LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUPI Fernando – Presidente –
Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –
Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –
Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –
Dott. VIRGILIO Biagio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
M.C., elettivamente domiciliato in Roma, Via Carlo Mirabello n. 23, presso l’avv. GIOIA Alessandro, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 46/31/07, depositata il 14 maggio 2007.
Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 9 novembre 2010 dal Relatore Cons. Dott. Biagio Virgilio;
udito l’avv. Alessandro Gioia per il controricorrente;
udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. CENICCOLA Raffaele, il quale ha dichiarato di non avere nulla da osservare in ordine alla relazione ex art. 380 bis c.p.c..
La Corte:
RITENUTO IN DIRITTO
che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:
“1. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 46/31/07, depositata il 14 maggio 2007, con la quale, accogliendo l’appello di M.C., è stata dichiarata la illegittimità dell’avviso di accertamento emesso nei confronti del contribuente per IRPEF, IVA ed IRAP del 2001, in applicazione degli studi di settore.
In particolare, il giudice a quo ha ritenuto illegittima la determinazione del maggior reddito sulla base della mera automatica applicazione delle risultanze di detti studi.
Il contribuente resiste con controricorso.
2. Il primo motivo di ricorso dell’Agenzia delle Entrate, con il quale si sostiene la tesi che l’accertamento effettuato dall’Ufficio con applicazione degli studi di settore è legittimamente fondato sulle sole risultanze di questi ultimi e correttamente motivato mediante il solo richiamo ad essi ed alle discrepanze tra le relative risultanze e la dichiarazione del contribuente, appare manifestamente infondato, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 18565 del 2009, secondo i quali la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività -, ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impostore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte.
3. Il secondo motivo, con il quale si denuncia difetto di motivazione, è inammissibile, in quanto formulato in violazione dell’art. 366 bis c.p.c..
4. In conclusione, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in Camera di consiglio per manifesta infondatezza”;
che la relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata agli avvocati delle parti;
che non sono state presentate conclusioni scritte da parte del p.m., mentre ha depositato memoria la ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che il Collegio, a seguito della discussione in Camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione (senza che a diversa conclusione siano idonee ad indurre le argomentazioni svolte nell’anzidetta memoria) e, pertanto, riaffermato il principio di diritto sopra richiamato, il ricorso deve essere rigettato;
che sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità, in considerazione del fatto che la questione costituente oggetto principale del ricorso è stata definitivamente risolta dalla sopravvenuta pronuncia delle Sezioni unite n. 26635 del 2009 (indicata in relazione, per mero errore materiale, come n. 18565 del 2009).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 9 novembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2011