Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.26817 del 21/10/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25843/2017 R.G. proposto da:

M.P.R., rappresentato e difeso dall’Avv. Salvatore Magrì, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Arenula, n. 16;

– ricorrente –

contro

V.G.P., rappresentato e difeso dall’Avv. Roberto Dinato, con domicilio eletto in Roma, Viale Parioli, n. 79/H, presso lo studio dell’Avv. Pio Corti;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano, n. 3417/2017, depositata il 20 luglio 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 maggio 2019 dal Consigliere Emilio Iannello.

RILEVATO

che:

1. In data 28/5/2012 V.E. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Varese M.P.R. chiedendone la condanna alla restituzione dell’importo di Euro 327.000, che affermò di avergli consegnato a titolo di fondo cassa per l’espletamento del mandato conferitogli poco meno di quattro anni prima per il compimento delle pratiche successorie e l’accertamento dell’asse ereditario relitto dal defunto M.F.: ciò a seguito della revoca del mandato cui il V. dedusse essersi determinato a fronte della mancata rendicontazione delle spese.

Il M. eccepì la prescrizione del credito e domandò in via riconvenzionale la condanna dell’attore al pagamento di Euro 250.000 a titolo di compenso per l’attività svolta e dell’ulteriore somma di Euro 100.000 quale risarcimento per la revoca del mandato, asseritamente illegittima.

Con sentenza del 1 aprile 2016 il tribunale, ritenuta incontestata la consegna del predetto fondo cassa e accertata l’inidoneità dei documenti prodotti dal convenuto a giustificarne l’impiego, accolse la domanda del V., respingendo l’eccezione di prescrizione (attesa la ritenuta natura contrattuale della pretesa azionata) e rigettando altresì, per mancanza di prova, le domande svolte in via riconvenzionale.

2. Con la sentenza in epigrafe, pronunciata in contraddittorio di V.G.P. (erede di V.E. nelle more deceduto), la Corte d’appello di Milano ha rigettato il gravame interposto dal soccombente, confermando in ciascuno dei predetti passaggi la decisione di primo grado.

3. Avverso tale sentenza M.P.R. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi; vi resiste V.G.P., depositando controricorso.

3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

CONSIDERATO

che:

1. Il primo motivo di ricorso è così descritto in rubrica:

I) Violazione degli artt. 17l9 e 2043 c.c., in quanto la Corte territoriale avrebbe individuato la responsabilità del ricorrente nella violazione degli obblighi del mandante ex art. 1719 c.c., errata ricostruzione della fattispecie concreta, da cui emerge la l’insufficiente, contraddittoria od omessa motivazione del provvedimento impugnato art. 360 c.p.c., ex comma n. 5. Il mandato, ai sensi dell’art. 1703 c.c., è il contratto con il quale una parte si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra.

Sostiene il ricorrente, in buona sostanza, che la pretesa azionata da controparte avrebbe dovuto essere qualificata come extracontrattuale ed essere dunque soggetta alla prescrizione quinquennale; ciò in quanto – egli afferma – la chiesta restituzione delle somme non rientra tra gli obblighi contrattuali tipici del contratto di mandato e piuttosto la pretesa restitutoria avrebbe fondamento extracontrattuale, nascendo dall’avere egli trattenuto senza motivo le somme consegnate per l’esecuzione del mandato, incorrendo pertanto nel reato di appropriazione indebita.

1.1. La censura si appalesa inammissibile.

La tesi, proposta nel giudizio di gravame con il secondo motivo di appello, è stata respinta dalla Corte di merito, che l’ha giudicata “meramente pretestuosa”, sul rilievo che non si può “fondatamente dubitare della natura “contrattuale” della domanda di ripetizione delle somme divenute indebite in seguito alla revoca del mandato” e che “le somme oggetto di lite sono state corrisposte dal V. al M. per l’esecuzione del mandato e chieste in ripetizione per la mancata rendicontazione delle eventuali spese, circostanza che non risulta ancora idonea (nè in fatto nè in diritto) a provare l’indebita appropriazione del danaro, posto che si limita ad attestarne il mancato utilizzo”.

Con tale motivazione il ricorrente non si confronta affatto, limitandosi a riproporre in termini meramente assertivi e oppositivi la tesi già motivatamente respinta dal giudice di merito.

Lungi dunque dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, mediante una specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme evocate in rubrica, si volge in sostanza a sollecitare una diversa qualificazione della domanda, in tal modo non solo muovendosi su un piano censorio diverso da quello espressamente dedotto, ma in ogni caso omettendo in tale prospettiva di osservare gli oneri di specifica indicazione degli atti su cui la doglianza è fondata, in palese violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

A fronte della esposta qualificazione della domanda da parte del giudice di merito, la censura, invero, avrebbe dovuto essere mirata a contestare la correttezza della qualificazione della domanda e dunque a prospettare un error in procedendo, offrendo altresì gli elementi idonei a consentire con immediatezza il controllo demandato alla Cassazione, trascrivendo il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado e localizzandolo nel fascicolo processuale del giudizio di legittimità.

E’ stato al riguardo più volte chiarito, con fermo indirizzo, che anche in ipotesi di denuncia di un error in procedendo l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità, presuppone, comunque, l’ammissibilità del motivo di censura, cosicchè il ricorrente è tenuto – in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, che deve consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo demandatogli del corretto svolgersi dell’iter processuale – non solo ad enunciare le norme processuali violate, ma anche a specificare le ragioni della violazione, in coerenza a quanto prescritto dal dettato normativo, secondo l’interpretazione da lui prospettata e ciò già anteriormente all’introduzione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, (cfr. ex plurimis Cass. nn. 5148 del 2003; 20405 del 2006; 21621 del 2007).

Con specifico riferimento alla vigenza dell’art. 366 c.p.c., n. 6, merita, in particolare, rammentare che le Sezioni Unite di questa Corte, intervenendo sull’esegesi del diverso onere di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, hanno confermato, anche per gli atti processuali, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità, del contenuto degli stessi atti e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè dei dati necessari al loro reperimento (cfr. Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22726) e, con più specifico riferimento alla deduzione dell’error in procedendo, hanno, altresì, puntualizzato che il Giudice di legittimità è bensì investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077).

Tali oneri risultano inadempiuti nel caso di specie, palesando la censura, come detto, un contenuto meramente assertivo e del tutto astratto, da ogni pertinente allegazione sul contenuto della domanda introduttiva.

2. Il secondo motivo è così testualmente intitolato:

2) Errata applicazione di norme processuali ex art. 360 c.p.c., comma 4, in quanto la Corte ha fondato la propria decisione su un fatto erroneamente qualificato come non contestato (a fronte, invece della specifica contestazione dello stesso) nonchè per la mancata corretta valutazione di fatti di causa e l’errata ricostruzioni della fattispecie concreta, da cui emerge la l’insufficiente, contraddittoria od omessa motivazione del provvedimento impugnato art. 360 c.p.c., ex comma n. 5.

Lamenta il ricorrente che la Corte d’appello, come già il primo giudice, abbia ritenuto non contestata la circostanza della dazione della somma di danaro chiesta in restituzione dal V., sebbene questi non ne abbia fornito la prova.

Sostiene che i giudici, al riguardo, hanno errato “nell’interpretare e nel considerare” i suoi scritti difensivi, assumendo che nella ricostruzione degli eventi ivi operata “si delinea una vicenda diametralmente opposta a quella riassunta dal V., ove viene spiegato nel dettaglio l’attività del M. ed il mancato incasso da parte di questi di somme del proprio rappresentato”.

Premesso che, con tali difese, egli non aveva contestato “il fatto di aver ricevuto dal V. una determinata somma di denaro, ma… (aveva obiettato)… il fatto che la propria rendicontazione… (era)… corretta ed esaustiva”, e ciò “al fine di dimostrare di non essersi appropriato di somme non dovute”, lamenta che poi tale dimostrazione non gli era stata consentita.

Rileva comunque che a pagina 12 della propria comparsa egli aveva contestato la totale assenza di prove a supporto della effettiva redazione del denaro e che piuttosto le domande di controparte si basavano esclusivamente sulla relazione da lui redatta per descrivere l’attività svolta in assolvimento del mandato: relazione che però – afferma -non costituisce riconoscimento di debito.

2.1. Anche tale censura si appalesa inammissibile.

Essa pure non fa altro che riproporre una tesi difensiva già dedotta a fondamento dell’appello (con il primo motivo di gravame) e respinta dalla Corte di merito sulla base delle seguenti considerazioni:

“l’onere di contestazione ex art. 115 c.p.c., deve essere assolto nel primo atto disponibile (il che, nel caso di specie, coincide con la comparsa di costituzione e risposta), la Corte non ha potuto rinvenire negli atti della parte convenuta in primo grado nè una specifica contestazione sul punto, nè, come preteso dal’appellante, una versione dei fatti tempestivamente offerta (in comparsa di risposta) che apparisse nel complesso incompatibile con la circostanza allegata. Infatti, non soltanto il M. ha inteso giustificare con i documenti nel complesso prodotti l’impiego di quanto ricevuto (così implicitamente ammettendo la dazione delle somme oggetto del contendere), ma ha anche confermato espressamente che “il tutto era costato a me rappresentante legale di V. Euro 280.000, questo per dare rendicontazione” (cfr doc. 4 M., pag. 13) e altresì ha dato atto espressamente della ricezione e dell’impiego della somma complessiva di Euro 327.000 (cfr. doc. 4, ultime due pagine, fasc. M.). Da ultimo, la parte appellante, pur eccependo di aver offerto una versione dei fatti in primo grado incompatibile con quanto affermato dal V., non ha indicato con la necessaria precisione in quali elementi della propria versione di fatto si manifesterebbe l’asserita incompatibilità”.

In particolare – si nota a pag. 5 della sentenza, in calce – “non assolve a tale funzione: nè quanto affermato nella comparsa di risposta a p. 2 (“con il presente atto si costituisce in giudizio il Signor M.P.R…. il quale contesta integralmente le domande formulate nei propri confronti…”), affermazione che si contraddistingue per la sua natura “di stile” e per la sua assoluta genericità; nè quanto affermato al punto n. 19, in cui si legge “nonostante la procura… agiva sempre previa consultazione ed autorizzazione”, poichè inconferente rispetto alla dazione; nè, da ultimo, la contestazione a pag. 12, in cui si legge “l’attore non ha assolto alcun onere probatorio sullo stesso gravante, in quanto non è stato in grado di indicare, nemmeno per un singolo Euro, da dove provenivano i soldi di cui pretende oggi la restituzione, quando ed in quali quantità essi sono stati eventualmente consegnati… e per fare cosa gli sono stati consegnati… “, poichè, così discorrendo, non è negata in sè e per sè la dazione, nè è specificamente offerta una valida ricostruzione alternativa dei fatti contestati. Di talchè tutte le contestazioni, come sopra riportate, debbono considerarsi parimenti generiche”.

Si osserva, infine, conclusivamente sul punto, in sentenza, che “la somma consegnata a titolo di “fondo spese” non ha trovato adeguata giustificazione non soltanto al momento della richiesta di rendiconto, ma neppure negli elementi offerti dalla parte convenuta in primo grado, poichè dalla genericità dei “rendiconti” prodotti e dalla documentazione tutta versata in atti non è possibile desumere con un grado di precisione sufficientemente apprezzabile, nè l’effettivo impiego del denaro consegnato, nè la causa degli eventuali pagamenti”.

La censura, nei termini sopra riassunti, non si confronta in alcun modo con tali motivazioni; non offre argomenti che non siano stati già considerati dal giudice d’appello, nè comunque ragioni che palesino l’inconsistenza logica o l’erroneità sul piano giuridico delle valutazioni espresse.

Al contrario quelle svolte confermano l’intrinseca contraddittorietà della tesi difensiva già respinta dal giudice a quo e che di per sè giustifica il convincimento da questo espresso circa la non contestazione dell’avvenuta consegna del denaro di cui si chiede la restituzione; contraddittorietà che può agevolmente cogliersi nella reiterata affermazione secondo cui “il M. non contesta il fatto di aver ricevuto dal V. una determinata somma di denaro (enfasi aggiunta), ma obietta… che la propria rendicontazione… (era)… corretta ed esaustiva” (v. ricorso pag. 8, quarto cpv.).

E’ evidente infatti che proprio tale linea difensiva, lungi dal poter far dubitare che detta consegna di danaro fosse stata contestata, conferma che al contrario tale premessa fattuale era ed è esplicitamente ammessa dall’odierno ricorrente, collocandosi piuttosto il fulcro della propria difesa esclusivamente sull’assunto della insussistenza di un inadempimento (dell’obbligo della rendicontazione) che potesse giustificare la revoca del mandato e la conseguente pretesa restitutoria.

L’ulteriore censura che, su tale diverso versante argomentativo, viene dedotta in termini di asserita erronea ricognizione del fatto, segue poi, con ogni evidenza, un paradigma censorio (“insufficiente, contraddittoria ed omessa motivazione”) non più consentito dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5, e comunque inammissibile anche sotto altro profilo.

La doglianza secondo cui non sarebbe stato consentito offrire prova del dedotto assunto difensivo si appalesa infatti del tutto generica, non essendo neppure accennato quali fossero i mezzi di prova richiesti, dove e quando dedotti, nè il loro specifico contenuto, in palese violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

3. Il terzo motivo è infine così testualmente intitolato in rubrica:

3) Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 5, errata ricostruzione della fattispecie concreta, a cui emerge la l’insufficiente. contraddittoria od omessa motivazione del provvedimento impugnato sulla parte in cui è stata rigettata la domanda riconvenzionale.

La censura, in sostanza, ripropone la medesima doglianza testè considerata, relativa all’asserita mancata ammissione di prova diretta a dimostrare il corretto adempimento degli obblighi derivanti dal contratto di mandato.

Il rigetto delle domande riconvenzionali (di risarcimento del danno per difetto di giusta causa nella revoca dell’incarico e di pagamento del dovuto compenso) è infatti motivato in sentenza sul rilievo che entrambe le pretese restano destituite di fondamento in conseguenza della revoca del mandato, giustificata dall’inadempimento del mandatario.

Di tale statuizione il ricorrente si duole per l’appunto contestando tale ultimo assunto, in quanto, in tesi, frutto di una erronea ricognizione del fatto, per avere “il giudice di prime cure, in maniera sbrigativa, deciso di non concedere la possibilità al M. di dimostrare quanto dedotto”.

Si deduce quindi in sostanza il medesimo vizio di motivazione già in precedenza considerato, del quale non resta che ribadire l’inammissibile prospettazione, sia in quanto conformata al vecchio e non più consentito paradigma del vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione, sia perchè riferita alla mancata ammissione di prove del tutto genericamente evocate, in palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione degli atti su cui il ricorso è fondato di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6.

4. Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello cit. art. 13, comma 1-bis.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2019

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