LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizia – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 5363/2018 proposto da:
NEW DATA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO GHERA, rappresentata e difesa dall’avvocato DOMENICO GAROFALO;
– ricorrente –
contro
S.E., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ROBERTO METE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 209/2017 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 04/08/2017 R.G.N. 260/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/06/2019 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del rigetto;
udito l’Avvocato FRANCESCO GHERA per delega Avvocato DOMENICO GAROFALO;
udito l’Avvocato LORETTA BURELLI per delega Avvocato ROBERTO METE.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte di appello di Trieste, accogliendo l’appello proposto da S.E., in riforma della sentenza del Tribunale di Gorizia, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato nel marzo 2013 dalla società New Data s.r.l. e, in applicazione della c.d. tutela obbligatoria di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 8, condannava la società datrice di lavoro a riassumere la ricorrente o, in difetto, a risarcirle il danno in misura pari a 2,5 mensilità della retribuzione globale di fatto.
2. La ricorrente, dipendente della società New Data dall’agosto 2012 quale impiegata amministrativa di quarto livello, era stata licenziata nel marzo 2013 per asserito giustificato motivo oggettivo, consistito nella necessità di ridurre il personale a causa di una diminuzione di attività dell’impresa.
3. La Corte territoriale, respinta l’eccezione di inammissibilità del gravame sollevata dall’appellata ai sensi dell’art. 434 c.p.c., osservava – in sintesi – quanto segue:
– la ragione addotta a giustificazione del recesso era circostanza smentita dagli avvisi, quasi coevi (giugno 2013), con cui l’impresa aveva ricercato un impiegato esperto in materia contabile da assumere, nonchè dai dati di bilancio relativi ai due anni precedenti, che avevano evidenziato l’esistenza costante di utili e nel 2012 un rilevante incremento delle disponibilità liquide;
– ad ottobre 2012 la società assunse ben tre addetti a tempo indeterminato per mansioni e con inquadramento impiegatizio (livello IV), analoghi a quelli della ricorrente;
– oltre a tali dati documentali, vi erano quelli della istruttoria orale, da cui era emerso che il lavoro veniva ripartito fra i vari addetti in modo omogeneo e quindi per cliente e non per competenza o per materia e che inoltre il gruppo di disdette dal rapporto di consulenza, su cui l’appellata aveva fondato le ragioni del recesso, risaliva al periodo ottobre/dicembre 2012 e quindi al momento stesso del tre nuove assunzioni o poco dopo; licenziamento si collocava invece ben più tardi di tali disdette, ossia nel marzo 2013;
– infine non era stata fornita, da parte della società datrice di lavoro, alcuna prova circa l’impossibilità di un utile reimpiego della ricorrente;
– dalla declaratoria di illegittimità del recesso, derivava l’applicazione della tutela obbligatoria e, tenuto conto della struttura minima dell’impresa e della durata limitata a sei mesi del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’indennità risarcitoria poteva essere contenuta nei limiti di 2,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
4. Per la cassazione di tale sentenza la soc. New Data ha proposto ricorso affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso la S..
5. La società ricorrente ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si denuncia nullità della sentenza ai sensi dell’art. 132 c.p.c., n. 4, art. 156 c.p.c., comma 2 e art. 118 disp. att. c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4) per avere prestato pedissequa adesione alle tesi svolte dalla parte appellante senza spiegare i motivi per cui avrebbe errato il primo giudice. Non era stato esternato il ragionamento che aveva portato a ritenere pretestuoso il licenziamento, risalente al marzo 2013, a distanza di molti mesi dalle tre assunzioni effettuate dalla società nell’ottobre 2012, omettendo invece di valutare le imprevedibili circostanze sopravvenute tra fine ottobre 2012 e inizio 2013, quali le diverse disdette dai rapporti di consulenza, inspiegabilmente ritenute ininfluenti ai fini del decidere.
2. Con il secondo motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Ove non fosse ritenuta nulla la sentenza in relazione alla denuncia di cui al primo motivo, la stessa sarebbe carente nel suo impianto motivazionale essendo stato omesso di valutare la sequenza cronologica dei fatti: le tre assunzioni si collocavano nell’ottobre 2012; le disdette dei clienti erano avvenute tra fine ottobre e dicembre 2012 (ed erano proseguite anche successivamente); i dati di bilancio 2011, 2012 e 2013 avevano evidenziato un crollo del valore della produzione, mentre la Corte di appello aveva estrapolato solo il dato relativo alla esistenza di utili di impresa e all’aumento di disponibilità liquide (da 60.000 a 100.000 Euro nel marzo 2013, epoca del licenziamento); la pubblicazione degli avvisi di assunzione era avvenuta quando controparte aveva già impugnato il licenziamento (giugno 2013) e le mansioni proposte, quelle di esperto contabile, erano evidentemente diverse da quelle svolte dalla S. e richiedevano competenze che la stessa non aveva nè poteva acquisire (inoltre, la necessità di detta figura era sorta solo nell’aprile 2013); in ogni caso poi, dal libro unico del lavoro depositato in atti poteva evincersi che nessuna assunzione era stata operata dopo il licenziamento della S., successivamente alla pubblicazione del suddetto annuncio.
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 2697 c.c., art. 41 Cost., L. n. 604 del 1966, artt. 3, 5 e 8, L. 183 del 2010, art. 30, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, poichè non è sindacabile dal giudice di merito la scelta organizzativa dell’imprenditore di operare una riduzione di organico ai fini di una migliore efficienza gestionale o di un incremento della redditività dell’impresa e l’istruttoria espletata in appello aveva confermato la situazione di forte difficoltà che la società dovette fronteggiare a causa dell’improvvisa perdita di 32 clienti tra fine ottobre 2012 e inizio 2013. Quanto all’obbligo di c.d. repechage, si invoca l’applicazione dell’orientamento interpretativo secondo cui grava sul lavoratore l’onere di allegare l’esistenza di altri posti di lavoro nei quali poter essere utilmente collocato, conseguendo solo a tale allegazione l’onere della parte datoriale di provare la non utilizzabilità nei posti predetti; si sostiene che tale onere non era stato minimamente assolto dalla ricorrente in primo grado.
4. I tre motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente in quanto tra loro connessi, sono infondati.
5. In ordine ai primi due motivi, di cui il secondo è prospettato come subordinato al mancato accoglimento del primo, giova ribadire che, a seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. n. 23940 del 2017, S.U. 8053 del 2014) Quanto all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6 e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, lo stesso può ritenersi violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass. 22598 del 2018).
5.1. All’evidenza, tale vizio non ricorre nel caso in esame, poichè la Corte territoriale ha dato conto delle ragioni poste a fondamento del decisum, ragioni che peraltro la stessa ricorrente manifesta di avere ben compreso, avendone fatto oggetto di compiuta disamina in ciascuno dei tre motivi di ricorso. La sentenza reca, attraverso la descrizione di eventi posti in connessione tra loro, un giudizio sintetico di pretestuosità del licenziamento, poichè le ragioni addotte a suo fondamento non erano idonee a giustificarlo. I giudici di merito, facendo applicazione della regola di giudizio secondo cui grava sul datore di lavoro l’onere di provare l’effettività del giustificato motivo oggettivo e il suo nesso con la scelta del dipendente da estromettere, ha esaminato gli elementi acquisiti agli atti, esprimendo un giudizio conclusivo circa la non idoneità degli stessi, interpretati in correlazione tra loro, a consentire di ritenere assolto, da parte datoriale, l’onere probatorio sullo stesso gravante.
6. Va poi aggiunto che il primo motivo sembra sostanzialmente denunciare l’assenza di un momento valutativo che avrebbe dovuto accompagnare l’indicazione delle circostanze ritenute decisive fini del decidere, per cui sarebbe meramente assertivo il giudizio espresso circa il carattere pretestuoso del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo.
6.1. La censura è destituita di fondamento. Il giudizio risulta espresso in termini di sintesi, derivando dagli elementi indiziari ritenuti convergenti ad esprimere l’assenza di un nesso (temporale e causale) tra la prospettata diminuzione di attività e la necessità di licenziare la ricorrente, la quale – come accertato in sentenza – aveva una professionalità e un inquadramento del tutto fungibili rispetto agli altri tre impiegati, peraltro assunti dopo di lei e dunque con minore esperienza lavorativa nello specifico settore.
7. La sentenza non reca alcun inammissibile giudizio avente ad oggetto le scelte di ordine economico-produttivo o organizzativo che fanno capo al datore di lavoro ex art. 41 Cost., anche se la riduzione del personale sia finalizzata ad una diminuzione dei costi per una migliore redditività dell’impresa, ma ha rilevato il difetto di nesso tra le ragioni sottese alla scelta organizzativa e la posizione lavorativa occupata dalla lavoratrice destinataria del provvedimento e dunque l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo. Occorre infatti ribadire in questa sede che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, per giustificare il licenziamento, devono esprimere una relazione causale tra il riassetto organizzativo e la soppressione di un’individuata posizione lavorativa.
7.1. Nel caso in esame il giudice ha accertato in concreto che le ragioni organizzative addotte, oltre a non essere supportare da elementi di valido riscontro, non davano conto dei motivi per i quali, al fine di realizzare una migliore efficienza gestionale ovvero un incremento della redditività, la scelta organizzativa di sopprimere una postazione di lavoro dovesse cadere sulla S., tanto più a fronte della conclamata omogeneità delle mansioni con gli altri tre impiegati, che rivestivano il medesimo inquadramento contrattuale ed erano adibiti alle medesime mansioni, sostanzialmente omogenee e promiscue. In altri termini, non era stata fornita la prova da parte datoriale del nesso causale tra motivazione economica e soppressione della posizione lavorativa siccome individuata in concreto in quella occupata in azienda dalla S..
8. In merito al c.d. repechage, la sentenza ha dato atto che nulla era stato dimostrato da parte datoriale. L’odierna ricorrente si limita a richiamare, a sostegno dell’impugnazione, un orientamento interpretativo ormai superato dalla più recente giurisprudenza di legittimità – che questo Collegio intende ribadire in questa sede – secondo cui, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il lavoratore ha l’onere di dimostrare il fatto costitutivo dell’esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonchè di allegare l’illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del c.d. repechage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore (Cass. n. 12101 del 2016, v. pure Cass. 5592 del 2016; conf. Cass. 160 del 2017). Si è precisato che grava sul datore di lavoro, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, l’onere di provare in giudizio che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale (Cass. n. 4509 del 2016); ciò in quanto la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, qualora questi svolgeva ordinariamente in modo promiscuo mansioni inferiori, oltre quelle soppresse, sussiste a carico del datore di lavoro l’obbligo di repechage anche in ordine alle mansioni inferiori (Cass. n. 13379 del 2017).
8.1. Dunque, sul datore di lavoro incombe l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonchè l’impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore all’interno dell’azienda. Giova evidenziare che tale orientamento interpretativo, relativo al riparto degli oneri probatori, è stato espressamente richiamato e condiviso dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata.
9. Per il resto, il ricorso tende ad un inammissibile riesame delle prove e dunque ad una rivisitazione del merito, preclusa in questa sede, occorrendo ribadire che, secondo costante giurisprudenza, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le tante, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013).
9.1. Inoltre, anche nella vigenza del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 2, n. 5, come sostituito dal D.L. n. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (v. Cass. S.U. sent. 8053/14).
9.2. La sentenza ha dato conto, puntualmente, delle ragioni poste a base del decisum; la motivazione non è assente o meramente apparente, nè gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale appaiono manifestamente illogici o contraddittori.
10. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.
11. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della società cooperativa ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 6 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2019
Codice Civile > Articolo 2697 - Onere della prova | Codice Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 3 - (Omissis) | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 4 - (Omissis) | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 115 - Disponibilita' delle prove | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 116 - Valutazione delle prove | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 156 - Rilevanza della nullita' | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 378 - Deposito di memorie | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 434 - Deposito del ricorso in appello | Codice Procedura Civile