LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
Dott. MANCINO Rossana – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 18096/2018 proposto da:
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F.
*****, in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S. C.F. ***** elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONINO SGROI, CARLA D’ALOISIO, LELIO MARITATO, ESTER ADA VITA SCIPLINO, GIUSEPPE MATANO, EMANUELE DE ROSE;
– ricorrente –
contro
D.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIETRO COSSA 13, presso lo studio dell’avvocato MARIA TROPIANO che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DONATELLA VERNIZZI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 514/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 07/12/2017 R.G.N. 192/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/06/2019 dal Consigliere Dott. ROSSANA MANCINO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’ Stefano, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato ANTONINO SGROI;
udito l’Avvocato DONATELLA VERNIZZI.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 7 dicembre 2017 ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accolto l’opposizione a due avvisi di addebito per il maggior credito contributivo vantato dall’INPS radicato sul maggior reddito percepito dall’attuale intimato in conseguenza della sua partecipazione quale socio di una società a responsabilità limitata, nel periodo 2007-2008; ha inoltre accolto il gravame incidentale svolto dal D. e ritenuto illegittima la contrazione dei contributi accreditati in conseguenza dell’infondatezza della pretesa contributiva dell’ente.
2. La Corte di merito ha escluso dalla base imponibile il reddito derivante dalla partecipazione a società di capitali sul presupposto dell’estraneità ai redditi d’impresa degli utili derivanti dalla partecipazione al capitale di società a responsabilità limitata (costituenti redditi di capitale) tenuto conto che, in materia di imposte sulle persone fisiche, il legislatore ha tenuto ben distinti il reddito di capitale (il dividendo risultante dall’utile d’impresa, che sia o no distribuito tra i soci) e reddito d’impresa, l’unico assoggettato a contribuzione; in particolare riteneva non rilevanti, nella specie, i riferimenti normativi evocati dalla difesa previdenziale per accreditare la nozione di redditi di capitale nel senso preteso dall’INPS: il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 48, nel disporre che non costituiscono redditi di capitale gli utili, gli interessi e gli altri proventi di cui ai precedenti articoli, si riferisce ai redditi conseguiti dalla società di capitali e non dal socio che partecipa al capitale della società, cui invece si riferisce dell’art. 44, comma 1, lett. e) del medesimo D.P.R.; inoltre, dell’art. 53, comma 2, lett. d) richiamato dell’art. 44, comma 1, lett. e), per escludere una certa categoria di redditi da quelli da considerare di capitali, si riferisce unicamente alla partecipazione agli utili spettanti ai promotori e ai soci fondatori di società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata e, nella specie, non risultava, nè l’INPS aveva dedotto, che il D. fosse uno dei soci promotori o fondatori della Centrostudi s.r.l.
3. Avverso tale sentenza ricorre l’INPS, anche quale procuratore speciale della S.C.C.I. s.p.a., con ricorso affidato ad un motivo, cui resiste, con controricorso, D.S..
RAGIONI DELLA DECISIONE
4. Con l’unico motivo di ricorso l’INPS deduce la violazione e falsa applicazione della L. 14 novembre 1992, n. 438, art. 3-bis, di conversione con modificazioni del D.L. 19 settembre 1992, n. 384 e in connessione con questo della L. 2 agosto 1990, n. 233. Sostiene che l’approdo al quale sono pervenuti i giudici di merito sarebbe frutto di un’erronea ricostruzione in quanto la normativa richiamata distinguerebbe tra imposizione fiscale e imposizione previdenziale, al fine di assicurare un ampio spettro di commisurazione dei contributi previdenziali, coerentemente con la gestione solidaristica del sistema, producendo un effetto positivo sulla posizione del soggetto interessato anche ai fini pensionistici.
5. La questione sottoposta al vaglio di questa Corte attiene al fatto se il lavoratore autonomo, iscritto alla gestione previdenziale in quanto svolgente un’attività lavorativa per la quale sussistono i requisiti per il sorgere della tutela previdenziale obbligatoria, debba parametrare o meno il proprio obbligo contributivo a tutti i redditi percepiti nell’anno di riferimento, tenendo conto anche di quelli da partecipazione a società di capitali nella quale egli non svolge attività lavorativa.
6. Allo scopo occorre premettere che il D.L. 19 settembre 1992, n. 384, art. 3-bis, convertito con modificazioni dalla L. 14 novembre 1992, n. 438, ha previsto che “A decorrere dall’anno 1993, l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui alla L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 1, è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”.
7. La disciplina previgente era contenuta nella L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 1, che prevedeva al comma 1 che “A decorrere dal 1 luglio 1990 l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti alle gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attività commerciali, titolari, coadiuvanti e coadiutori, è pari al 12 per cento del reddito annuo derivante dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione, dichiarato ai fini Irpef, relativo all’anno precedente”.
8. Con la nuova disposizione rileva “la totalità” dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF, non parlandosi più della sola attività che dà titolo all’iscrizione alla gestione della L. n. 233 del 1990, ex art. 1.
9. Il legislatore ha dunque scelto di distinguere tra elementi sui quali si radica, quale fatto giuridico strutturale, il sorgere della tutela previdenziale in capo al lavoratore autonomo ed elementi ulteriori rispetto ad essi, in relazione ai quali si individua comunque la misura della contribuzione previdenziale dovuta.
10. La differente formulazione della norma realizza chiaramente un ampliamento della base imponibile contributiva, secondo un mutamento normativo che il legislatore ha inteso perseguire, in connessione con il processo di armonizzazione della base imponibile contributiva a quella valevole in ambito tributario.
11. Al fine di individuare quale sia il reddito di impresa rilevante ai fini contributivi, occorre quindi per coerenza di sistema fare riferimento alle norme fiscali, e dunque in primo luogo al testo unico delle imposte sui redditi, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
12. Il suddetto D.P.R. contiene distinte disposizioni onde qualificare i redditi d’impresa rispetto ai redditi di capitale: i primi, a mente dell’art. 55 (nel testo post riforma del 2004) sono quelli che derivano dall’esercizio di attività imprenditoriale, mentre l’art. 44, lett. e) (nel testo post riforma del 2004) ricomprende tra i redditi di capitale gli utili da partecipazione alle società soggette ad IRPEG (ora IRES).
13.Poichè la normativa previdenziale individua, come base imponibile sulla quale calcolare i contributi, la totalità dei redditi d’impresa così come definita dalla disciplina fiscale e considerato che secondo il testo unico delle imposte sui redditi gli utili derivanti dalla mera partecipazione a società di capitali, senza prestazione di attività lavorativa, sono inclusi tra i redditi di capitale, ne consegue che questi ultimi non concorrono a costituire la base imponibile ai fini contributivi INPS.
14. La soluzione che qui viene adottata è del tutto coerente con l’impostazione del sistema come delineata dall’art. 38 Cost., comma 2, che prevede che la tutela previdenziale spetti ai lavoratori, non a coloro che si limitino ad investire i propri capitali a scopo di utile.
15. Diversamente, per i soci di società di persone opera il principio della trasparenza fiscale, in forza del quale i redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale, sono considerati redditi di impresa e sono determinati unitariamente secondo le norme relative a tali redditi (art. 6, comma 3 del testo post riforma del 2004 del D.P.R. n. 917 del 2016).
16.Ed è proprio il diverso regime dettato per le società di persone da cui deriva il principio, affermato da questa Corte nella sentenza n. 29779 del 2017, secondo il quale ai fini della determinazione dei contributi dovuti dagli artigiani ed esercenti attività commerciali, vanno computati anche i redditi percepiti in qualità di socio accomandante, seppure diversi dal reddito che trova causa nel rapporto di lavoro oggetto della posizione previdenziale.
17.La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 354 del 7 novembre 2001, ha ben distinto tra la posizione dei soci (non lavoratori) delle società di capitali e quelli delle società di persone, ove ha ritenuto non fondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale del D.L. 19 settembre 1992, n. 384, art. 3-bis, conv., con modif., in L. 14 novembre 1992, n. 438, il quale, sottoponendo a contribuzione INPS i redditi denunciati ai fini IRPEF dal socio accomandante di società in accomandita semplice, introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra socio accomandante di società in accomandita semplice e socio di società di capitali.
18. Il Giudice delle leggi ha infatti rilevato che nell’ambito delle società in accomandita semplice (e in quelle in nome collettivo) assume preminente rilievo, a differenza delle società di capitali, l’elemento personale, in virtù di un collegamento inteso non come semplice apporto di ciascuno al capitale sociale, bensì quale legame tra più persone, in vista dello svolgimento di un’attività produttiva riferibile nei risultati a tutti coloro che hanno posto in essere il vincolo sociale, ivi compreso il socio accomandante; nè la scelta del legislatore può ritenersi affetta da irragionevolezza, in quanto all’onere contributivo si correla un vantaggio in termini di prestazioni previdenziali ai sensi della L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 5, in base al quale la misura dei trattamenti è rapportata al reddito annuo di impresa.
19. E’ vero che la Consulta, nel richiamato arresto, ha rilevato che dall’art. 38 Cost., comma 2, non si desume un’intima e indefettibile correlazione tra contribuzione e reddito di lavoro e che anzi, le più recenti riforme in materia evidenziano sia il passaggio ad una più ampia accezione di base contributiva imponibile, tale da ricomprendere non solo il corrispettivo dell’attività di lavoro, ma anche altre attribuzioni economiche che nella attività stessa rinvengono soltanto mera occasione, sia la convergenza, pur nella rispettiva autonomia di regimi, tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale quanto alla definizione della base imponibile.
20. Tale tendenza all’ampliamento della base contributiva deve però di necessità essere contenuto entro i limiti delineati dal legislatore, non potendo giungersi ad estendere, in via analogica, la portata delle relative previsioni, tra l’altro, come avverrebbe accogliendo la tesi dell’INPS, disattendendo proprio il voluto parallelismo tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale.
21. Segue coerente il rigetto del ricorso.
22. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
23. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre quindici per cento spese generali e altri accessori di legge. Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019