LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –
Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –
Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –
Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –
Dott. MAMMONE Giovanni – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso 21157-2008 proposto da:
T.A., elettivamente domiciliato in ROMA, via UGO BARTOLOMEI 23, presso lo studio dell’avvocato IVELLA ENRICO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOBILI ANDREA per procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
CASINO’ DI SANREMO SPA in persona del Presidente del Consiglio di amministrazione, elettivamente domiciliato in ROMA, via RONCIGLIONE 3, presso lo studio dell’avvocato GULLOTTA FABIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PRINCIPI EMANUELE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 873/2007 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 21/08/2007;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/02/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI MAMMONE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato.
RITENUTO IN FATTO E DIRITTO T.A. con ricorso al giudice del lavoro di Sanremo, premesso di essere stato dipendente del Casinò di Sanremo con mansioni di valletto, impugnava il licenziamento per giusta causa dallo stesso irrogatogli in relazione a due contestazioni disciplinari.
Rigettata la domanda, proponeva appello il T. lamentando la genericità delle contestazioni. Costituitosi il Casinò, la Corte di appello di Genova con sentenza 29.6-21.8.07 rigettava l’impugnazione ritenendo congruamente formulate e fondate nel merito le contestazioni mosse al ricorrente, entrambe consistenti nella violazione di disposizioni aziendali circa la destinazione di gettoni slot rinvenuti incustoditi nelle sale da gioco.
Proponeva ricorso il T. deducendo: 1) violazione dell’art. 2119 c.c. e carenza di motivazione circa i fatti posti a base della giusta causa, con conseguente formulazione di un quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.; 2) violazione dell’art. 4 dello statuto dei lavoratori, con il quesito: stabilisca la C.S. se l’art. 4 stat. lav. debba essere interpretato nel senso che debbano considerarsi legittime le attività di controllo eseguite in forma occulta e, pertanto, accerti l’irregolarità delle modalità di accertamento delle presunte in frazioni commesse dal sig. T..
La s.p.a. Casinò di Sanremo si difendeva con controricorso.
Il consigliere relatore ha depositato relazione ex art. 380 bis c.p.c. che è stata comunicata al Procuratore generale ed è stata notificata ai difensori costituiti.
Ha depositato memoria la società controncorrente.
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, il quesito richiesto dall’art. 366 bis c.p.c. a pena di inammissibilità deve ritenersi nella pratica inesistente, in quanto alla Corte viene sottoposto non una questione di diritto, ma una lunga serie di argomentazioni riassuntive della più ampia discussione effettuata ad illustrazione della censura.
Il secondo motivo, invece, si risolve nella richiesta – inammissibilmente rivolta al giudice di legittimità – di compiere un accertamento di fatto circa la legittimità delle modalità del controllo del datore sul comportamento del dipendente.
Tale tecnica di formulazione contrasta con gli obiettivi e gli scopi che la norma si prefigge di raggiungere grazie alla formulazione del quesito. Come noto, il principio di diritto che, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., la parte ha l’onere di formulare espressamente nel ricorso per cassazione a pena di inammissibilità, deve consistere in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame. Ne consegue che è inammissibile non solo il motivo nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione dell’impugnazione;
ovvero sia formulato in modo implicito, si da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto generico (Cass., S.u., 28.9.07 n. 20360).
L’inammissibilità dei motivi comporta il rigetto del ricorso.
Le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 30,00 per esborsi ed in Euro 2.000 (duemila) per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.
Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2010.
Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2010