Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.23793 del 24/09/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16296/2015 proposto da:

SVILUPPO ITALIA CALABRIA S.C.P.A., IN LIQUIDAZIONE, in persona del Liquidatore e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20 presso lo studio dell’Avvocato ANDREA DE VIVO (STUDIO PIACCI DE VIVO PETRACCA), che la rappresenta e difende.

– ricorrente –

contro

D.L.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SAN NICOLA DA TOLENTINO 50, presso lo studio dell’Avvocato MASSIMO VETROMILE RICCIULLI, rappresentata e difesa dall’Avvocato VINCENZO ARANGO.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1447/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 16/12/2014 R.G.N. 1360/2011;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.

RILEVATO

che:

1. La Corte di appello di Catanzaro, con la sentenza n. 1447 del 2014, in riforma della pronuncia n. 589/2001 resa dal Tribunale di Cosenza, ha accertato e dichiarato che tra D.L.R. e Sviluppo Italia Calabria scpa era intercorso un rapporto di lavoro subordinato dal 3.10.2000; ha ordinato alla società la ricostituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato illegittimamente interrotto, con inquadramento della lavoratrice nel livello retributivo relativo alle mansioni svolte e con condanna al pagamento delle differenze retributive tra quanto percepito e quanto dovuto in applicazione del contratto collettivo applicabile al rapporto, oltre alla regolarizzazione previdenziale ed assistenziale; ha condannato, infine, la Sviluppo Italia Calabria scpa al pagamento, sempre in favore della lavoratrice, di una indennità onnicomprensiva pari a n. 10 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.

2. In sintesi, i giudici di seconde cure, respinta la istanza di chiamata in causa di altra Società (Settingiano Sviluppo scarl) perchè formulata solo in appello, hanno ritenuto che già con riferimento al primo contratto di lavoro del 3.10.2000, intercorso tra le parti, formalmente qualificato come autonomo (contratto di collaborazione, coordinata e continuativa a progetto), fosse emersa, dalla istruttoria espletata, la sussistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata; inoltre, hanno precisato che la avvenuta cessione del ramo di azienda del settore di attività ove era impiegata la D.L., dallo Sviluppo Italia Calabria scpa alla Settingiano Sviluppo scarl, era irrilevante in applicazione delle garanzie previste in favore del lavoratore ex art. 2112 c.c. e che, pertanto, spettavano le tutele come sopra evidenziate, sia in ordine al ripristino del rapporto di lavoro sia di tipo economico (differenze retributive) e risarcitorio (indennità L. n. 183 del 2010, ex art. 32).

3. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la Sviluppo Italia Calabria scpa in liquidazione affidato a cinque motivi, illustrati con memoria.

4. Ha resistito con controricorso D.L.R..

5. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.

CONSIDERATO

che:

1. Con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura: 1) la violazione e falsa applicazione di legge, in relazione all’art. 132 c.p.c., art. 112 c.p.c., art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c.; l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, la sussistenza del giudicato interno sulla parte della sentenza di primo grado relativa alla dichiarazione di nullità della domanda di differenze retributive, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere la Corte territoriale condannato la Sviluppo Italia Calabria scpa al pagamento, in favore della lavoratrice, delle differenze retributive tra quanto percepito e quanto dovuto in applicazione del contratto collettivo applicabile al rapporto, oltre che al versamento dei prescritti contributi previdenziali ed assistenziali, nonostante la D.L. non avesse formulato alcuna contestazione specifica relativa alla parte della sentenza del Tribunale di Cosenza che aveva rigettato tale domanda; 2) la violazione e falsa applicazione di legge, in relazione agli artt. 156,414 e 421 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte di merito, accogliendo la domanda di accertamento e di dichiarazione della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti sin dal 3.10.2010, implicitamente rigettato le eccezioni di nullità e di infondatezza del ricorso introduttivo per la mancata determinazione dell’oggetto della domanda, per la mancata esposizione degli elementi di fatto e di diritto su cui si fondava nonchè per l’assenza della indicazione specifica dei mezzi di prova di cui avvalersi; 3) la violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 156 e 434 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere errato la Corte territoriale nel ritenere correttamente formulato il ricorso in appello della lavoratrice che, invece, era stato proposto in violazione dell’art. 434 c.p.c.; 4) la violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 e 132 c.p.c., nonchè degli artt. 2094,222 e 2697 c.c.; l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere erroneamente ritenuto la Corte di merito accertate e provate le condizioni idonee a ravvisare un rapporto di lavoro di natura subordinata tra le parti sin dal 3.10.2000; 5) in subordine, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non avere i giudici di seconde cure applicato la citata norma, introdotta dal D.L. n. 112 del 2008, art. 21, come modificato dalla Legge di Conversione n. 133 del 2008, che prevede la quantificazione, per la violazione in materia di apposizione e di proroga del termine alla durata del contratto di lavoro subordinato, di una indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. n. 604 del 1966, art. 8 e succ. modificazioni.

2. Il primo motivo è inammissibile.

3. Con esso si deduce la violazione del giudicato interno formatosi tra il primo e il secondo grado per non avere la D.L. specificamente impugnato la statuizione – che si assume emessa dal primo giudice recante la declaratoria di nullità, per genericità, della domanda di condanna al pagamento delle differenze retributive.

4. Se è vero che la Corte di cassazione, allorquando sia denunciato un error in procedendo, è anche giudice del fatto e ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa, è altresì vero che, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, in esatto adempimento degli oneri di cui all’art. 366 c.p.c., tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Cass. n. 2771 del 2017, n. 1170 del 2004).

5. Più recentemente, è stato affermato che, in tema di giudicato interno, ai fini della verifica dell’avvenuta impugnazione, o meno, di una statuizione contenuta nella sentenza di primo grado, questa Corte non è vincolata all’interpretazione compiuta dal giudice di appello, ma ha il potere-dovere di valutare direttamente gli atti processuali per stabilire se, rispetto alla questione su cui si sarebbe formato il giudicato, la funzione giurisdizionale si sia esaurita per effetto della mancata devoluzione della questione nel giudizio di appello, con conseguente preclusione di ogni esame della stessa, purchè il ricorrente non solo deduca di aver ritualmente impugnato la statuizione, ma – per il principio di cui all’art. 366 c.p.c., indichi elementi e riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il contenuto dell’atto di appello a questo preciso proposito, non essendo tale vizio rilevabile “ex officio” (Cass. n. 7499 del 2019).

6. Nel caso in esame, parte ricorrente omette completamente di riportare nell’atto di impugnazione, almeno nelle parti salienti, i motivi dell’appello proposto dalla D.L.. In difetto di tali indicazioni (art. 366 c.p.c., n. 3) non è possibile per questo Giudice di legittimità vagliare la fondatezza della censura.

7. Anche il secondo motivo è inammissibile.

8. La sentenza dà atto che il giudice di primo grado aveva respinto la domanda nel merito, ritenendo così superata l’eccezione di nullità, che non risulta essere stata riproposta con appello incidentale.

9. Nel processo del lavoro, la mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda è causa di nullità del ricorso introduttivo, che, ove non rilevata dal giudice di primo grado, è soggetta alla regola generale della conversione in motivi di impugnazione ex art. 161 c.p.c., comma 1, con onere del convenuto di impugnare la decisione anche con riguardo alla pronuncia, implicita, sulla validità dell’atto, e nella cui assenza la dichiarazione officiosa di nullità e inammissibilità della domanda da parte del giudice di appello dà luogo al vizio di ultrapetizione (Cass. n. 12746 del 2008).

10. Quanto al terzo motivo, si censura la sentenza per error in iudicando (art. 360 c.p.c., n. 3), ma senza evidenziare i motivi per i quali la Corte di appello avrebbe errato nell’interpretare o applicare alla fattispecie la disciplina di cui all’art. 434 c.p.c..

11. Ove poi i due motivi di ricorso dovessero essere interpretati come diretti a denunciare un error in procedendo (censura che peraltro non risulta correttamente formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4), se ne dovrebbe rilevare parimenti l’inammissibilità, perchè il ricorso per cassazione si risolve in una mera asserzione senza neppure porre a raffronto la sentenza di primo grado e il contenuto dei motivi di appello.

12. Con riguardo alla denunciata erronea applicazione dell’art. 2094 c.c. e dell’art. 2697 c.c., in ordine alla prova dei fatti costitutivi del diritto, l’odierna ricorrente, sotto l’apparente veste dell’error in iudicando, tende a contestare la ricostruzione della vicenda accreditata dalla sentenza impugnata. In proposito, giova ribadire che il vizio di falsa applicazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n. 7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’, dunque, inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.

13. Quanto poi alla denunciata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., va osservato che, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento delle citate norme processuali, opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità. La denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito è configurabile come un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 (cfr. Cass. n. 23940 del 2017).

14. In relazione al vizio denunciato nei termini di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va rilevato che esso, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, è invocabile nella sola ipotesi in cui sia stato omesso l’esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. S.U. n. 8053/2014).

15. Nel caso in esame, la censura di omesso esame di un fatto decisivo si risolve, invece, in una inammissibile richiesta di rivalutazione del merito della causa.

16. Il quinto motivo, infine, proposto in via subordinata, è infondato.

17. L’invocato del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 4 bis, introdotto dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 21, come modificato dalla Legge di Conversione n. 133 del 2008, di cui si è lamentata la non applicazione da parte dei giudici del merito, è stata dichiarato incostituzionale dalla Corte Cost. con sentenza n. 214 dell’8.7.2009 e, quindi, gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato incostituzionalmente illegittimo (cfr. ex aliis Cass. n. 16450/2006), per cui correttamente non è stata presa in considerazione dalla Corte territoriale al momento della decisione.

18. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

19. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.

20. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, sempre come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 20 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2019

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