Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.24598 del 02/10/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14688/2015 proposto da:

D.P.B., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Rizzelli Stefano, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Summer Service S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Stasi Carlo, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

M.A.R., R.M., Ru.Mo.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 104/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 12/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 18/06/2019 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

FATTI DI CAUSA

1. – D.P.B. conveniva in giudizio Ru.Mo., R.M., M.A. e Summer Service s.r.l. rilevando che il complesso aziendale denominato “Stabilimento Balneare *****” formalmente gestito dall’impresa individuale della propria ex moglie, Ru.Mo., ma di fatto amministrato dall’impresa familiare intercorrente tra lui, la predetta Ru.Mo. e i genitori della medesima – R.M. e M.A., era stato ceduto alla predetta società. Domandava, quindi, dichiararsi il proprio diritto di prelazione a norma dell’art. 230 bis c.c., comma 5.

Il Tribunale di Lecce rigettava la domanda, negando che nella fattispecie si configurasse un’impresa familiare.

2. – Il gravame proposto da D.P. era parimenti respinto. La Corte di appello di Lecce, in particolare, valorizzava due previsioni contenute nella scrittura privata del 7 settembre 2009, con cui erano stati regolamentati i rapporti tra i diversi soggetti che avevano avuto parte nella gestione dello stabilimento balneare: quella relativa alla individuazione di quote di partecipazione cedibili a terzi e quella concernente la misura degli utili da distribuire, fissata in ragione del 50% per ciascun nucleo familiare. Osservava, al riguardo, che il diritto di partecipazione dei familiari era intrasferibile (salvo che in favore di uno dei familiari indicati dell’art. 230 bis, comma 3) e che, inoltre, nell’impresa familiare la partecipazione agli utili era inderogabilmente determinata in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

3. – Contro tale sentenza, pronunciata il 12 febbraio 2015, D.P. ha proposto ricorso per cassazione. L’impugnazione si fonda su di un solo motivo. Resiste con controricorso Summer Service, che ha pure depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – L’istante lamenta violazione ed errata applicazione dell’art. 230 bis c.p.c., art. 1362 c.c. e art. 2697 c.c., comma 2. Deduce: che la Corte di appello aveva fatto impropriamente riferimento, nella propria sentenza, alla affectio familiaris, elemento che non assumeva alcun rilievo nel quadro dell’indagine che il giudice distrettuale era chiamato a compiere; che i criteri di interpretazione del contratto non potessero “estendersi, in favore così come in danno, al terzo che non (avesse) partecipato alla formazione del negozio”; che aveva errato la Corte di merito a fare impiego del solo criterio dell’interpretazione letterale nell’interpretazione della volontà espressa nella nominata scrittura privata del 7 settembre 2009; che la sentenza impugnata era censurabile per aver rigettato la domanda di riscatto “in difetto di eccezione alcuna della difesa di Summer circa la domanda di accertamento della coadiuvanza familiare”.

2. – Il motivo è infondato, e così il ricorso.

Il richiamo all’affectio familiaris non vale ad attribuire a tale elemento un qualche rilievo sul piano della ratio decidendi dell’impugnata pronuncia, la quale si fonda su due dati, enucleati dal regolamento negoziale del 7 settembre 2009, che sono risultati incompatibili con l’impresa familiare: la trasferibilità della partecipazione del socio, che è esclusa dell’art. 230 bis c.c., comma 4 e la predeterminazione delle quote di partecipazione degli utili, che contrasta con la previsione di cui al comma 1 dell’art. cit., secondo cui il familiare che presta la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare partecipa agli utili di questa in proporzione della qualità e della qualità del lavoro svolto. In tal senso, va fatta applicazione del principio per cui è inammissibile, in sede di giudizio di legittimità, il motivo di ricorso che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata non costituente una ratio decidendi della medesima (per tutte: Cass. 10 aprile 2018, n. 8755).

Quanto alle regole ermeneutiche di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., esse riguardano il contratto in quanto tale, indipendentemente dal fatto che ad esso risulti estranea una delle parti del giudizio. Infatti, l’interpretazione del contratto è funzionale alla individuazione degli effetti che esso è in grado produrre nel mondo giuridico e tali effetti possono riguardare, indirettamente, anche chi non abbia assunto la qualità di contraente: si pensi al caso in esame, in cui si controverte del contenuto della convenzione intercorsa onde verificare se ad essa, siccome costitutiva di una impresa familiare, possa riconnettersi la disciplina legale della prelazione contenuta dell’art. 230 bis c.c., comma 5. In ogni ipotesi in cui sia necessario interpretare il contenuto del contratto per definirne gli effetti, sia che essi riguardino le parti, sia che essi abbiano portata riflessa sui terzi, dovrà quindi farsi riferimento alle richiamate regole ermeneutiche, le uniche che disciplinano la materia che qui interessa.

E’ vero, poi, che nell’interpretazione del contratto, il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c., alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche laddove il testo dell’accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti (Cass. 28 giugno 2017, n. 16181); infatti, il significato delle dichiarazioni negoziali non è un prius, ma l’esito di un processo interpretativo che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore (Cass. 15 luglio 2016, n. 14432); così, in presenza, di una clausola che, sul piano testuale, sia di significato univoco, deve esaminarsi se esistano indici rilevatori di una difforme volontà delle parti e solo in caso negativo deve attribuirsi prevalenza al dato letterale, escludendosi alcuna ulteriore operazione ermeneutica (in tema: Cass. 9 dicembre 2014, n. 25840). Nella fattispecie, però, non è indicato alcun preciso elemento, rilevante sul piano interpretativo, che la Corte di merito avrebbe dovuto valorizzare. Del resto, in sede di legittimità la censura vertente sulla violazione dei canoni interpretativi non può risolversi in una critica del risultato interpretativo, raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (Cass. 15 novembre 2013, n. 25728; Cass. 4 giugno 2010, n, 13587; Cass. 16 febbraio 2007, n. 3644; Cass. 25 ottobre 2006, n. 22899; Cass. 13 dicembre 2006, n. 26690; Cass. 2 maggio 2006, n. 10131; tra le più recenti pronunce non massimate in tal senso, cfr. ad es. Cass. 27 novembre 2018, n. 30600).

Non concludente è, da ultimo, la doglianza incertrata sul fatto che l’odierna controricorrente avrebbe affidato a una “mera difesa” la propria resistenza alla domanda di accertamento della qualità di coadiuvante in capo a D.P.. Sul punto è denunciata la violazione dell’art. 2697 c.c., comma 2: ma è agevole osservare che il vizio lamentato non si ravvisa, dal momento che, per un verso, la decisione della Corte di appello si fonda, come si è visto, sulle richiamate evidenze del contratto datato 7 settembre 2009, oggetto di interpretazione da parte della Corte del merito, mentre, per altro verso, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107), assegnandolo a chi vi sarebbe stato tenuto secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 29 maggio 2018, n. 13395). Nè si vede, a fronte di quanto rilevato a pag. 11 del ricorso, quale eccezione in senso stretto fosse onerata di sollevare la controricorrente, la quale è risultata vittoriosa in ragione dell’accertata insussistenza di una impresa familiare cui correlare l’invocato diritto di prelazione.

3. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2019

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