LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –
Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9302-2010 proposto da:
C.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PAOLO EMILIO 7, presso lo studio dell’avvocato ACHILLE CHIAPPETTI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIOVANNI ARIETA, ELISA BONZANI, RENATO SIRNA;
– ricorrente –
contro
COMMISSIONE NAZIONALE SOCIETA’ BORSA CONSOB, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G.B.MARTINI 3, presso lo studio dell’avvocato FABIO BIAGIANTI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati PAOLO PALMISANO, ANTONELLA VALENTE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 273/2009 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 26/02/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/04/2019 dal Consigliere ANTONELLO COSENTINO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale PATRONE IGNAZIO che ha concluso per accoglimento dei motivi nn. 4-5-6-7 del ricorso, in virtù della sent.223/18 della Corte Costituzionale;
uditi gli Avvocati CHIAPPETTI Achille, ARIETA Giovanni, difensori della ricorrente che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso;
uditi gli Avvocati BIAGIANTI Fabio, PALMISANO Paolo, difensori della resistente, che hanno chiesto l’accoglimento delle difese esposte ed in atti.
FATTI DI CAUSA
C.A. ha proposto ricorso articolato in otto motivi avverso la sentenza n. 273/2009 della Corte d’Appello di Brescia, depositata il 26 febbraio 2009.
La Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB) ha resistito con controricorso.
La Corte d’Appello di Brescia, con la sentenza del 26 febbraio 2009, ha respinto l’opposizione avanzata da C.A. contro la Delib. CONSOB 4 luglio 2007, n. 16018 che, ritenuta la sussistenza dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate di cui al D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 187 bis, comma 4, (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria – TUF), aveva applicato alla medesima la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 705.579, la sanzione accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi per un periodo di nove mesi ex art. 187 quater del TUF, nonchè, ai sensi dell’art. 187 sexies di quest’ultimo, la confisca di beni di sua proprietà per un valore di Euro 6.592.665. I fatti, risalenti all’anno 2002 e relativi all’acquisto da parte di C.A. di determinate obbligazioni Unipol s.p.a. ed alla rivelazione da parte di G.E. della circostanza dell’imminente deliberazione della Unipol di procedere al rimborso anticipato di tali obbligazioni, avevano favorito una plusvalenza a vantaggio della ricorrente di lire 910.795.593.
All’epoca delle vicende per cui è causa la condotta di abuso di informazioni privilegiate dell’insider secondario costituiva reato ai sensi dell’art. 180, comma 2, TUF, punito edittalmente con la reclusione fino a due anni, la multa da venti a seicento milioni di lire e la confisca dei mezzi, anche finanziari, utilizzati per commettere il reato, nonchè dei beni che ne costituissero il profitto (salvo che essi appartenessero a persona estranea al reato). La L. 18 aprile 2005, n. 62, con l’art. 9, ha inserito nella parte V del TUF il Titolo “I bis – Abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato”, depenalizzando la fattispecie di abuso di informazioni privilegiate dell’insider secondario e assoggettando la stessa, nel novellato art. 187 bis TUF, alla sanzione pecuniaria da Euro ventimila a Euro tre milioni (sanzione successivamente quintuplicata dalla L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 39, comma 3, poi dequintuplicata dal D.Lgs. 15 maggio 2015, n. 272, art. 6, comma 3, e, infine, portata nella forbice tra ventimila Euro e cinque milioni di Euro dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 107, art. 4, comma 9, lett. b)). Nel Titolo I bis del TUF inserito dalla L. n. 62 del 2005 si introduce, inoltre, la confisca per equivalente, giacchè l’art. 187 sexies prevede che, qualora non sia possibile la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito, questa possa avere ad oggetto una somma di denaro o beni di valore equivalente. Va ancora aggiunto che, per il disposto della L. n. 62 del 2005, art. 9, comma 6 la confisca per equivalente si applicava anche agli illeciti depenalizzati commessi prima della data di entrata in vigore di detta legge per i quali, a tale data, il procedimento penale non fosse stato ancora definito.
Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 10597 del 19 ottobre 2005, prosciolse perciò la C., oltre altri imputati, dal contestato reato di abuso di informazioni privilegiate, di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 180 in ragione della depenalizzazione dello stesso, disponendo la trasmissione degli atti alla CONSOB. Avverso la Delib. CONSOB 4 luglio 2007, n. 16018 applicativa delle sanzioni amministrative e della confisca, venne proposta da C.A. opposizione, che la Corte d’Appello di Brescia respinse con la sentenza del 26 febbraio 2009, qui impugnata. All’esito dell’udienza pubblica svoltasi il 5 giugno 2015, questa Corte, con ordinanza del 14 settembre 2015, n. 18029, sollevò questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 sexies e L. n. 62 del 2005, art. 9, comma 6, in riferimento all’art. 3 Cost., art. 25 Cost., comma 2 e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 68 del 7 aprile 2017, dichiarò tuttavia inammissibile la questione di legittimità costituzionale. Nel prosieguo del giudizio questa Corte, dopo l’udienza di discussione del 14 settembre 2017, sollevò, con ordinanza 2 novembre 2017, n. 26084, nuovo rilievo di legittimità costituzionale, limitato alla L. n. 62 del 2005, art. 9, comma 6, in riferimento all’art. 3 Cost., art. 25 Cost., comma 2 e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, sempre nella parte in cui tale disposizione prevedeva che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187 sexies TUF si applicasse retroattivamente, allorchè il procedimento penale non fosse stato definito, pur quando il complessivo trattamento afflittivo-sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione risultasse in concreto meno favorevole di quello applicabile in base alla legge vigente al momento della commissione del fatto. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 223 del 5 dicembre 2018, ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. 18 aprile 2005, n. 62, art. 9, comma 6, proprio nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente ex art. 187 sexies TUF si applica, quando il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa L. n. 62 del 2005.
All’esito della pubblicazione della sentenza n. 223/18 della Corte costituzionale la causa è stata discussa alla pubblica udienza del 3 aprile 2019, per la quale entrambe le parti hanno depositato una memoria e nella quale il Procuratore generale ha concluso come in epigrafe.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Occorre preliminarmente ribadire quanto già argomentato nell’ordinanza interlocutoria n. 18029 del 2015, circa la questione introdotta dalla ricorrente con il deposito, ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., della sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna n. 1436/11, depositata l’1.6.2012, con la quale è stato dichiarato non luogo a procedere nei confronti di Co.Gi. e di S.I. in ordine al delitto di cui agli artt. 110 e 81 cpv c.p. e art. 184, lett. a), TUF, perchè il fatto non sussiste.
La ricorrente rilevava che agli imputati erano stati contestati i reati di cui agli artt. 110 e 81 cpv c.p., D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 180, comma 1, lett. a), (attualmente artt. 100 e 81 c.p. e art. 184, lett. a, del TUF) perchè, in concorso tra loro e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso – essendo, in ragione delle rispettive qualità (il Co., presidente e amministratore delegato di UNIPOL s.p.a. e di FINSOE s.p.a., principale azionista di UNIPOL; il S., vice presidente e amministratore delegato della UNIPOL s.p.a. e della FINSOE s.p.a.), in possesso di informazioni privilegiate relativamente all’estinzione anticipata dei prestiti obbligazionari UNIPOL 2000-2005 2,25% e UNIPOL 2000-2005 3,75%, e avvalendosi di tali informazioni, di cui il pubblico non disponeva – acquistavano al M.O.T. di Milano, per conto di UNIPOL, in tempi diversi e per il tramite dell’intermediario finale COFIMO sim, obbligazioni delle suddette emissioni per un controvalore complessivo pari a Euro 48.001.324,57.
La ricorrente sosteneva, quindi, che l’avvenuta assoluzione dei due imputati con la formula “il fatto non sussiste” comporterebbe il venir meno dell’elemento costitutivo della fattispecie, consistente nella informazione privilegiata e, poichè l’informazione in questione sarebbe la stessa oggetto di contestazione nel presente giudizio a titolo di illecito amministrativo, deduceva che, per effetto del principio dell’efficacia riflessa del giudicato, dovrebbe pervenirsi alla cassazione della sentenza impugnata per insussistenza dell’illecito.
Nell’ordinanza interlocutoria n. 18029 del 2015 si sono già illustrate le ragioni per le quali l’assunto della ricorrente non può essere condiviso, ossia, in sintesi, perchè:
– l’assunto che nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa irrogata per la violazione amministrativa di abuso di informazione privilegiata ex art. 187 bis TUF possa attribuirsi efficacia riflessa alla sentenza emessa in un giudizio penale per il delitto di abuso di informazione privilegiata ex art. 184 TUF è incompatibile con il disposto del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 duodecies a norma del quale “il procedimento amministrativo di accertamento e il procedimento di opposizione di cui all’art. 187-septies non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione”;
– dall’epigrafe della sentenza GUP Bologna n. 1436/11 non risulta (nè la ricorrente deduce) che CONSOB sia stata parte nel procedimento penale definito con tale sentenza;
– le condotte contestate in sede penale, lungi dall’essere identiche a quelle oggetto della contestazione della CONSOB, sono diverse, in ragione delle qualità soggettive rivestite dagli imputati nel processo penale e dalla ricorrente nel presente giudizio;
– la sussistenza dell’illecito amministrativo ascritto all’odierna ricorrente deve ritenersi coperta dal giudicato, giacchè nessuno dei motivi del ricorso principale contesta l’accertamento in fatto svolto dalla Corte d’appello, e la conclusione alla quale essa è pervenuta, circa la natura privilegiata delle informazioni utilizzate; le censure svolte nel ricorso per cassazione attingono, infatti, esclusivamente profili attinenti al trattamento sanzionatorio, al cui esame può ora procedersi.
2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 3, 5 e 11 e D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 bis, comma 5, così come introdotto dalla L. n. 62 del 2005, art. 9. Secondo la ricorrente, la Corte d’Appello di Brescia, ritenendo legittima la sanzione pecuniaria applicata dalla CONSOB, avrebbe addebitato a ciascun incolpato la complessiva operazione di acquisto delle obbligazioni, così prescindendo dal piano individuale di valutazione della gravità della condotta e dell’elemento soggettivo. In particolare, la Corte di Brescia non avrebbe tenuto conto, nello stabilire la misura della sanzione, dell’opera svolta dall’agente, nè della personalità dello stessa, delle sue condizioni economiche, delle sue qualità personali, nè, infine, del prodotto o profitto da lei conseguito.
Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 bis in relazione alla L. n. 689 del 1981, artt. 3, 5 e 12 nonchè l’omessa e contraddittoria motivazione. La censura si riferisce alla dichiarata sussistenza, da parte della Corte d’appello, di un concorso di persone nel medesimo illecito, pur se nella ricostruzione della vicenda la stessa Corte ha rilevato che le condotte significative erano state poste in essere prevalentemente da Ga.Ma., assistente di G.E.. Secondo la ricorrente, la Corte d’appello si sarebbe limitata a indagare in ordine alla unitarietà del contesto temporale e spaziale nel quale maturarono gli eventi, desumendone la sostanziale riferibilità della condotta ad un unico agente, ma imputando l’illecito a più persone in asserito concorso tra loro, senza accertare le singole condotte ascrivibili a ciascuno dei concorrenti e quindi senza motivare, in particolare, l’esistenza del concorso della medesima C. all’illecito contestato.
Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 117 e 97 Cost. con riguardo alla direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio; solleva altresì questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 bis per violazione degli artt. 117 e 97 Cost., in relazione alla direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, con relativa istanza di rimessione della questione alla Corte costituzionale; denuncia, infine, la contraddittorietà della motivazione sul punto espressa dalla Corte d’appello, la quale ritenne congrua ed adeguata la misura della sanzione pecuniaria irrogata dalla CONSOB in suo danno. La censura illustra anche la violazione dei principi del diritto comunitario, vincolanti per il giudice nazionale ex art. 117 Cost., comma 1. In particolare, la ricorrente rileva che, mentre la direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio prescrive che le sanzioni siano sufficientemente dissuasive e che a tal fine debbano essere proporzionate alla gravità della violazione e agli utili realizzati e applicate coerentemente (considerando n. 38), e tiene distinte le ipotesi in cui la provenienza dell’informazione sia legata a una professione o a una funzione e quella in cui la fonte sia connessa allo svolgimento di attività criminali (considerando n. 17), ovvero ancora l’ipotesi in cui l’abuso delle informazioni venga effettuato sapendo o dovendo sapere del loro carattere privilegiato (considerando n. 18), il legislatore nazionale avrebbe accomunato nell’unico trattamento sanzionatorio più condotte di abuso di informazioni privilegiate diverse tra loro. L’art. 187 bis del TUF – contesta il ricorrente – contempla la medesima sanzione edittale per l’insider primario, per l’insider in grado di operare a seguito di attività delittuose, per gli insider secondari che agiscono con la consapevolezza della natura privilegiata della informazione della quale dispongono e per gli insider secondari che agiscono con colpa, dovendo conoscere in base all’ordinaria diligenza il carattere privilegiato della informazione. Inoltre, a tutte le categorie considerate viene applicato lo stesso regime di aggravamento della sanzione (comma 5). Nella specie, la censura dubita che la sanzione pari ad una volta e mezzo il profitto conseguito, applicata, ai sensi dell’art. 187 bis TUF, all’insider secondario, sia da ritenere efficace, proporzionata, dissuasiva e coerente.
Il quarto motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 sexies, comma 2, per avere la Corte d’appello disatteso il principio tempus regit actum, dando applicazione retroattiva alla sanzione nuova della confisca per equivalente di cui alla L. n. 62 del 2005, art. 9, comma 6, vale a dire ad una normativa meno favorevole per l’autore della condotta rispetto a quella vigente al momento della commissione del fatto.
Il quinto motivo del ricorso riguarda la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 sexies, comma 2 e della L. n. 62 del 2005, art. 9, comma 6, anche in relazione agli artt. 3 e 25 Cost. La ricorrente allega l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 187 sexies, comma 2, TUF e della L. n. 62 del 2005, art. 9, comma 6, in relazione agli artt. 3 e 25 Cost. e all’art. 117 Cost., per violazione dell’art. 7 della CEDU. Secondo la ricorrente, la confisca per equivalente avrebbe natura penalistica e funzione repressivo-punitiva ed avrebbe perciò dovuto trovare applicazione per i soli illeciti commessi successivamente all’entrata in vigore della legge che l’aveva introdotta.
Con il sesto motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 1 e si solleva il dubbio di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-sexies, comma 2 e L. n. 62 del 2005, art. 9, comma 6, per violazione dell’art. 3 Cost. e dei principi di ragionevolezza, legalità e irretroattività delle sanzioni amministrative L. n. 689 del 1981, ex art. 1. La censura si riferisce al capo della sentenza impugnata che, sul presupposto della natura amministrativa di tale tipo di confisca, ha ritenuto la stessa applicabile retroattivamente. In proposito, la ricorrente evidenzia come la discrezionalità del legislatore circa l’applicabilità retroattiva di sanzioni amministrative debba essere esercitata nei limiti della razionalità e ragionevolezza.
La settima censura del ricorso allega la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-bis, comma 5 e art. 187-sexies, comma 2, anche in relazione ai principi sanciti nella direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio. Viene così eccepita l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 sexies anche in combinato disposto con l’art. 187 bis stesso D.Lgs., per violazione dell’art. 117 Cost.. Le censure attengono ancora alla sanzione accessoria della confisca per equivalente, in riferimento alla quale il ricorrente ritiene che erroneamente la Corte d’appello ne abbia affermato l’operatività su un piano autonomo e differente da quello della sanzione principale. Per effetto di tale interpretazione la Corte d’appello ha ritenuto legittima la sanzione accessoria della confisca di beni per un valore di 6.592.665 Euro, enormemente superiore al profitto conseguito con l’illecito sanzionato.
Con l’ottavo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 bis anche in combinato disposto con l’art. 187 sexies, comma 2, TUF, in relazione all’art. 14 della direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio. Si solleva questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 sexies anche in combinato disposto con il citato art. 187 bis, per violazione degli artt. 117,3 e 97 Cost.. A conclusione del motivo la ricorrente formula il quesito di diritto se, in sede di determinazione della sanzione dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate, di cui all’art. 187 bis del testo unico della finanza, l’autorità irrogante debba attenersi – alla stregua di quanto disposto dall’art. 14 della direttiva 2003/6/CE – anche al rispetto del criterio della proporzionalità delle sanzioni in concreto applicate, e se queste ultime debbano intendersi come il complesso delle penalità amministrative irrogate all’insider, ivi compresa la misura della confisca per equivalente.
3. Vanno disattese tutte le eccezioni di inammissibilità spiegate dalla controricorrente CONSOB con riferimento ai quesiti di diritto, ex art. 366-bis c.p.c. (applicabile ratione temporis), che corredano le censure del ricorso, in quanto comunque redatti in termini tali da chiarire gli errori di diritto imputati alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie, ovvero prospettando questioni di costituzionalità, il cui accoglimento giustificherebbe la cassazione della medesima pronuncia gravata. In tal senso, i quesiti di diritto contenuti nel ricorso costituiscono una adeguata e congrua sintesi logico-giuridica delle rispettive questioni dedotte nei motivi, così da consentire a questa Corte di enunciare una regula iuris di generalizzata applicabilità (Cass. Sez. U, 30/10/2008, n. 26020; Cass. Sez. U, 24/01/2013, n. 1707).
4. Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale vanno esaminati congiuntamente, in quanto connessi, e si rivelano infondati. Le censure invocano a parametro di legittimità le disposizioni in tema di elemento soggettivo, concorso di persone e criteri applicativi delle sanzioni amministrative, sottolineando assunte carenze nella motivazione della sentenza della Corte d’appello di Brescia sotto il profilo dello scarso contributo causale, materiale e psichico, attribuibile alla C. rispetto agli altri autori dell’infrazione. Le considerazioni svolte dalla ricorrente, ispirate dalla concezione dell’illecito in esame come condotta a struttura unitaria, nella quale debbano confluire tutti gli atti dell’insider primario e degli insiders secondari, difettano di specifica riferibilità alla decisione impugnata, nè si adattano alla fattispecie normativa astratta di cui all’originario D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 180, comma 2, che era a base della contestazione mossa alla ricorrente. Tale norma, invero, puniva con la stessa pena chi, avendo ottenuto, direttamente o indirettamente, informazioni privilegiate dai soggetti indicati nel comma 1, acquistasse, vendesse o compisse altre operazioni su strumenti finanziari avvalendosi delle informazioni medesime. La condotta all’epoca sanzionata penalmente dall’art. 180, comma 2, TUF, e contestata ad C.A., non era, dunque, strutturata come forma di concorso dell’extraneus (cd. outsider) nel delitto di insider trading ascrivibile al possessore qualificato delle informazioni privilegiate, nè quindi supponeva un accordo di comune sfruttamento dell’informazione finanziaria riservata per finalità speculative. Al contrario, l’azione tipica del c.d. insider secondario (o tippee), depenalizzata dalla L. 18 aprile 2005, n. 62, e confluita nell’illecito amministrativo di cui all’art. 187 bis TUF, sostanziandosi nel solo approfittamento della comunicazione proveniente dall’insider primario, non si riferisce a condotte di ausilio morale o materiale che il soggetto privo delle qualifiche soggettive previste dalla fattispecie delittuosa apporti alla condotta speculativa dell’insider primario. Proprio l’assenza di un’efficacia eziologica o agevolatrice della condotta dell’extraneus consapevole della qualità soggettiva dell’insider primario segna il discrimine tra sanzione amministrativa e concorso di persone nel reato attualmente previsto dall’art. 184 TUF. La Corte d’appello di Brescia si è, allora, diffusamente soffermata sull’esame di fatto della condotta illecita attribuita alla C. (cfr. pagg. 19 e segg.), consistente nell’acquisto di obbligazioni UNIPOL 2000-2005 2,25%, effettuato il 18 gennaio 2002, per nominali Lire 12.765.180.000, avvalendosi dell’informazione privilegiata concerne il relativo rimborso alla pari anticipato; operazione a cui supporto era stato aperto apposito conto corrente presso il Banco di Brescia, il quale, all’uopo, aveva concesso alla medesima C. un mutuo di Lire 12.004.874.000 con scadenza 30.4.2002.
Individuata la conoscenza in capo ad G.E. dell’informazione privilegiata consistente nella decisione di procedere al rimborso anticipato delle obbligazioni, la sentenza impugnata ha ricostruito il rapporto tra C.A. e gli altri partecipanti all’operazione di trading sulla scorta della deposizione resa in sede penale da Ga.Ma. e, quanto al rapporto tra C.A. ed B.E., sulla scorta della documentazione attestante quattro operazioni di addebito, successive all’operazione UNIPOL, effettuate nei confronti di quest’ultimo dalla stessa C. (cfr. pag. 21, terzultimo e penultimo capoverso, della sentenza) – ed ha tratto in via deduttiva la prova del concerto fra G.E. e tutti gli insider secondari, per le modalità di chiusura delle operazioni di acquisto delle obbligazioni UNIPOL (pag. 23, secondo rigo, della sentenza). Di seguito, la Corte di Brescia ha considerato le difese della C. circa la successione delle vicende di causa (pagg. 25 e seguenti della sentenza), nonchè circa l’acquisizione dell’informazione privilegiata dall’insider primario (pagine 38 e seguenti), desunta dai fatti noti dell’operazione eseguita: C.A. – “piccola imprenditrice commerciale, non avvezza a manovrare cospicue somme di denaro e a effettuare ponderati investimenti – si era “pesantemente indebitata presso una banca per acquistare titoli non speculativi e, in quel periodo, non certo appetiti dal mercato” (pag. 39, primo capoverso, della sentenza); ad un mese dall’acquisto delle obbligazioni, venne poi deliberato da UNIPOL l’anticipato rimborso; sin dall’inizio di gennaio 2002, infine, negli ambienti dirigenziali UNIPOL era già maturata la decisione del rimborso anticipato delle obbligazioni. Ciò C.A. fece “in compagnia di altri cinque soggetti”, tutti in rapporti personali o di affari con G. (pagina 40, penultimo rigo della sentenza) e tutti privi della liquidità necessaria per compiere l’acquisto delle rispettive obbligazioni, mentre tutte le operazioni bancarie presso il Banco di Brescia furono coordinate da Ga.Ma., collaboratrice ed assistente dello G.. Risulta in tal modo che l’entità dalla sanzione pecuniaria, rientrante tra il minimo ed il massimo stabiliti dalla legge, sia stata commisurata dai giudici del merito alla gravità del concreto fatto illecito, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, e la statuizione adottata al riguardo non è conseguentemente censurabile in sede di legittimità (Cass. Sez. 2, 07/04/2017, n. 9126). I primi due motivi del ricorso principale invocano da questa Corte una diversa valutazione della gravità della condotta e dell’elemento soggettivo dell’agente, ma neppure il vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (qui applicabile ratione temporis nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134) conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, affidandogli la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito. La valutazione delle prove, il giudizio sull’attendibilità dei testi, la scelta di opportunità di fare ricorso a presunzioni e la selezione, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle più idonee a sorreggere la motivazione, in ordine all’accertamento della gravità di un fatto illecito, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, involgono tutti, a norma dell’art. 116 c.p.c., apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di formare il suo convincimento utilizzando i dati che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti, essendo limitato il controllo del giudice della legittimità alla sola congruenza della decisione dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova.
5. Anche il terzo motivo del ricorso è infondato nei termini di seguito precisati, altresì con riguardo ai dubbi di legittimità costituzionale prospettati in riferimento all’individuazione della sanzione amministrativa pecuniaria (lasciando all’esame dei successivi motivi la questione invece concernente l’applicazione nel caso di specie della confisca per equivalente).
La ricorrente sostiene che il sistema sanzionatorio delineato dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-bis come introdotto dalla L. n. 62 del 2005, si porrebbe in contrasto con alcuni principi contenuti nella direttiva, accomunando in un unico trattamento sanzionatorio fattispecie diverse di insider trading, così non adeguandosi ai principi di proporzionalità della sanzione alla gravità della violazione e agli utili realizzati, di dissuasività e di applicazione coerente delle sanzioni stesse, che sarebbero invece imposti dalla normativa comunitaria di cui la vigente disciplina costituisce attuazione. E’ vero che la formulazione legislativa del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 bis rimette la determinazione della sanzione all’autorità amministrativa, mentre dalla direttiva comunitaria si desume che è il legislatore – destinatario della direttiva – a dover prevedere sanzioni che siano proporzionate alla gravità della fattispecie. Tuttavia, la scelta del trattamento sanzionatorio degli illeciti costituisce espressione di discrezionalità del legislatore, sindacabile in sede di legittimità costituzionale solo nel caso in cui essa risulti manifestamente irragionevole o arbitraria. Inoltre, appare coerente la risposta offerta in proposito dalla Corte d’appello, nel senso di ritenere che l’illecito di insider trading ha un suo nucleo essenziale, costituito dalla utilizzazione di una informazione privilegiata e che, quindi, ciò che il legislatore intende sanzionare è l’abuso di una posizione privilegiata. Rispetto a tale nucleo, le modalità di acquisizione dell’informazione contribuiscono a delineare il fatto in termini di maggiore o minore gravità, apprezzabile in sede di valutazione della condotta illecita che in concreto viene posta in essere, e ciò rende ragionevole l’adozione di una tecnica legislativa che rimette in concreto all’autorità regolatrice l’individuazione della sanzione pecuniaria amministrativa più adeguata alle specificità del caso. D’altra parte, la soluzione apprestata non si pone in contrasto con la normativa comunitaria, atteso che le indicazioni della direttiva non impedivano che la scelta della sanzione da applicare per le singole fattispecie di illecito sanzionate avvenga nell’ambito di una forbice edittale ampia, idonea proprio a consentire di graduare la sanzione in relazione alla gravità dell’illecito. Inoltre, la scelta dell’autorità amministrativa nella determinazione della sanzione è soggetta al controllo da parte dell’autorità giudiziaria in sede di giudizio di opposizione. Le fattispecie comprese nel D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 bis e perciò riconducibili al trattamento sanzionatorio ivi apprestato sono molteplici e diversamente rilevanti sul piano della gravità; la ampiezza della forbice esistente tra il minimo e il massimo della sanzione amministrativa pecuniaria risponde dunque alla necessità di rendere effettive e dissuasive le sanzioni previste, tenuto conto della natura delle condotte sanzionate, della rilevanza degli interessi coinvolti, dei benefici ritraibili dalla commissione dell’illecito e delle condizioni economiche dei soggetti agenti.
Dissipati i dubbi sulla legittimità costituzionale sollevati dalla ricorrente in ordine alla regolazione legislativa della misura della sanzione amministrativa pecuniaria, va poi disattesa la doglianza secondo la quale la corte territoriale non avrebbe fatto buon governo di tale disciplina.
Al riguardo va preliminarmente ribadito, anche con riferimento al terzo mezzo di impugnazione il principio – espresso da questa Sezione nella sentenza n. 9126/17, già sopra citata nell’esame dei primi due motivi di ricorso – che, nel procedimento di opposizione avverso le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per violazione del TUF, la quantificazione dell’entità della sanzione costituisce esercizio di un potere del giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità, ove risultino rispettati i limiti edittali e dalla motivazione emerga come, nella determinazione della sanzione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dalla L. n. 689 del 1981, art. 11 quali la gravità della violazione, la personalità dell’agente e le sue condizioni economiche.
Tanto premesso, merita poi espressa confutazione la ricostruzione prospettata dalla ricorrente secondo cui la CONSOB avrebbe applicato una sanzione che, essendo pari ad una volta e mezzo l’entità del profitto realizzato, si porrebbe per ciò solo nell’ambito dell’apprezzamento della particolare gravità della condotta, che giustifica, ai sensi dell’art. 187 bis, comma 5, TUF “l’aumento fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate”. Detto aumento può essere applicato quando, per le qualità personali del colpevole o per l’entità del prodotto o del profitto conseguito dall’illecito, la sanzione appaia inadeguata anche se applicata nel massimo. Pertanto, quando la sanzione concretamente applicata, ancorchè eventualmente corrispondente ad un multiplo del profitto o del prodotto conseguito dall’illecito, si collochi comunque all’interno della forbice tra minimo e massimo edittale, si è fuori dal campo operativo del comma 5 dell’art. 187 bis TUF.
6. Il quarto, il quinto ed il sesto motivo del ricorso principale sono fondati, rimanendo conseguentemente assorbiti i motivi settimo ed ottavo.
Va premesso come la valutazione negativa che la Corte d’appello di Brescia aveva compiuto circa la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. 18 aprile 2005, n. 62, art. 9, comma 6, in relazione all’applicabilità dell’art. 187 sexies TUF alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa L. n. 62 del 2005, non può costituire in senso proprio oggetto di un motivo di ricorso per cassazione, trattandosi di provvedimento di natura puramente ordinatori (benchè ricompreso nel testo della sentenza) e, d’altra parte, di questione che può essere riproposta in ogni grado di giudizio dalla parte interessata, oltre che rilevata d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio, purchè essa risulti rilevante, in connessione con la decisione di questioni sostanziali o processuali che siano state ritualmente dedotte nel processo (ed in ciò sta altresì l’infondatezza del primo motivo del ricorso incidentale della CONSOB). Tuttavia, le doglianze relative alla decisione assunta dalla Corte di Brescia sulla questione di legittimità costituzionale non si presentano come fini a se stesse, ma hanno funzione strumentale in relazione all’obiettivo di conseguire una pronuncia più favorevole di quella resa con la sentenza impugnata, atteso che il ricorso investe sostanzialmente il punto della sentenza regolato dalla norma giuridica la cui costituzionalità è contestata (Cass. Sez. L, 29/10/2003, n. 16245; Cass. Sez. 5, 19/01/2018, n. 1311; Cass. Sez. 2, 16/04/2018, n. 9284).
Tanto premesso, il Collegio osserva che, come già evidenziato, il fatto contestato alla ricorrente C. – nella sua qualità di insider cosiddetto secondario – risaliva ad epoca in cui tale fatto era previsto come reato ai sensi D.Lgs. n. 58 del 1998, previgente art. 180, comma 2.
Come del pari già evidenziato, la Corte costituzionale, con sentenza n. 223 del 5 dicembre 2018, ha giudicato fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata da questa Corte con numerose ordinanze – tra cui l’ordinanza n. 26084/17, resa nel presente giudizio ed ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. 18 aprile 2005, n. 62, art. 9, comma 6, nella parte in cui prevede che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187 sexies TUF si applica, allorchè il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa L. n. 62 del 2005, quando il complessivo trattamento sanzionatorio conseguente all’intervento di depenalizzazione risulti in concreto più sfavorevole di quello applicabile in base alla disciplina previgente. Nella motivazione della sentenza n. 223/18 la Corte costituzionale ha evidenziato che “la presunzione di maggior favore del trattamento sanzionatorio amministrativo rispetto al previgente trattamento sanzionatorio penale nell’ipotesi di depenalizzazione di un fatto precedentemente costitutivo di reato non può che intendersi, oggi, come meramente relativa, dovendosi sempre lasciare spazio alla possibilità di dimostrare, caso per caso, che il nuovo trattamento sanzionatorio amministrativo previsto dalla legge di depenalizzazione risulti in concreto più gravoso di quello previgente. Con conseguente illegittimità costituzionale dell’eventuale disposizione transitoria che ne preveda l’indefettibile applicazione anche ai fatti pregressi, per violazione dell’art. 25, comma 2, Cost.” (p. 6.2, ultimo cpv). Può incidentalmente rilevarsi come tali principi si stiano consolidando nella giurisprudenza costituzionale, essendo stati ribaditi da ultimo in C. Cost. 21 marzo 2019, n. 63, che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72, art. 6, comma 2, (nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187 bis TUF, nonchè per l’illecito di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 ter), ha evidenziato la natura sostanzialmente punitiva della sanzione amministrativa pecuniaria e della confisca per equivalente previste per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate (peraltro richiamando Corte di giustizia dell’Unione Europea, sentenza 20 marzo 2018, Di Puma e altri, in cause C-596/16 e C-596/16, p. 38, circa la natura “penale”, ai sensi dell’art. 50 CDFUE, di tale sanzione), con conseguente soggezione alle garanzie che la Costituzione e la CEDU assicurano alla materia penale, ivi compresa la garanzia della retroattività della lex mitior.
Si tratta quindi si stabilire se il trattamento sanzionatorio previsto per l’illecito amministrativo di cui al nuovo art. 187 bis TUF – sulla cui base ad C.A. è stata applicata la sanzione pecuniaria di Euro 705.579, la sanzione accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi per un periodo di nove mesi e la confisca di beni di sua proprietà per un valore di Euro 6.592.665 – risulti in concreto più sfavorevole di quello applicabile in base alla disciplina del previgente art. 180, comma 2, TUF.
La previgente disciplina prevedeva la reclusione fino a due anni, la multa per un importo da venti a seicento milioni di lire (aumentabile sino al triplo in presenza di particolari circostanze), le pene accessorie previste dagli artt. 28,30,32 bis e 32 ter c.p. per una durata non inferiore a sei mesi e non superiore a due anni e la pubblicazione della sentenza su almeno due quotidiani, di cui uno economico, a diffusione nazionale; nonchè la confisca (diretta) dei mezzi utilizzati per commettere il delitto e dei beni che ne costituiscono il profitto. L’eventuale sospensione condizionale della pena avrebbe, peraltro, consentito all’autore del delitto di sottrarsi a tutte le sanzioni in questione, con la sola eccezione della confisca; e, in ogni caso, avrebbe dovuto essere applicato ratione temporis l’indulto previsto dalla L. 31 luglio 2006, n. 241.
La disciplina sopravvenuta per effetto della L. n. 62 del 2005 prevede, invece: una sanzione amministrativa pecuniaria da ventimila Euro a tre milioni di Euro (aumentabile fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dall’illecito in presenza di particolari circostanze), poi quintuplicata, successivamente dequintuplicata e ora compresa tra ventimila Euro e cinque milioni di Euro; le sanzioni amministrative accessorie previste dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 quater; la confisca amministrativa (diretta) del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo o, alternativamente, la confisca amministrativa di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente a tale prodotto o profitto e ai beni utilizzati per commettere l’illecito. Nessuna di tali sanzioni amministrative può essere sospesa; nè può in alcun modo operare, rispetto a sanzioni amministrative, l’indulto previsto dalla menzionata L. n. 241 del 2006.
Tutto ciò premesso, se si guarda alla reale carica di afflittività della sanzione dal punto di vista della ricorrente, è agevole rendersi conto che quest’ultima – per la quale non risultano situazioni impeditive del beneficio della sospensione condizionale della pena – si è vista sottrarre la possibilità di usufruire di tale beneficio (che si estende anche alle pene accessorie), nonchè, quanto meno, del beneficio della conversione della pena detentiva in pena pecuniaria (che avrebbe portato ad una multa inferiore perfino rispetto a quella inflittale con la sola sanzione amministrativa pecuniaria applicata in via principale, senza tener conto della ulteriore sanzione accessoria della confisca per equivalente), e, infine, dell’indulto; soprattutto, alla fattispecie non sarebbe stata applicabile la sanzione accessoria della confisca per equivalente ex art. 186 sexies del TUF.
A quest’ultimo proposito va qui sottolineato, ribadendo quanto già affermato nell’ordinanza n. 26084/17 di sollevazione della questione incidentale di costituzionalità, che ciò che risulta determinante ai fini della valutazione di maggiore gravosità del regime sanzionatorio attuale rispetto a quello previgente è proprio l’applicazione retroattiva della sanzione accessoria della confisca per equivalente D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 186 sexies sanzione non prevista e non prevedibile al momento della consumazione dell’illecito. Detta sanzione accessoria, infatti, determina una sproporzione nella pena complessivamente inflitta, rispetto a quella che sarebbe scaturita dall’applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, citato art. 180 tale da rappresentare l’elemento che rende in concreto maggiormente afflittivo il complessivo trattamento sanzionatorio derivante dalla legge di depenalizzazione.
Nei confronti di C.A., dunque, il trattamento sanzionatorio previsto per il reato di cui al previgente art. 180, comma 2, TUF sarebbe stato in concreto complessivamente più favorevole di quello risultante all’esito della depenalizzazione, caratterizzato dalla applicazione di una sanzione pecuniaria di certa riscossione, di ammontare massimo notevolmente superiore e, si ribadisce, corredata di una sanzione accessoria del tutto nuova, imprevedibile ed estremamente gravosa quale quella della confisca per equivalente per un valore pari a Euro 6.592.665.
Dalla declaratoria di incostituzionalità della L. n. 62 del 2005, art. 9, comma 6, discende allora che nella fattispecie in esame non può (e non poteva) applicarsi in via retroattiva la sanzione accessoria della confisca per equivalente, essendo gli illeciti risalenti a data antecedente l’introduzione della suddetta misura.
I motivi quarto, quinto e sesto del ricorso vanno pertanto accolti e la sentenza impugnata, che aveva ritenuto legittima la sanzioni previste dalla disciplina dichiarata incostituzionale, ovvero, in particolare, la confisca per equivalente, va cassata.
Restano assorbiti, come già accennato, gli ultimi due motivi di ricorso, pur essi attinenti alla applicazione della confisca per equivalente.
7. Conformemente a quanto richiesto nella memoria ex art. 378 c.p.c. della ricorrente, deve procedersi alla decisione della causa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, potendo la controversia essere giudicata in base ai medesimi accertamenti ed apprezzamenti di fatto che costituiscono i presupposti dell’errato – e perciò cassato – giudizio di diritto. In conseguenza dell’annullamento della sentenza impugnata nel punto relativo al trattamento sanzionatorio, non si rende, invero, necessaria la pronuncia su questioni non esaminate nella pregressa fase di merito. L’opposizione proposta da C.A. avverso la Delib. CONSOB 4 luglio 2007, n. 16018 va dunque accolta limitatamente all’applicazione disposta della confisca per equivalente di beni di sua proprietà per un valore di 6.592.665, ai sensi dell’art. 187 sexies TUF, avendo tale misura determinato un trattamento sanzionatorio più sfavorevole per l’interessata rispetto a quello applicabile in base alla disciplina previgente, fermo il maggior favore delle restanti sanzioni amministrative rispetto alle precedenti sanzioni penali.
Le domande di restituzione conseguenti alla sentenza di cassazione, pure con decisione della causa nel merito, e correlate al parziale annullamento del provvedimento irrogativo della confisca per equivalente, vanno comunque proposte alla Corte d’appello di Brescia, che ha pronunciato la sentenza cassata, in base alla generale regola stabilita dall’art. 389 c.p.c.. Questa Corte ha infatti più volte ribadito che in sede di legittimità non è mai ammissibile una pronuncia di restituzione delle somme corrisposte sulla base della sentenza cassata, neanche nel caso in cui la Corte di cassazione, annullando la sentenza impugnata, decida la causa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., in quanto per tale domanda accessoria non opera, in mancanza di espressa previsione, l’eccezione al principio generale secondo cui alla Corte compete solo il giudizio rescindente, sicchè la stessa, ove il pagamento sia avvenuto sulla base della sentenza annullata, va proposta al giudice che ha pronunciato quest’ultima, a norma dell’art. 389 c.p.c., il quale attribuisce alla Corte di cassazione, senza eccezione alcuna, il solo giudizio rescindente (tra le tante, sentt. nn. 12218/12 e 667/16):
8. Dovendosi provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, nonchè del precedente giudizio davanti alla Corte d’appello, si ravvisano giusti motivi per compensare integralmente le stesse fra le parti, in ragione della notevole complessità delle questioni di diritto affrontate, che hanno portato anche ad un rilievo incidentale di incostituzionalità, all’esito del quale l’opposizione proposta è risultata parzialmente fondata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo, il secondo ed il terzo motivo di ricorso, accoglie il quarto, il quinto ed il sesto e dichiara assorbiti il settimo e l’ottavo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo la causa nel merito, accoglie parzialmente l’opposizione proposta da C.A. contro la Delib. CONSOB 4 luglio 2007, n. 16018 che annulla limitatamente alla disposta applicazione della confisca per equivalente, ai sensi dell’art. 187 sexies TUF, in relazione alla L. n. 62 del 2005, art. 9, comma 6.
Compensa per intero tra le parti le spese del giudizio di cassazione e del precedente giudizio davanti alla Corte d’appello di Brescia.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2019
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