LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente –
Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –
Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –
Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere –
Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 9706-2005 proposto da:
LA.DE.MA. SRL IN LIQUIDAZIONE C.F. ***** in persona del Liquidatore Ing. P.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 77, presso lo studio dell’avvocato DEL BUFALO PAOLO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SCOPSI CLAUDIO;
– ricorrente –
contro
Architetto N.G. P.IVA *****, elettivamente domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FREDIANI LEOPOLDO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 871/2004 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 20/11/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/12/2010 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCARDACCIONE Eduardo Vittorio che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata il 10.3.1989 la società La.De.Ma. s.r.l.
agiva innanzi al Tribunale di Massa affinchè fosse accertata l’entità del compenso spettante all’architetto N.G. per la redazione di un piano di lottizzazione. All’esito dell’istruzione probatoria, il Tribunale emetteva il 6.8.1999 ordinanza ex art. 186- quater c.p.c. con la quale imponeva alla società committente il pagamento della somma di L. 88.553.098. Notificatale l’ordinanza spedita in forma esecutiva e il precetto, la società La.De.Ma.
dichiarava la propria volontà di rinunciare alla pronuncia della sentenza, e con citazione notificata il 15.10.1999 impugnava l’ordinanza innanzi alla Corte d’appello di Genova. Quest’ultima, con sentenza del 7.3.2002, rilevato che la rinuncia alla sentenza era stata manifestata direttamente dalla parte, invece che dal suo procuratore costituitosi in giudizio, dichiarava che la controversia non si era ancora conclusa innanzi al giudice di primo grado, cui rimetteva le parti “per quanto di competenza”.
Riassunto il giudizio innanzi al Tribunale, la società La.De.Ma.
dichiarava nuovamente di rinunciare alla sentenza e, quindi, tornava ad impugnare la ridetta ordinanza ex art. 186-quater c.p.c. innanzi alla Corte d’appello di Genova, chiedendone la revoca.
Con sentenza n. 871 dei 20.11.2004 la Corte territoriale dichiarava inammissibile l’appello, in considerazione del fatto che l’ordinanza post-istruttoria, essendo in tutto equiparata ad una sentenza, soggiaceva alla norma dell’art. 358 c.p.c., e che, nello specifico, nel proporre il precedente appello contro la medesima ordinanza, la La.De.Ma. aveva consumato il potere d’impugnazione. Aggiungeva che detta parte avrebbe potuto e dovuto, dopo la prima irrituale rinuncia alla sentenza, portare avanti il processo di primo grado fino alla definizione con sentenza, ed impugnare eventualmente quest’ultima così da evitare d’incorrere nella preclusione derivante dalla norma citata.
Avverso quest’ultima sentenza la La.De.Ma. srl propone ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo.
Resiste la parte intimata con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – In via pregiudiziale va respinta l’eccezione, sollevata dalla parte intimata, di nullità della procura apposta a margine del ricorso, in quanto non contenente l’indicazione della sentenza impugnata e dell’autorità che l’ha emessa.
1.1.- Contrariamente a quanto afferma il controricorrente, non costituisce affatto ius reception, nella giurisprudenza di questa Corte, che la procura speciale prevista dall’art. 365 c.p.c. debba contenere, anche quando apposta a margine o in calce al ricorso, il riferimento alla sentenza impugnata. E’ costante, invero, l’orientamento esattamente opposto, basato sulla considerazione che in tali casi la procura costituisce corpo unico e inscindibile con l’atto cui inerisce (v. Cass. nn. 463/99, 3034/99, 4299/99, 1058/01, S.U. 15439/02, 13860/02, 4800/02, 28227/05, 9493/07 e 10539/07), mutuandone i necessari riferimenti alla pronuncia oggetto d’impugnazione.
2. – Con l’unico motivo d’annullamento si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1866-quater e 358 c.p.c., nonchè l’incongrua e illogica motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
2.1. – L’art. 358 c.p.c., sostiene il ricorrente, va interpretato nel senso che la non riproponibilità dell’appello dichiarato inammissibile costituisce regola non assoluta, ma da coordinare alla ragione per cui l’inammissibilità stessa è stata dichiarata. A sostegno, richiama la giurisprudenza di legittimità secondo cui l’inammissibilità dell’appello conseguente a nullità dell’atto d’impugnazione, in quanto firmato da procuratore extra districtum, non comporta consumazione, ma mancato esercizio del relativo potere processuale (Cass. n. 1162/98); analogamente avviene nel caso di impugnazione ante tempus (Cass. nn. 126/74 e 62/73); e di appello proposto contro il solo dispositivo di sentenza, che non impedisce la riproposizione del gravame avverso la medesima pronuncia integra dei motivi (Cass. nn. 4056/85 e 749/82).
2.1.1. – Nello specifico, l’ordinanza post-istruttoria emessa ai sensi dell’art. 186-quater c.p.c. acquista (nel testo della norma ante lege n. 263 del 2005) efficacia decisoria allorchè la parte intimata manifesti una valida rinuncia alla (emissione della) sentenza, in assenza della quale lo stesso oggetto del gravame non viene ad esistenza; e poichè l’atto impugnato deve preesistere all’appello, detto tipo di ordinanza può essere impugnabile solo dopo aver acquisito l’efficacia di sentenza (come osservano Cass. nn. 194/02 e 10748/02).
2.1.2. – Nè è esatto che, come si sostiene nella decisione della Corte genovese, la società La.De.Ma. avrebbe dovuto portare avanti il processo di primo grado fino alla sentenza, per poi eventualmente impugnare quest’ultima. Tale assunto, che sottintende che ad una rinuncia invalida non possa seguire una rinuncia valida, non considera che in materia non è prevista una disposizione analoga a quella degli artt. 358 e 387 c.p.c..
3. – Il ricorso è fondato, a stregua dell’interpretazione storico- teleologica e sistematica delle norme menzionate.
3.1. – La regola della non riproponibilità dell’impugnazione dichiarata inammissibile o improcedibile è stabilita, con disposizioni affatto omologhe, dagli artt. 358 e 387 c.p.c., rispettivamente, per il giudizio d’appello e per quello di cassazione.
Essa ripete la sua primigenia positivizzazione dall’art. 528 c.p.c. 1865, che, con esclusivo riferimento al giudizio di cassazione, posti i casi di non ammissibilità dei ricorso, disponeva, a chiusura, che “la parte, il cui ricorso fu dichiarato non ammissibile, non può riproporlo”.
Per il processo d’appello, il codice di procedura abrogato prevedeva, invece, il rigetto senza esame. L’art. 489 del 1865 disponeva, infatti, che il mancato deposito, nel termine prescritto, della sentenza impugnata, degli atti del primo giudizio e del mandato, comportava il rigetto dell’appello “sulla domanda dell’appellato comparso nel termine della citazione”, senza nulla stabilire sugli effetti di tale pronuncia in punto di riproposizione del medesimo (tipo di) gravame. Dopo iniziali incertezze, e nel contrasto delle opinioni di dottrina in allora espresse (tra cui non mancò chi autorevolmente sostenne che il rigetto senza esame costituiva pronuncia di merito, di talchè l’appello respinto determinava un effetto di ne bis in idem), le Corti di Cassazione di Torino, Napoli e Roma, invertendo l’orientamento dapprima manifestato, optarono per la tesi della non riproponibilità dell’appello, anche se non fosse decorso il termine dell’impugnazione, uniformando, così, la soluzione del quesito alla regola che il legislatore aveva scelto per il giudizio di legittimità, e che si traduceva nel principio di consumazione del potere processuale una volta che fosse stato esercitato infruttuosamente per ragioni non di merito.
3.2. – Gli attuali artt. 358 e 387 c.p.c. si pongono in una linea di continuità con il sistema del codice abrogato, e con il principio di consumazione dell’impugnazione definita con sentenza di rito, sicchè la scelta legislativa è nel senso di far dipendere l’effetto di consumazione non dall’inammissibilità o improcedibilità in sè dell’impugnazione, ma dalla relativa declaratoria con sentenza, indipendentemente dalla scadenza o non del termine per (ri)produrla;
di guisa che, com’è costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, per l’espressa previsione delle norme citate, la consumazione del potere di impugnazione presuppone, da un canto, l’esistenza di due impugnazioni della stessa specie, e, d’altro canto, la sussistenza al tempo della proposizione della seconda della declaratoria d’inammissibilità della precedente (cfr. e pluribus, Cass. n. 13062/07 e successive conformi).
3.3. – Relativamente a tale principio, si sono formati in dottrina due diversi orientamenti.
In base al primo, la consumazione dei potere processuale d’impugnazione deriva come conseguenza inevitabile della definizione del giudizio e del carattere sostitutivo della sentenza d’appello, che non può rimanere senza effetti di sorta, come se il processo non fosse stato instaurato.
Per il secondo, invece, la consumazione del potere può operare in maniera selettiva, quante volte se ne possano verificare i limiti di tenuta in relazione ai casi singoli, perchè non sempre esercizio e consunzione si implicano.
3.4. – La giurisprudenza di questa Corte ha in alcuni casi preferito quest’ultimo indirizzo, corrispondente ad un’opzione di metodo che, tuttavia, indaga il fenomeno in maniera sostanzialmente empirica.
In talune pronunce l’inapplicabilità dell’art. 358 c.p.c. è stata fatta discendere dalla nullità dell’atto d’appello, nel senso che in tal caso il diritto d’impugnazione, anzichè consumato, deve considerarsi come non esercitato per la nullità dell’atto introduttivo del gravame, in ordine al quale la pronuncia del giudice ha valore soltanto dichiarativo (Cass. nn. 3132/84 e 1162/98 emesse in tema di nullità dell’atto d’appello proposto da procuratore esercente extra districtum, vigente il R.D. n. 1578 del 1933, art. 5, abrogato dalla legge n. 27 del 1997).
In altre fattispecie, relative a impugnazioni proposte ante tempus, ha fatto premio, invece, la rilevazione di un limite esterno o interno all’atto impugnato, che lo rendeva non ancora suscettibile di contestazione davanti al giudice superiore. Così, è fermo orientamento, con riguardo all’applicazione dell’art. 387 c.p.c., che la riserva di gravame formulata nei confronti della sentenza non definitiva rende inammissibile il ricorso per Cassazione proposto in via immediata, ma non incide sulla validità di quello presentato contro la stessa pronunzia dopo l’emanazione della sentenza definitiva, costituendo il primo ricorso un’attività processuale in eccesso che non inficia quella successivamente svolta (Cass. nn. 126/74 e 3514/77; in senso del tutto analogo, Cass. nn. 918/79, S.U. 1498/82, 1676/83, 8606/99, 5282/02, 5967/02, 14319/02, 15643/03 e 17233/10); e, ancora, è stato ritenuto che anche nel rito del lavoro il potere di proporre impugnazione – salva l’ipotesi eccezionale prevista dall’art. 433 c.p.c., comma 2 – richiede che la sentenza sia stata depositata, in quanto solo con tale adempimento il provvedimento assurge a giuridica esistenza nella sua interezza e può costituire oggetto di censure specifiche e motivate; e che, conseguentemente, il ricorso per cassazione avverso il solo dispositivo della sentenza d’appello non consuma il diritto all’impugnazione, per cui resta ammissibile l’ulteriore ricorso tempestivamente proposto avverso la sentenza (v. Cass. nn. 749/82, 4056/85 e 3652/86).
3.4.1. – Il riferimento alla nullità dell’atto introduttivo dell’appello quale fattore impediente il valido esercizio del potere di impugnare, non pare argomento idoneo a escludere l’operatività del principio di consumazione. E ciò per due ragioni.
In primis – come dimostrano i precedenti menzionati – non sempre l’inammissibilità dell’appello dipende dall’invalida introduzione del relativo giudizio, sicchè ben può darsi un appello proposto con atto valido, ma inammissibile in relazione al suo oggetto, e ciò non di meno, stando al citato indirizzo di questa Corte formatosi nei casi di impugnazione ante tempus, riproponibile entro il termine di legge.
In secondo luogo, va osservato che la nullità processuale, se non dichiarata, non sopravvive al giudicato, e dunque non impedisce di per sè l’esercizio efficace dei potere in questione, cui osta proprio e solo la sentenza che rileva la nullità dell’atto propulsivo dell’impugnazione, con pronuncia di tipo (in realtà) costitutivo (non essendo la nullità processuale compatibile con il brocardo per cui quod nullum est nullum producit effectum).
3.5. – Gli artt. 358 e 387 c.p.c. prevedono un effetto sanzionatorio che sarebbe scarsamente giustificabile (nel contesto di un fondamento teorico incerto, come emerso nel dibattito sul progetto preliminare del codice di procedura civile vigente), se non connesso alle sue implicazioni di tipo sistemico. Queste si evidenziano, per quanto concerne il giudizio d’appello, nel collegamento con l’altra norma fondamentale in materia di consumazione del potere d’impugnazione, ossia l’art. 338 c.p.c., secondo cui l’estinzione del procedimento d’appello (o di revocazione nei casi previsti nell’art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5) fa passare in giudicato la sentenza impugnata (salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto).
3.5.1. – Il nesso estinzione/giudicato introduce un ulteriore requisito, che si aggiunge alla dichiarazione d’inammissibilità o improcedibilità dell’appello con sentenza, affinchè operi il principio di consumazione, ossia l’attitudine ai giudicato in senso formale del provvedimento impugnato. Non tanto il carattere sostitutivo della sentenza d’appello (che si apprezza semmai nel caso di riforma), quanto l’aspirazione al giudicato che è propria di ogni decisione di merito, orienta e giustifica la soluzione di sanzionare con la non riproponibilità l’appello inammissibile o improcedibile, non essendo data alla parte soccombente che una possibilità di revisione della sentenza sfavorevole. Questa essendo la scelta legislativa – coerente ad un sistema che tende a favorire la formazione del giudicato, e altresì conforme a ragioni di economia e di ragionevole durata dei giudizi -, la consumazione del potere d’impugnazione per iniziale errore di esercizio o per successiva inerzia si produce solo se il provvedimento impugnato sia suscettibile di giudicato in senso formale, vale a dire ove sia stato perfezionato il procedimento che lo completa nei suoi elementi rendendolo, ad un tempo, appellabile e idoneo a stabilizzarsi tal quale con la mera acquiescenza.
3.5.2. – Se tale procedimento non si è ultimato, non vi è più ragione, nè aggancio positivo per ritenere che, dichiarata l’inammissibilità del primo appello, non sia possibile introdurne un secondo nei termini previsti, contro il medesimo provvedimento che nelle more si sia completato nei suoi presupposti di appellabilità.
Così, nel caso di ordinanza post-istruttoria ante lege n. 263 del 2005, ove l’appello sia stato dichiarato inammissibile per non essersi (validamente) compiuto l’iter procedimentale che rende impugnabile tale provvedimento, è possibile un successivo appello contro il medesimo atto se nel frattempo la parte soccombente abbia rinunciato nelle forme di rito alla pronuncia della sentenza, perchè solo dalla data del deposito della rinuncia notificata l’ordinanza acquista l’efficacia di sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza presentata ai sensi dell’art. 186-quater c.p.c..
3.6. – A tale conclusione non osta, nello specifico, la sentenza emessa dal Tribunale il 13.2.2004, prima dell’emissione della sentenza d’appello oggetto del presente giudizio di legittimità, in esito alla riassunzione del giudizio di primo grado disposta con la prima sentenza della Corte ligure, perchè, al contrario di quanto sostenuto dalla parte controricorrente, tale decisione non ha prodotto alcun giudicato interno, ma si è limitata a dichiarare che la soc. La.De.Ma. aveva formulato una (nuova e questa volta) valida rinuncia alla sentenza.
4. – In conclusione, il ricorso va accolto e, conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Genova, che si atterrà al seguente principio di diritto: “la consumazione del potere d’impugnazione, che ai sensi dell’art. 358 c.p.c. consegue all’appello dichiarato inammissibile o improcedibile, presuppone un provvedimento idoneo al giudicato in senso formale. Pertanto, nel caso d’appello avverso un’ordinanza post-istruttoria emessa ai sensi dell’art. 186-quater c.p.c. nel testo anteriore alla L. n. 263 del 2005, che sia stato dichiarato inammissibile per non essere stata validamente espressa la rinuncia alla sentenza, tale principio non opera, con la conseguenza che è ammissibile il successivo appello proposto contro la medesima ordinanza in relazione alla quale la stessa parte soccombente, nella prosecuzione del giudizio di primo grado, abbia manifestato detta rinuncia nelle forme di rito”.
4.1. – Il giudice di rinvio provvedere anche alle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente giudizio di cassazione ad altra sezione della Corte d’appello di Genova.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 2 dicembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2011