LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27624-2017 proposto da:
S.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ALUMIERE 15, presso lo studio dell’avvocato COLICA ROBERTO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
N.B., COMUNE DI CARDINALE;
– intimati –
avverso la sentenza n. 2016/2016 della CORTE, D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 09/12/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 06/06/2019 dal Consigliere Relatore Dott. SCODITTI ENRICO.
RILEVATO
Che:
S.N. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Catanzaro il Comune di Cardinale e N.B. chiedendo la condanna del Comune al pagamento della somma di Euro 14.315,11 a titolo di indebito arricchimento e la condanna di entrambi i convenuti in solido al risarcimento del danno nella misura di Euro 100.000,00. Espose l’attore di essere stato condannato in qualità di sindaco con sentenza passata in cosa giudicata al pagamento della somma di Euro 6.092,18 a titolo di corrispettivo dei lavori eseguiti dall’impresa individuale P.A. in favore del Comune di Cardinale in quanto eseguiti in mancanza di formale delibera e del necessario impegno di spesa e di avere sostenuto le relative spese legali e di procedura esecutiva, subendo gravi danni morali. Il Tribunale adito rigettò la domanda. Avverso detta sentenza propose appello il S.. Con sentenza di data 9 dicembre 2016 la Corte d’appello di Catanzaro rigettò l’appello.
Osservò la corte territoriale che l’inciso nella sentenza passata in giudicato “salva ogni eventuale rivalsa nei confronti degli altri responsabili” non costituiva giudicato in favore del S. ma un mero obiter dictum circa la mera possibilità per costui di agire nei confronti di coloro che avessero eventualmente contribuito all’esecuzione dei lavori in assenza della necessaria delibera di autorizzazione e impegno di spesa. Aggiunse che il dedotto arricchimento del Comune non poteva ritenersi ingiusto essendo dipeso dalla condotta volontaria del S. il quale non poteva ignorare la disciplina sugli impegni di spesa, nè poteva fare affidamento su un successivo riconoscimento del debito fuori bilancio preannunciato dal sindaco subentrato (B. Nisticò), sicchè non doveva egli ratificare i lavori aggiuntivi eseguiti dall’impresa stipulando il relativo atto di sottomissione (dovendosi così intendere che gli obblighi contrattuali erano stati assunti in proprio dall’amministratore ai sensi del D.L. n. 66 del 1989, art. 23, comma 4). Aggiunse ancora che, avuto riguardo alla ratio del D.L. n. 66 del 1989 che è quella di sanzionare l’amministratore che violi il divieto di impegnare l’ente locale in mancanza di preventiva delibera di autorizzazione e del relativo impegno di spesa, ammettere l’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della P.A. da parte del funzionario significava svuotare la detta ratio. Osservò inoltre che “ad ogni modo, laddove si volesse astrattamente ammettere l’azione per cui è causa, non si potrebbe fare a meno di rilevare che in primo grado parte attrice non abbia in alcun modo dimostrato la ricorrenza del requisito dell’utilitas (nei termini precisati da Cass. SU 10798/2015) in relazione ai lavori aggiuntivi eseguiti dall’impresa, nè a tale carenza probatoria potrebbe porsi rimedio con la CTU chiesta nel presente grado di giudizio, avendo mere finalità esplorative”. Aggiunse che il mancato riconoscimento del debito fuori bilancio da parte del Comune militava, in difetto di prove di segno contrario, per l’assenza del dedotto arricchimento (peraltro privo di collegamento con le spese legali e quelle della procedura esecutiva) e che, quanto ai danni morali pretesi nei confronti di entrambi i convenuti, assorbente (come affermato dal primo giudice con statuizione, non specificatamente impugnata, secondo cui il rigetto della domanda principale comportava il rigetto di quella risarcitoria) era il rilievo dell’assenza a monte di profili di responsabilità da fatto illecito rispetto agli asseriti danni (ritenuti dal primo giudice ad abundantiam non provati).
Ha proposto ricorso per cassazione Nicola S. sulla base di sette motivi (non avendo natura di motivo quello definito come primo motivo). Il relatore ha ravvisato un’ipotesi d’inammissibilità del ricorso. Il Presidente ha fissato l’adunanza della Corte e sono seguite le comunicazioni di rito. E’ stata presentata memoria.
CONSIDERATO
Che:
con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente che il tema del riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito, dopo Cass. Sez. U. n. 10798 del 2015, non rappresenta un requisito dell’azione di indebito arricchimento.
Con il secondo motivo si denuncia omessa valutazione di prova ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva il ricorrente, premesso che nell’atto di appello era stato affermato che il riconoscimento implicito dell’utilità dell’opera poteva promanare anche dagli organi rappresentativi dell’ente mediante comportamenti, che il teste F.G. aveva dichiarato di avere avuto incarico dall’amministrazione N., in qualità di progettista e direttore dei lavori, di redigere il progetto e provvedere all’esecuzione dei lavori e che il teste C., responsabile tecnico del Comune, aveva dichiarato che la pratica relativa al rilascio del parere di conformità era stata richiesta dal sindaco N.B.. Aggiunge che quest’ultimo alla medesima udienza aveva dichiarato di avere sollecitato la pratica per il rilascio di un parere per il riconoscimento del debito fuori bilancio e che l’utilità dell’opera era stata pertanto riconosciuta dai tecnici del Comune e dal sindaco.
Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente che il depauperato ha il solo onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento.
Con il quarto motivo osserva il ricorrente che l’utilitas era in re ipsa, essendo a completamento dell’opera assentita e che era stato ingenerato l’affidamento in ordine al riconoscimento del debito fuori bilancio.
Con il quinto motivo osserva il ricorrente che l’utilitas dell’opera era stata confermata dalle prove orali e che la CTU non era stata disposta per essere stata data per acquisita la detta utilitas.
Con il sesto motivo osserva il ricorrente che dalla motivazione non si evincono le ragioni di fatto e di diritto per le quali sia stata disattesa la domanda nei confronti del N..
Con il settimo motivo il ricorrente richiama “a parola le pregresse difese che debbono intendersi riproposte a parola” circa il giudicato interno formatosi a proposito del diritto ad agire in rivalsa nei confronti dei responsabili affermato dalla sentenza passata in cosa giudicata. Osserva inoltre che la misura dell’indennizzo deve essere rapportata alla diminuzione patrimoniale patita e non anche al lucro cessante.
Il ricorso è improcedibile. Il ricorso è stato notificato in ti-telematica e la notifica è priva di autenticazione (cfr. Cass. Sez. U. n. 22438 del 2018).
Il ricorso è peraltro anche inammissibile.
Il settimo motivo, avente carattere pregiudiziale in quanto riferito ad un dedotto giudicato, è inammissibile. Il ricorrente denuncia una violazione di giudicato “interno” (in realtà esterno) mediante il rinvio a “pregresse difese” di cui il ricorso non dà contezza. Già per tale aspetto il motivo difetta di specificità e resta sul piano di una generica enunciazione di censura. Il motivo è anche generico in quanto non illustra le ragioni per le quali l’astratto riconoscimento di un diritto ad agire in rivalsa nei confronti di soggetti responsabili possa spiegare efficacia di giudicato nel presente giudizio (a parte il profilo dei limiti soggettivi dell’asserito giudicato con riferimento a N.B.).
Va inoltre rammentato che il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo (Cass. n. 359 del 2005, cui conformi Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017 e Cass. n. 4741 del 2005).
Il motivo è infine da intendere assorbito quanto alla misura dell’indennizzo.
Passando agli ulteriori motivi, essi sono inammissibili per difetto di decisività. Il giudice di merito ha affermato che, avuto riguardo alla ratio del D.L. n. 66 del 1989 che è quella di sanzionare l’amministratore che violi il divieto di impegnare l’ente locale in mancanza di preventiva delibera di autorizzazione e del relativo impegno di spesa, ammettere l’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della P.A. da parte del funzionario significava svuotare la detta ratio. Tale affermazione, costituente autonoma ratio decidendi, non è stata impugnata dal ricorrente, svuotando di decisività le censure sollevate. I singoli motivi palesano comunque ulteriori profili di inammissibilità.
Il primo ed il terzo motivo sono inammissibili. Va premesso che il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicchè il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di “arricchimento imposto” (Cass. Sez. U. 26 maggio 2015, n. 10798). I motivi di censura rinviano a tale principio di diritto ma restano privi di decisività in quanto restano estranei alla ratio decidendi secondo cui in primo grado parte attrice non ha “in alcun modo dimostrato la ricorrenza del requisito dell’utilitas (nei termini precisati da Cass. SU 10798/2015) in relazione ai lavori aggiuntivi eseguiti dall’impresa”. Tale ratto, proprio sulla base del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, è nel senso che il depauperato non ha provato il fatto oggettivo dell’arricchimento.
Il secondo motivo è inammissibile. Il ricorrente denuncia l’omesso esame di prove testimoniali deducendo, quale profilo di decisività, la circostanza che dalle dette prove dovrebbe desumersi il riconoscimento dell’utilità da parte dell’opera da parte del Comune. Il vizio motivazionale è dedotto rispetto ad una circostanza priva di decisività avuto riguardo alla ratio decidendi indicata a proposito dei motivi precedenti, e cioè quella dell’assenza di prova del fatto oggettivo dell’arricchimento, essendo irrilevante invece la circostanza del riconoscimento dell’utilità. Ed invero le testimonianze sono state richiamate dal ricorrente non in funzione della prova del fatto dell’arricchimento ma in funzione della dimostrazione della circostanza del riconoscimento da parte dell’amministrazione.
Ove si ritenga che il riconoscimento possa costituire indice inferenziale del fatto dell’arricchimento, e che dunque la decisività delle prove testimoniali sia da collegare a quest’ultimo aspetto, va rammentato che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053). Nella specie la circostanza dell’utilitas dei lavori è stata valutata dal giudice di merito.
Il quarto e quinto motivo sono inammissibili perchè chiaramente orientati ad un giudizio di fatto diverso da quello svolto dal giudice di merito. La valutazione della prova è riservata a quest’ultimo e si tratta di sindacato precluso nella presente sede di legittimità (cfr. Cass. Sez. U. n. 16598 del 2016 e Cass. n. 11892 del 2016).
Il sesto motivo è inammissibile per difetto di decisività per non essere stata impugnata l’affermazione del giudice di appello, costituente autonoma ratio decidendi, secondo cui la statuizione del primo giudice per la quale il rigetto della domanda principale comporta il rigetto di quella risarcitoria non è stata impugnata. Il motivo sarebbe comunque manifestamente infondato avendo in ordine al rigetto della domanda risarcitoria il giudice di merito specificatamente motivato nel senso dell’assenza a monte di profili di responsabilità da fatto illecito rispetto agli asseriti danni.
Nulla per le spese del giudizio di cassazione, stante la mancata partecipazione delle parti intimate Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
Dichiara l’improcedibilità del ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 6 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2019