LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –
Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27729/2015 proposto da:
C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NICOLO’
TARTAGLIA 3, presso lo studio dell’avvocato PIETRO CESARE VINCENTI, rappresentato e difeso dall’avvocato DANIELE CAMMILLERI;
– ricorrente –
contro
INTESA SAN PAOLO PRIVATE BANKING S.P.A., CASSA DI RISPARMIO DEL FRIULI VENEZIA GIULIA S.P.A., in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA VIRGILIO 8, presso lo studio dell’avvocato ENRICO CICCOTTI, che le rappresenta e difende unitamente agli avvocati GUGLIELMO BURRAGATO e ANDREA MUSTI;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 266/2015 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 08/09/2015, R.G.N. 263/2014.
RILEVATO
che:
La Corte d’Appello di Trieste, con sentenza resa pubblica in data 8/9/2015, confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che, all’esito dell’espletamento di articolata attività istruttoria, aveva respinto le domande proposte da C.C. nei confronti di Intesa San Paolo Private Banking s.p.a. nonchè della Cassa di Risparmio del Friuli Venezia Giulia volte a conseguire l’accertamento del suo diritto all’inquadramento nella I categoria quadri e la condanna della società al pagamento delle relative differenze retributive spettanti, nonchè alla corresponsione del premio di rendimento, non correttamente calcolato dall’anno 2000 all’anno 2010, e del corrispettivo derivante dal sistema incentivante con riferimento al periodo 2003-2004.
Avverso tale decisione C.C. interpone ricorso per cassazione sostenuto da tre motivi ai quali oppone difese la società intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 66 e segg. del c.c.n.l. 11/7/1999 Aziende di credito finanziarie e strumentali in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Ci si duole che la Corte di merito, recependo pienamente la tesi accreditata dalla società datoriale, abbia posto a fondamento del proprio convincimento la circostanza che il superiore inquadramento rivendicato dal lavoratore fosse connesso allo svolgimento di attività di gestore private – propria del dipendente che abbia un proprio portafogli clienti affidando tale definizione alla nozione del notorio, che identifica la figura del gestore in quella di colui cui è affidato un certo novero di clienti, indirizzati e consigliati in autonomia nelle loro operazioni di investimento.
Si argomenta in proposito che la carenza di fondo dell’iter logico-giuridico seguito dal giudice del gravame, sia consistito nella omessa enunciazione della declaratoria contrattuale che definiva la categoria dei quadri direttivi oggetto della pretesa azionata, e della necessaria comparazione con quella corrispondente alle mansioni svolte dal ricorrente.
Si deduce, quindi, che una attenta lettura del dato contrattuale di riferimento (art. 66 c.c.n.l. istituti di credito del 1999), avrebbe consentito di acclarare che il connotato principale del “quadro direttivo”, consisteva nella elevata responsabilità funzionale della mansione e nella elevata preparazione professionale, e/o in particolari specializzazioni, in elevate responsabilità nella direzione, coordinamento o controllo di altri lavoratori… non recando la disposizione pattizia, alcun riferimento al paradigma, adoperato dalla Corte di merito, relativo alla assegnazione di un portafoglio clienti.
2. Il motivo è privo di fondamento.
Non può sottacersi che il ricorrente, nella definizione della critica articolata, muova da corretti presupposti giuridici che individuano nello svolgimento del cd. percorso trifasico, il momento ineludibile del giudizio volto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore subordinato.
Detto procedimento logico-giuridico, secondo l’insegnamento di questa Corte, si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dall’individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda, ed è sindacabile in sede di legittimità qualora la pronuncia abbia respinto la domanda senza dare esplicitamente conto delle predette fasi (cfr. Cass. 27/9/2010 n. 20272, Cass. 28/4/2015 n. 8589).
Tuttavia è altrettanto vero che, sempre secondo i condivisi dicta di questa Corte (vedi Cass. 27/9/2016 n. 18943) l’osservanza del cd. criterio “trifasico”, da cui non si può prescindere nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore, non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, ove risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni.
Nello specifico, deve rimarcarsi come la Corte di merito, pur non facendo esplicito richiamo alle singole fasi procedimentali innanzi descritte, abbia addotto una serie di argomentazioni idonee ad escludere la ricorrenza degli elementi dal medesimo ricorrente posti a fondamento del diritto azionato, che inducono a ritenere percorso il paradigma motivazionale enucleato dalla giurisprudenza di legittimità ai fini qui considerati. Nel definire le attribuzioni ed i connotati qualificanti della attività svolta dal C., il giudice del gravame ha infatti avuto modo di osservare come, anche a seguito del percorso di riconversione professionale seguito e al di là di alcuni positivi apprezzamenti, fossero state rilevate carenze nelle relazioni con la clientela e nella responsabilità di portafoglio; ha inoltre dedotto che il quadro probatorio delineato era univoco nel definire l’attività del ricorrente in termini di mero supporto nell’esecuzione di ordini di acquisto e nel mancato svolgimento delle mansioni maggiormente qualificate oggetto di rivendicazione, caratterizzate da autonomia del ruolo di consulente o gestore private.
In tal senso, gli approdi ai quali è pervenuto il giudice d’appello, appaiono coerenti con la declaratoria contrattuale invocata dal lavoratore (art. 66 c.c.n.l.) secondo cui è quadro direttivo il lavoratore che “svolge mansioni che comportino elevate responsabilità funzionali ed elevata preparazione professionale e/o particolari specializzazioni”, mansioni che, alla luce dell’articolato materiale probatorio scrutinato, non potevano essere riconducibili al ruolo in concreto rivestito dal ricorrente.
Le critiche non appaiono, dunque, idonee ad inficiare il descritto iter argomentativo che innerva l’impugnata sentenza, conformandosi alle linee interpretative delle acquisizioni probatorie di natura testimoniale e documentale, già elaborate dal giudice di prima istanza.
3. Il secondo motivo prospetta violazione o falsa applicazione dell’art. 210 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Il ricorrente lamenta che la Corte distrettuale abbia respinto l’istanza di acquisizione della documentazione in possesso dell’istituto di credito, di contenuto riservato, attestante lo svolgimento di ben 600 operazioni nel periodo gennaio-maggio 2008 la cui natura avrebbe sostenuto la tesi accreditata in ordine alla ricorrenza nella specie, del “profilo contrattuale direttivo”.
4. Il motivo va disatteso.
Non può innanzitutto, tralasciarsi di considerare che, secondo i principi affermati da questa Corte, che vanno qui ribaditi, nel giudizio di appello soggetto al rito del lavoro l’istanza di esibizione di documenti, ai sensi dell’art. 210 c.p.c., è sottoposta agli stessi limiti di ammissibilità previsti dall’art. 345 c.p.c., comma 3, con riferimento alla produzione documentale, con la conseguenza che essa non è ammissibile in relazione a documenti la cui esibizione non sia stata richiesta nel giudizio di primo grado (vedi Cass. 24/1/2014 n. 1484).
Nello specifico, l’istanza formulata innanzi al giudice del gravame appare tardiva, atteso che la Corte, dopo aver dato atto che la causa, “nel suo primo grado” era stata “esaurientemente istruita con l’audizione di vari testimoni, e che l’ordine di esibizione richiesto qui (in corsivo), dal tenore generico ed indefinito…” era “quindi di natura esplorativa ed inammissibile”.
Nè il ricorrente ha dato atto della tempestiva proposizione dell’istanza già nel primo grado di giudizio, indicando tempi e modalità di formulazione della stessa, in coerenza con i summenzionati principi, di guisa che la censura non si sottrae ad un giudizio di inammissibilità.
Sotto altro versante, deve rammentarsi che in tema di poteri istruttori d’ufficio del giudice del lavoro, l’emanazione di ordine di esibizione è, comunque, atto discrezionale e la valutazione di indispensabilità non deve essere neppure esplicitata nella motivazione. Il relativo esercizio è quindi svincolato da ogni onere di motivazione e il provvedimento di rigetto dell’istanza di ordine di esibizione non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte instante non abbia finalità esplorativa (vedi Cass. 25/10/2013 n. 24188); evenienza, questa, esplicitamente esclusa, per quanto sinora detto, dalla Corte territoriale.
5. Con la terza critica si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 18 contratto integrativo aziendale del 9/4/1992 e dell’art. 4 c.c.n.l. 19/12/1994 e dell’art. 38 c.c.n.l. 11/7/1999 aziende di credito ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si censura la statuizione con la quale la Corte di merito ha respinto la domanda di ricalcolo dell’ex premio di rendimento, che si deduce non correttamente computato a seguito della rinnovata struttura della retribuzione disciplinata dal c.c.n.l. 1999 con decorrenza 1/1/2000.
Si sostiene, per contro, che nella specie, con riferimento agli anni 2000-2010, continuerebbe a trovare applicazione l’art. 18 del contratto integrativo aziendale della Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone del 9/4/1992, alla cui stregua detto premio era da computarsi in misura pari al 337% della mensilità di dicembre dell’anno di competenza.
6. Il motivo non pare ammissibile giacchè non vengono adeguatamente censurati sotto il profilo dei canoni ermeneutici adoprati, gli approdi ai quali sono pervenuti i giudici del gravame in tema di interpretazione dell’accordo integrativo aziendale, sul quale è principalmente modulata la tesi accreditata dal ricorrente.
Ed invero, secondo i consolidati dicta di questa Corte, in base alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), secondo cui è possibile la denuncia con ricorso per cassazione della violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi, non è consentito alla Suprema Corte procedere ad una interpretazione diretta della clausola di un contratto collettivo integrativo, in quanto la norma riguarda esclusivamente i contratti collettivi nazionali di lavoro (vedi Cass. 3/12/2013 n. 27062).
L’interpretazione dell’accordo aziendale, in ragione della sua efficacia limitata (diversa da quella propria degli accordi e contratti collettivi nazionali) è riservata infatti al giudice di merito, laddove la funzione del giudizio di legittimità è circoscritta, per accordi del tipo in esame, al controllo della motivazione e alla verifica dell’impiego corretto dei canoni ermeneutici secondo le censure proposte dal ricorrente(vedi ex plurimis, Cass., 4/2/2010 n. 2625).
Orbene, le osservazioni critiche svolte in ricorso sono indirizzate, essenzialmente, a sostenere un diverso risultato interpretativo dell’accordo predetto, considerato preferibile rispetto a quello accolto nella sentenza censurata. Ma una censura siffatta è inammissibile alla stregua della funzione del giudizio di legittimità, limitata, per accordi del tipo in esame, al controllo della motivazione e alla verifica dell’impiego corretto dei canoni ermeneutici secondo le censure proposte dal ricorrente, il quale ha omesso di specificamente indicare i canoni nella specie violati dalla Corte distrettuale.
Questa, nel proprio incedere argomentativo, ha peraltro avuto modo di rimarcare che la materia del premio di rendimento, dopo la stipula dell’Accordo Aziendale del 1992, era stata rivisitata dall’Accordo Nazionale Economico del 1994 secondo cui per gli anni 1996 e 1997 una quota del premio non sarebbe stata soggetta a incrementi sulla base di percentuali definite a livello aziendale, ferma restando la facoltà delle parti, negli anni successivi, di rivisitare la materia. Ma detta facoltà non era stata esercitata dalle parti sociali, che nulla avevano disposto in ordine al premio di rendimento, così mostrando di confermare il trattamento previsto in relazione al periodo 1996/1997 in termini rinnovati, rispetto a quelli contenuti nell’accordo aziendale del 1992 invocato dal lavoratore a sostegno del diritto azionato.
La formulata critica, interamente modulata sulla difforme interpretazione del comportamento delle parti, secondo cui la mancata elaborazione di una nuova disciplina dopo il 1997, avrebbe dovuto comportare invece il ritorno alla applicazione dell’ordinario criterio preesistente, non si confronta criticamente con l’interpretazione, del tutto logica e conforme ai canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., espressa dalla Corte di merito che resiste, pertanto alla censura all’esame.
7. In definitiva, alla stregua delle osservazioni sinora svolte, il ricorso è respinto.
Il governo delle spese inerenti al presente giudizio segue il regime della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 3 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2019
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