base di criteri diversi, che alludono esplicitamente, in particolare, per cio’ che riguarda il ed. danno morale da reato, alla menzionata odiosita’ della condotta lesiva, indotta soprattutto dallo stato di soggezione economica della vittima e per la parte concernente il c.d. danno esistenziale, al clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e al peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare della M. in conseguenza di esso.

La parte ricorrente lamenta peraltro altresi’ che i giudici, nel procedere alla liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, abbiano esplicitato in maniera insufficiente e sommaria le ragioni a sostegno del livello, ritenuto sproporzionato, della stessa.

In proposito, va peraltro ricordato che, secondo la recente giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal collegio (Cass. 26 gennaio 2010 n. 1529), la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimativita’, e’ suscettibile di rilievi in sede di legittimita’, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria’ carenze che non sono state denunci Stellai ricorso e che non sono comunque rilevabili nella motivazione della sentenza impugnata.

Concludendo, in base alle considerazioni svolte, il ricorso va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, cosi’ come effettuato in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare a M. M.A. le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 61,00 per spese ed Euro 3.000,00, oltre accessori, per onorari.

Cosi’ deciso in Roma, il 14 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2010

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