Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.23760 del 24/09/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare G. – rel. Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13743/2018 proposto da:

S.M., domiciliato in Roma, piazza Cavour presso la Cancelleria civile della Corte di Cassazione rappresentato e difeso dall’avv. Paola Colombo in forza di procura speciale allagata al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 773/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 04/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 28/05/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, S.M. cittadino del Bangladesh, ha impugnato dinanzi al Tribunale di Firenze la decisione negativa della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Firenze, chiedendo il riconoscimento della protezione internazionale principale, sussidiaria o umanitaria.

Il richiedente aveva narrato di aver lasciato il proprio paese nel 2013 in seguito a una grave faida familiare, scoppiata per motivi ereditari, in occasione della quale il padre era stato aggredito e reso invalido e non autosufficiente, mentre le autorità locali non avevano fornito adeguata protezione.

Il Tribunale di Firenze aveva respinto la domanda, ritenendo che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione internazionale, anche umanitaria.

2. L’appello proposto dal S. è stato rigettato dalla Corte di appello di Firenze, con la compensazione delle spese di lite e con revoca del beneficio dell’ammissione al patrocinio statuale con sentenza del 4/4/2018.

3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso S.M., con atto notificato il 6/5/2018, svolgendo dieci motivi.

L’intimata Amministrazione dell’Interno non si è costituita in giudizio.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 1, art. 2, lett. b), art. 10 Cost., comma 3 e del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 16, nonchè omesso esame di fatti decisivi del giudizio.

1.1. Il ricorrente formula una premessa di carattere generale sugli istituti che vengono in considerazione, assumendo che scopo di questo lavoro fosse quello di riepilogare talune questioni e dubbi interpretativi, soprattutto processuali, emersi nei primi anni di applicazione dell’istituto presso il Tribunale di Milano.

Il motivo, al di là dell’enunciazione di alcune norme asseritamente violate (alcune delle quali palesemente inconferenti, come il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 16), si limita ad asserzioni e considerazioni del tutto generali, completamente avulse dalla fattispecie concreta e apparentemente estratte da uno studio scientifico dedicato alle prassi e agli orientamenti interpretativi del Tribunale di Milano; di conseguenza il motivo, privo di qualsiasi specificità e pertinenza, è palesemente inammissibile.

2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia nullità del verbale di audizione di fronte alla Commissione territoriale di Firenze per omesso avviso al difensore, con violazione dell’art. 111 Cost., D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, commi 4 e 9 e art. 8, comma 3.

2.1. Tanto premesso, il ricorrente fa seguire una illustrazione della normativa del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 e della prassi del Tribunale di Milano.

L’unico aspetto della censura sollevata che non incorre nel vizio descritto nel capo precedente relativo al primo motivo è quello attinente alla doglianza relativa all’omesso avviso al difensore in occasione dell’audizione di fronte alla Commissione territoriale di Firenze.

2.2. A prescindere dal fatto che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 13, comma 4 e art. 16, consentono al richiedente asilo di essere assistito da un difensore ma non prevedono alcun avviso a costui da parte della Commissione procedente, appare dirimente il rilievo che il ricorrente non ha proposto alcuna doglianza al proposito nè con il ricorso in primo grado, nè con l’atto di appello.

3. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente denuncia illegittimità della revoca in appello dell’ammissione al Gratuito Patrocinio (rectius: patrocinio a spese dello Stato).

Il Giudice avrebbe dovuto procedere d’ufficio alle integrazioni istruttorie che non si potevano pretendere dall’appellante.

Le censure sono del tutto generiche e immotivate, in parte in conferenti e comunque prive di attinenza alla concreta fattispecie.

4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce illegittimità del procedimento di primo grado concluso con ordinanza e non con sentenza come previsto dalla normativa e violazione della L. n. 69 del 2009.

Non è agevolmente comprensibile la ragione per cui secondo il ricorrente il procedimento di primo grado non si sarebbe dovuto concludere con ordinanza, come prescritto dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, nè il pregiudizio che ne sarebbe eventualmente conseguito; peraltro il ricorrente non ha proposto alcuna doglianza al proposito con il suo atto di appello.

5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 10 Cost., facendo seguire una serie di considerazioni generali sugli istituti dell’asilo costituzionale e del permesso di soggiorno per motivi umanitari, riferite alle opinioni dottrinali e alle prassi interpretative milanesi.

La censura è del tutto priva di pertinenza e specificità.

In ogni caso, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, ed al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, cosicchè non v’è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3 (Sez. 6, 04/08/2016, n. 16362).

6. Con il sesto motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omesso esame di fatto decisivo con riferimento al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 4 e 32 e dell’art. 97 Cost..

Nel caso in questione non sarebbero stati rispettati i requisiti di deliberazione delle Commissioni territoriali perchè il provvedimento impugnato era stato redatto e sottoscritto dal solo Presidente, con conseguente nullità assoluta, tanto più che non risultava neppure che al Presidente fosse stato attribuito il compito di stendere la motivazione e mancava la firma del segretario.

Le censure svolte difettano di specificità perchè non danno conto del contenuto dei documenti ai quali si riferiscono; non sono state fatte valere con apposite deduzioni in primo grado e con specifici motivi di appello in secondo grado; sono comunque del tutto irrilevanti perchè, a seguito della proposizione del ricorso viene ad instaurarsi un giudizio di ordinaria e piena cognizione, di natura non impugnatoria, avente per oggetto la sussistenza del diritto alla protezione internazionale, principale o sussidiaria, ovvero umanitaria.

Questa Corte ha più volte ribadito che la nullità del provvedimento amministrativo di diniego della protezione internazionale non ha autonoma rilevanza nel giudizio introdotto con ricorso al Tribunale avverso il suddetto provvedimento in quanto tale giudizio non ha per oggetto il provvedimento stesso, ma il diritto soggettivo del ricorrente alla protezione invocata (Sez. 6, 08/06/2016, n. 11754).

7. Con il settimo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omesso esame di fatto decisivo.

Richiamati i principi generali che regolano la materia e alcune pronunce giudiziarie, il ricorrente sostiene che il provvedimento della Commissione territoriale era incentrato sulle perplessità del relatore e non affrontava i punti specifici della richiesta. Bisognava poi intendersi sul concetto di persecuzione.

Il motivo è privo di ogni specificità e comunque svolge, per le ragioni sopra esposte nel paragrafo precedente, considerazioni del tutto irrilevanti, in quanto dedicate esclusivamente al provvedimento della Commissione territoriale.

8. Con l’ottavo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omesso esame di fatto decisivo con riferimento al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 14, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), b), c), artt. 4, 5 e 19.

8.1. Il ricorrente lamenta che la Commissione Territoriale aveva omesso di tener conto delle circostanze sottoposte dal sig. S. al suo vaglio circa la faida familiare a cui era stato esposto; il verbale non presentava le caratteristiche sufficienti di un completo ed esaustivo colloquio; le domande formulate erano generiche e non approfondite, impedendo l’effettiva collaborazione del richiedente.

Vale al proposito il richiamo di quanto esposto nei due paragrafi precedenti.

8.2. Il ricorrente osserva che il Giudice doveva verificare d’ufficio le condizioni di persecuzione nel Paese di provenienza, con notazione palesemente generica e comunque del tutto estranea alla concreta prospettazione dei fatti da lui narrati e dedotti in giudizio.

8.3. Il ricorrente aggiunge che la possibilità del richiedente asilo di trasferirsi in altra zona del Senegal più sicura era irrilevante nel nostro ordinamento alla luce di quanto disposto dall’art. 8 della dir.2004/83/CE, in termini di rilevanza settoriale della situazione di pericolo nel Paese di origine in termini di mera facoltà non recepita dalla legislazione nazionale italiana.

L’affermazione del tutto esulante dai temi trattati e dalla fattispecie a giudizio sembra il frutto di un mero refuso per inserzione di testo in conferente riferibile probabilmente ad altra vicenda.

9. Con il nono motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omesso esame di fatto decisivo con riferimento alla violazione del diritto di difesa per omessa traduzione della sentenza di primo grado e della sentenza di appello, non tradotti in lingua nota al richiedente, analfabeta.

Inoltre al ricorrente doveva essere riconosciuto il diritto di asilo ai sensi dell’art. 10 Cost., comma 3.

9.1. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di protezione internazionale, l’obbligo di tradurre gli atti relativi alle fasi impugnatorie davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, costituisce uno strumento di tutela apprestato dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 10, comma 5, al fine di assicurare all’interessato-richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione.

In vari arresti giurisprudenziali (peraltro tutti relativi a fattispecie concrete in cui il ricorrente lamentava la mancata traduzione del provvedimento della Commissione territoriale e non la mancata traduzione dei provvedimenti giurisdizionali) è stato ricordato da questa Corte che il giudizio in questione ha ad oggetto non il provvedimento in sè della Commissione bensì la sussistenza del diritto alla protezione internazionale; di conseguenza, la violazione degli obblighi di traduzione (al pari di quello di consegna di copia autentica) del provvedimento non rileva di per sè, bensì solo nella misura in cui abbia prodotto una lesione all’esercizio del diritto di difesa del richiedente; pertanto la parte che censura la decisione che non si sia attenuta all’osservanza di tale obbligo, deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un vulnus all’esercizio del diritto di difesa incidendo sulla correttezza del provvedimento finale, non potendosi genericamente denunciare la mancata osservanza della norma relativa all’obbligo di traduzione (Sez. 6-1, n. 11295 del 26/04/2019, Rv. 653483-01; Sez. 6 – 1, n. 24543 del 21/11/2011, Rv. 620578 – 01; Sez. 6-1, n. 11871 del 27/05/2014, Rv. 631323 01).

9.2. Come si è osservato, tuttavia, tali pronunce non riguardano l’ipotesi rappresentata dal ricorrente, che si duole proprio della mancata traduzione della decisione giurisdizionale di primo grado (che comunque avrebbe dovuto esser fatta valere con l’appello) e di quella di appello, oggetto di impugnazione in questa sede.

Il Collegio ritiene che il D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 10, comma 5, non possa essere interpretato nel senso di prevedere, fra le misure di garanzia a favore del richiedente la protezione internazionale, anche la traduzione in lingua nota del provvedimento giurisdizionale decisorio che definisce le singole fasi del giudizio.

La disposizione citata prevede che in caso di impugnazione della decisione in sede giurisdizionale, allo straniero, durante lo svolgimento del relativo giudizio, sono assicurate le stesse garanzie di cui al presente articolo (l’art. 10).

Anche a prescindere dall’argomento testuale, che riferisce la previsione all’ambito endo-procedimentale (“…durante lo svolgimento…”), di per sè non decisivo, occorre rilevare che il comma precedente (il quarto) dello stesso articolo, dedicato appunto alla garanzia linguistica, prevede che tutte le comunicazioni concernenti il procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale siano rese al richiedente nella prima lingua da lui indicata, o, se ciò non è possibile, in lingua inglese, francese, spagnola o araba, secondo la preferenza indicata dall’interessato.

E’ inoltre previsto che in tutte le fasi del procedimento connesse alla presentazione ed all’esame della domanda, al richiedente sia garantita, se necessario, l’assistenza di un interprete della sua lingua o di altra lingua a lui comprensibile.

Infine è prevista, ove necessaria, la traduzione della documentazione prodotta dal richiedente in ogni fase della procedura.

La garanzia linguistica è quindi assicurata a) per le comunicazioni, preordinate ad assicurare la partecipazione del richiedente, b) per tutte le interlocuzioni connesse alla presentazione ed all’esame della domanda, imponendo pertanto l’assistenza dell’interprete in caso di contatto diretto fra la parte e il Giudice in modo da acquisire al processo un contributo dichiarativo informato e consapevole da parte del richiedente asilo (interrogatorio libero, spontanee dichiarazioni, rinnovo o integrazione del colloquio personale), con l’introduzione di una regola più ampia e protettiva di quella sancita in via generale dall’art. 122 c.p.c., comma 2, ed infine c) per le produzioni documentali, anche in questo caso introducendo una deroga al regime discrezionale di cui all’art. 123 c.p.c..

Il combinato disposto dei commi 4 e 5 dell’art. 10 non impone quindi la traduzione in lingua nota al richiedente asilo del provvedimento giurisdizionale con cui il giudice adito definisce il grado del giudizio avanti a lui.

E ciò ben si comprende, ove si rifletta sul fatto che un pregiudizio scaturente dalla mancata traduzione in lingua nota dei provvedimenti giurisdizionali non sarebbe comunque configurabile, neppure in linea di principio.

Infatti il richiedente asilo, ricorrente in sede giurisdizionale, partecipa al giudizio con il ministero e l’assistenza tecnica di un difensore abilitato, se del caso retribuito dall’Erario attraverso il sistema del patrocinio statuale, perfettamente in grado di comprendere e spiegare al proprio cliente nell’ambito della relazione difensiva (e tenuto a farlo per obbligo professionale), i contenuti, la portata e le conseguenze delle pronunce giurisdizionali che lo riguardano.

E, d’altro canto, anche in linea generale, nel nostro ordinamento processuale la decisione che definisce il grado di giudizio viene comunicata, normalmente in via telematica, al difensore della parte regolarmente costituita, a cui pure deve essere indirizzata la notificazione dello stesso provvedimento al fine di provocare la decorrenza del termine “breve” per l’impugnazione ai sensi dell’art. 327 c.p.c..

9.4. Quanto alla seconda doglianza, del tutto generica, giova il richiamo a quanto esposto nel p. 5.

10. Con il decimo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omesso esame di fatto decisivo con riferimento al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, poichè sussistevano seri motivi giustificativi per il rilascio di un permesso per motivi umanitari.

La censura è totalmente generica e non affronta – e tantomeno confuta – le specifiche ragioni addotte dalla Corte territoriale (assenza di deduzione di specifici fattori di vulnerabilità soggettiva; assenza di collegamenti attuali con il territorio italiano; buone condizioni di salute, famiglia rimasta nel territorio del Bangladesh).

11. Il ricorso deve quindi essere rigettato.

Nulla sulle spese in difetto di costituzione dell’Amministrazione.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 28 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2019

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