Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.20716 del 31/07/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12830-2015 proposto da:

M.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TIBULLO 10, presso lo studio dell’avvocato GUIDO FIORENTINO, rappresentata e difesa dall’avvocato GIANFRANCO NASUTI giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

B.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato NICOLA DOMENICO PETRACCA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIO NOBERASCO giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 449/2014 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 02/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15/04/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate da entrambe le parti.

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO 1. B.F. conveniva in giudizio M.C. dinanzi al Tribunale di Savona, deducendo di essere proprietaria di un appartamento in *****, e che la convenuta era a sua volta proprietaria di un appartamento sovrastante, posto sotto il tetto di copertura dell’edificio, distinto con il n. int. *****.

Lamentava che la convenuta aveva sfondato la soletta di separazione tra le due unità immobiliari, facendo passare dei tubi di scarico degli impianti a servizio della sua unità immobiliare, invadendo in tal modo la proprietà attorea e provocando lesioni ed infiltrazioni.

Concludeva affinchè, previo accertamento della proprietà della porzione di sottotetto sovrastante la propria unità immobiliare, la convenuta fosse condannata alla rimozione dei tubi di scarico indebitamente collocati nonchè al risarcimento del danno.

Si costituiva la convenuta la quale deduceva di essere esclusiva proprietaria del sottotetto sia per usucapione sia per acquisto a titolo derivativo, evidenziando che le infiltrazioni erano dovute a carente manutenzione del tetto.

Espletata CTU, il Tribunale accertava il nesso di pertinenzialità esistente tra la porzione di sottotetto non abitabile oggetto della domanda attorea e l’unità immobiliare appartenente a quest’ultima, e per l’effetto condannava la convenuta a rimuovere le tubazioni collocate in situ, rigettando le altre richieste della B..

La Corte d’Appello di Genova con la sentenza n. 449 del 2/4/2014, decidendo sul gravame della M., confermava la decisione del Tribunale.

Quanto all’eccezione di carenza di legittimazione passiva della convenuta, posto che l’attrice aveva separatamente agito anche nei confronti del sig. G., suo dante causa, al fine di ottenere la riduzione del prezzo, evidenziava che si trattava di una domanda diversa, e ciò a prescindere dall’identità dei fatti posti a sostegno delle pretese.

Andava poi rigettata la richiesta di accertamento della proprietà per usucapione, in quanto la richieste istruttorie erano state disattese dal Tribunale con ordinanza del 27 giugno 2003, che non era stata specificamente censurata dall’appellante.

In relazione alla richiesta di accertamento del medesimo diritto in base a titoli, rilevava che indipendentemente dal contenuto dei titoli di provenienza della convenuta, nella fattispecie trovava applicazione il principio secondo cui l’attore in rivendica deve provare il suo diritto sino a risalire ad una modalità di acquisto a titolo originario, prova che però non poteva trarsi dai documenti invocati dall’appellante, mancando in altro modo la dimostrazione di un acquisto a titolo originario. Aggiungeva poi che il Tribunale aveva correttamente fatto leva sulla funzione della porzione di immobile oggetto di contesa, così come accertata dal CTU, senza che tali conclusioni potessero essere validamente contrastate nè dalla perizia di parte appellante, che non può tenere luogo del titolo, nè dal tenore della L.R. n. 24 del 2001, art. 2, comma 6, che pur prevedendo il recupero dei sottotetti ad uso abitativo, non può avere rilevanza ai fini dell’individuazione del regime proprietario degli stessi sottotetti.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre M.C. sulla base di quattro motivi.

B.F. resiste con controricorso.

2. Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di parte intimata laddove sostiene che il ricorso sarebbe inammissibile nella pate in cui denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per effetto della previsione di cui all’art. 348 ter c.p.c., posto che tale norma, che preclude in caso di cd. doppia conforme, la deducibilità del detto vizio, opera solo per i ricorsi proposti avverso le sentenze emesse all’esito di giudizi di appello introdotti in data successiva all’11 settembre 2012, giusta la previsione di cui alla L. n. 134 del 2012, art. 54, comma 2, di conversione del D.L. n. 83 del 2012, laddove nel caso di specie il giudizio di appello risultava essere stato introdotto già nel 2006.

Va invece rilevata l’inammissibilità della denuncia del vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che la ricorrente ha fatto riferimento alla vecchia formulazione della norma, in relazione al secondo, al terzo ed al quarto motivo di ricorso, e precisamente alla omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, senza tenere conto che, vertendosi in materia di impugnativa di sentenza pubblicata in data successiva al 12 settembre 2012, la censura di cui al n. 5 andava formulata sulla base della novellata previsione, e con riferimento quindi alla denuncia dell’omessa disamina circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

3. Con il primo motivo di ricorso si denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 81 c.p.c., laddove la Corte d’Appello non ha riconosciuto la carenza di legittimazione passiva della ricorrente, atteso che la stessa attrice aveva agito anche nei confronti del proprio dante causa, tal G..

Il motivo è evidentemente destituito di fondamento, risultando del tutto corretta la valutazione resa sul punto dalla Corte d’Appello, la quale ha sottolineato come, pur avendo le due domande un comune substrato fattuale, quella intentata in questa sede aveva natura dominicale, essendo volta a far accertare la titolarità esclusiva del bene ove sono collocate le tubazioni a servizio dell’appartamento della ricorrente, con il conseguente ordine di riduzione in pristino e la condanna al risarcimento del danno, mentre quella proposta nei confronti del dante causa dell’attrice (di cui peraltro la ricorrente, in violazione del principio di specificità, nemmeno riproduce il contenuto con esattezza) è volta a far valere la garanzia del venditore, e ciò evidentemente nell’eventualità che l’azione intentata nei confronti della M. si fosse rivelata infondata. Trattasi all’evidenza di domande aventi causae petendi assolutamente differenti, a nulla rilevando che in entrambe si richieda il risarcimento dei medesimi danni, essendo nelle stesse tale richiesta supportata da un differente causa giustificativa circa l’asserita responsabilità dei convenuti.

Inoltre, anche laddove si fosse trattato della proposizione della medesima domanda, ma nei confronti di due convenuti diversi, non per questo da ciò scaturirebbe il difetto di legittimazione passiva in capo alla convenuta, essendo in ogni caso il giudice chiamato a verificare chi tra i due convenuti sia l’effettivo destinatario della pretesa azionata in giudizio.

4. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 948 c.c., per avere la Corte d’Appello qualificato la domanda proposta in via riconvenzionale dalla convenuta, e volta ad accertare la proprietà dell’area oggetto di causa, come domanda di revindica, con la conseguente violazione dell’art. 2697 c.c., avendo imposto a carico della stessa ricorrente il ben più rigoroso onere della prova previsto per tale azione.

Depurato il motivo del riferimento al vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, alla luce di quanto sopra evidenziato, la censura sottolinea come in realtà la domanda proposta sia quella di accertamento della mera proprietà, e non di revindica, con la conseguenza che in tal caso, non poteva esigersi la cd. probatio diabolica, atteso che la stessa può essere imposta, nel caso di accertamento della proprietà, solo laddove chi agisce non abbia anche il possesso del bene.

Nella fattispecie, il passaggio delle tubazioni a servizio del proprio appartamento nella porzione di sottotetto, impone di ritenere che la prova della proprietà non richieda il rigore imposto dall’art. 948 c.c..

Una volta esclusa la possibilità di valutare la censura quanto alla rilevanza probatoria della perizia di parte prodotta in corso di causa, che si fonda nella sostanza sulla lettura ed interpretazione ad opera del perito dei titoli di provenienza, che il giudice di appello ha ritenuto di per se soli inidonei ad offrire la prova rigorosa richiesta a mente dell’art. 948 c.c., atteso che in parte qua il motivo si riconduce alla denuncia del vizio di motivazione, come detto non validamente formulato in questa sede, deve escludersi altresì che ricorra la lamentata violazione di legge.

Ed, infatti, ritenuto che la formulazione del motivo di appello vertente sull’idoneità della prova per titoli a dimostrare la intervenuta acquisizione del diritto di proprietà del bene oggetto di causa, investiva di riflesso anche la correttezza della qualificazione della domanda avanzata dalla convenuta quale domanda di revindica ovvero di accertamento della proprietà, reputa il Collegio che, anche a voler accedere alla tesi secondo cui in realtà nella fattispecie si verterebbe nella seconda ipotesi, non può reputarsi che la decisione gravata abbia fatto erronea applicazione delle regole in tema di onere della prova e dei requisiti necessari per l’accertamento del diritto di proprietà.

In tal senso, effettivamente corrisponde alla giurisprudenza di questa Corte il principio richiamato dalla difesa della ricorrente secondo cui (cfr. Cass. n. 1650/1994) solo se l’attore che proponga una domanda di accertamento della proprietà non ha il possesso della cosa oggetto del preteso diritto, ha l’onere di offrire la stessa prova rigorosa richiesta per la revindica, perchè spiega azione a contenuto petitorio, tesa al conseguimento di una pronuncia giudiziale utilizzabile per il conseguimento della consegna della cosa da parte di chi la possiede o la detiene (conf. Cass. n. 12300/1997; Cass. n. 7894/2000 che appunto chiarisce come, nel caso in cui l’attore abbia il possesso della cosa, si attenua il rigore probatorio, in quanto l’azione di accertamento tende non già alla modifica di uno stato di fatto, ma solo alla eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l’attore è già investito; Cass. n. 7777/2005).

E’ pur vero che a tale soluzione si contrappone un più recente orientamento, che traendo le conseguenze dall’intervento delle Sezioni Unite, che ha dettato i criteri per distinguere tra azione di revindica ed azioni personali di restituzione (Cass. S.U. n. 7305/2014) ha ritenuto in maniera ben più rigorosa di affermare la regola secondo cui (cfr. Cass. n. 1210/2017) colui il quale agisca per ottenere il mero accertamento della proprietà o comproprietà di un bene, anche unicamente per eliminare uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto esercitato sullo stesso, è tenuto, al pari che per l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c., alla probatio diabolica della titolarità del proprio diritto, trattandosi di onere da assolvere ogni volta che sia proposta un’azione, inclusa quella di accertamento, che fonda sul diritto di proprietà tutelato “erga omnes”, sicchè aderendo a tale ultima opinione, la sentenza gravata risulterebbe avere fatto corretta applicazione anche al caso sottoposto al suo esame della necessità dell’accertamento rigoroso del diritto di proprietà.

Va però evidenziato che, anche volendo restare ancorati alla richiamata distinzione, all’interno dell’azione di accertamento della proprietà, legata alla situazione di possesso vantata dall’attore, appare del tutto condivisibile l’opinione secondo cui (cfr. Cass. n. 30606/2011) ove l’attore proponga una domanda di accertamento della proprietà ed abbia la materiale disponibilità della cosa oggetto del preteso diritto, in virtù di un possesso acquistato con violenza o clandestinità, ovvero sulla cui legittimità sussista uno stato di obiettiva e seria incertezza, in relazione alle particolarità del caso concreto, ha l’onere di offrire la stessa prova rigorosa richiesta per la rivendica, non ricorrendo in tali ipotesi la presunzione di legittimità del possesso, che giustifica l’attenuazione del rigore probatorio qualora l’azione di accertamento della proprietà sia proposta da colui che sia nel possesso del bene.

Orbene, avuto riguardo a tale ulteriore precisazione, che il Collegio reputa di condividere, va ritenuto che, in relazione alla fattispecie in esame, sia corretta la soluzione del giudice di appello che ha esatto anche in tal caso la prova della proprietà con il rigore imposto dall’art. 948 c.c..

In tal senso rilevano gli accertamenti in fatto compiuti anche a mezzo di CTU, che già avevano indotto il Tribunale ad attribuire alla porzione di “sottotetto” oggetto di causa carattere pertinenziale rispetto all’abitazione dell’attrice, che trovano peraltro riscontro nella stessa descrizione dei luoghi, quale emergente dalle relazioni tecniche che sono state integralmente riprodotte nel corpo del ricorso.

In tal senso l’ausiliario nominato in primo grado aveva evidenziato che le tubature di cui era stata chiesta la rimozione, e poste a servizio dell’unità immobiliare della ricorrente, erano collocate in una porzione immobiliare posizionata tra il solaio che divide gli appartamenti delle due parti in causa (essendo quello dell’attrice sottoposto a quello della convenuta) ed il controsoffitto, essendosi dato atto che in precedenza esisteva un cannicciato che era stato in parte rimosso, essendo dato accedere a tale porzione solo da una botola creata nella controsoffittatura dell’appartamento sottostante.

Risulta quindi pacifico che le tubazioni sono collocate in una zona posta al di sotto del solaio che funge da separazione tra i due appartamenti, e che le stesse e la zona che occupano siano chiuse da una struttura che funge da controsoffitto, e dalla quale unicamente, e tramite una botola, si accede alla porzione in contestazione.

Ebbene, proprio alla luce di tale situazione in fatto, così come accertata in sede di merito, e che non appare contraddetta dalla ricorrente, se non con il richiamo alla diversa valenza che assumerebbero i propri titoli di provenienza, va richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 15048/2018) in tema di piani sovrapposti di un edificio appartenente a proprietari diversi, gli spazi pieni o vuoti che accedono al soffitto o al pavimento e non sono essenziali alla struttura divisoria restano esclusi dalla comunione e sono utilizzabili rispettivamente da ciascun proprietario nell’esercizio del suo pieno ed esclusivo diritto dominicale, ben potendo il possesso su di essi essere mantenuto “solo animo” (nella specie, la Corte ha escluso la natura condominiale dello spazio vuoto esistente fra il solaio ed il controsoffitto e ha ritenuto che il proprietario dell’appartamento sovrastante, collocando al di sotto degli assi di sostegno delle travi del suo pavimento dei tubi e delle condutture, avesse compiuto uno spoglio in danno del possesso esercitato “solo animo” dal proprietario dell’immobile sottostante).

In senso conforme Cass. n. 2868/1978, a mente della quale il solaio esistente fra i piani sovrapposti di un edificio è oggetto di comunione fra i rispettivi proprietari per la parte strutturale che, incorporata ai muri perimetrali, assolve alla duplice funzione di sostegno del piano superiore e di copertura di quello inferiore, mentre gli spazi pieni o vuoti che accedano al soffitto od al pavimento, e non siano essenziali all’indicata struttura (nella specie, conglomerato cementizio per sottofondo di pavimentazione e protezione termica), rimangono esclusi dalla comunione e sono utilizzabili rispettivamente da ciascun proprietario nell’esercizio del suo pieno ed esclusivo diritto dominicale (conf. Cass. n. 3715/1976 secondo cui, ferma restando la natura comune del solaio che divide due piani di un edificio, resta escluso che tra il soffitto del piano inferiore e il pavimento del piano superiore possano esistere altre opere le quali non facciano parte del solaio e delle quali occorra quindi accertare di volta in volta la destinazione, al fine di stabilire a chi appartengano, essendosi quindi escluso che potesse ritenersi bene in proprietà comune una intercapedine costruita per aerare un locale dell’appartamento sottostante e nascondere un tubo di scarico passante sotto il pavimento dell’appartamento sovrastante; conf. Cass. n. 392/1975).

Ne deriva che una volta attribuita la funzione di copertura e di sostegno al solaio, che segna quindi la delimitazione tra le due unità immobiliari sovrapposte, lo spazio oggetto di causa deve ritenersi parte integrante dell’unità immobiliare dell’attrice, essendosi peraltro ritenuto che l’eventuale apposizione di tubazioni in tale parte ad opera del proprietario dell’immobile posto a livello superiore possa anche concretare uno spoglio, e deve anche reputarsi che vi sia una seria ed obiettiva incertezza circa la legittimità del possesso esercitato dalla ricorrente tramite l’attraversamento della tubazione a servizio del suo appartamento, con l’effetto che si imponga anche in tale ipotesi, ed ancorchè si verta in tema di azione di accertamento della proprietà, il rigore probatorio imposto dall’art. 948 c.c..

5. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 342 e 346 c.p.c., artt. 1158,1159 c.c. e art. 1146 c.c., comma 2, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per avere la Corte d’Appello rigettato la domanda riconvenzionale di usucapione. Ribadita l’inammissibilità della censura nella parte in cui fa riferimento al vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la doglianza investe la conclusione secondo cui la domanda di usucapione doveva essere rigettata per non avere la parte provato il proprio assunto.

Si deduce che la sentenza gravata ha riduttivamente risolto la questione evidenziando che le richieste istruttorie, pur formulate in primo grado, non erano state però reiterate in appello, trascurando però di considerare che la convenuta a pag. 10 dell’appello aveva rinnovato le istanze istruttorie, riproducendo poi i singoli capitoli di prova alle successive pagg. 11 e 12.

Va immediatamente disattesa la censura nella parte in cui si deduce che la prova del possesso utile ad usucapire, anche tramite accessione, deriverebbe dalla sola produzione dei vari titoli di provenienza, essendo tale affermazione fondata sull’erroneo presupposto che il possesso, che è una situazione di fatto, sarebbe dimostrata sulla sola scorta dei titoli di acquisto, laddove i giudici di merito hanno correttamente ribadito che la convenuta, stante la mancata ammissione delle prove, non aveva dimostralo l’esercizio di un potere di fatto sulla cosa che si pretende di usucapire.

Quanto invece alla doglianza specificamente rivolta avverso la mancata ammissione delle prove, va evidenziato che la Corte d’Appello ha sottolineato che le richieste di prova erano state già disattese dal giudice di prime cure con ordinanza del 27/6/2003, che non era stata specificamente censurata dalla difesa dell’appellante, la quale in questa sede intende sostenere l’erroneità della decisione gravata che non avrebbe invece considerato che le richieste di prova erano state reiterate nell’atto di appello.

Vanno a tal fine richiamati i tradizionali principi di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 25157/2008) la parte che si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni, poichè, diversamente, le stesse dovranno ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in appello (conf. Cass. n. 19352/2017, precisandosi che tale onere di riproposizione non può reputarsi assolto attraverso il richiamo generico al contenuto dei precedenti atti difensivi, atteso che la precisazione delle conclusioni deve avvenire in modo specifico, coerentemente con la funzione sua propria di delineare con precisione il “thema” sottoposto al giudice e di porre la controparte nella condizione di prendere posizione in ordine alle sole richieste – istruttorie e di merito definitivamente proposte; Cass. n. 16290/2016).

In assenza di allegazione circa il fatto che, pur a seguito del diniego di ammissione delle prove con la menzionata ordinanza istruttoria, la ricorrente avesse reiterato le stesse in sede di conclusioni, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei sopra esposti principi, avendo infatti ribadito che l’eventuale riproposizione in appello dei mezzi di prova non poteva supplire alla mancata reiterazione della relativa richiesta anche in sede di conclusioni in primo grado.

Anche tale motivo deve essere quindi disatteso.

6. Il quarto motivo lamenta poi la violazione dell’art. 817 c.c. e della L.R. Liguria n. 24 del 2001, art. 6 (rectius art. 2, comma 6), nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, per avere i giudici di merito attribuito all’attrice la proprietà della porzione immobiliare oggetto di causa.

Anche tale censura va disattesa.

Ed, infatti ribadita l’inapplicabilità al caso di specie della giurisprudenza in tema di sottotetti posti tra la copertura del fabbricato e l’unità immobiliare posta all’ultimo piano, vertendosi come già sottolineato invece in tema di spazio esistente al di sotto del solaio che assicura la divisione tra due appartamenti sovrapposti, la doglianza ripropone la tesi circa il fatto che la proprietà del bene spetterebbe alla ricorrente in base ai titoli, affermazione la cui infondatezza è stata già illustrata in occasione dell’esposizione dei motivi che precedono.

Da tale conclusione deriva altresì che alcuna rilevanza può avere l’invocata legge regionale in tema di recupero a fini abitativi dei sottotetti che attiene alla sola possibilità di mutare la destinazione urbanistica di tali porzioni immobiliari, ma che evidentemente non incide sul regime proprietario, che va individuato sulla base delle regole del diritto civile, che come sopra evidenziato depongono, in mancanza della prova dell’acquisto della proprietà da parte della convenuta, secondo i requisiti imposti dall’art. 948 c.c., per l’appartenenza della porzione immobiliare in esame in capo all’attrice.

7. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

8. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2019

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