LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. CIGNA Mario – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso N. 23944 – 2017 proposto da:
O.M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, al viale GIULIO CESARE n. 71 presso lo STUDIO MARRA URSO LEGAL ASSOCIATED, rappresentata e difesa dagli AVVOCATI CARMELO MARRA e VALENTINA URSO;
– ricorrente –
contro
M.R., elettivamente domiciliato in ROMA, via CICERONE n. 49, presso lo studio dell’AVVOCATO SVEVA BERNARDINI, rappresentato e difeso dagli AVVOCATI ARMANDO E SALVATORE ATTINA’;
– controricorrente –
e contro
*****, in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliato in ROMA, alla via SISTINA, n. 121, presso l’AVVOCATO ROBERTA PANUCCIO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 00295/2016 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 12/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2019 dal Consigliere Dott. Cristiano Valle;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Sgroi Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli Avvocati Carmelo Marra e Valentina Urso per la ricorrente che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso e l’Avvocato Roberta Panuccio, anche per delega degli Avvocati Salvatore ed Armando Attinà, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
osserva quanto segue:
FATTI DI CAUSA
La Corte di Appello Reggio Calabria, con sentenza n. 00295 del 12/09/2016, riformava la sentenza non definitiva del Tribunale della stessa sede, che aveva accolto implicitamente, con rimessione della causa in istruttoria per l’espletamento di consulenza tecnica medico-legale di ufficio, il capo di domanda relativo al danno psichico derivante dalle conseguenze della mancanza di valido consenso informato, respinto il capo di domanda di risarcimento del danno esistenziale, rigettando integralmente la pretesa di O.M.G. di risarcimento dei danni per mancato consenso informato in relazione ad intervento di asportazione della mammella sinistra per infiltrazioni cancerose, originariamente diagnosticate di minima estensione (di soli otto millimetri) e la cui eliminazione era stata prospettata come non comportante gli esiti rilevanti (ablazione dell’intera mammella sinistra) seguiti all’operazione, effettuata in anestesia totale dal Dott. M.R. presso l'***** in data *****.
La sentenza d’appello è impugnata per cassazione da O.M.G.. Il ricorso è articolato su tre motivi.
Resistono con separati controricorsi M.R. e l'*****”.
Il Pubblico Ministero ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso censura la sentenza della Corte territoriale ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione al diritto all’autodeterminazione personale ed alla disciplina relativa al consenso informato di cui agli artt. 2,13,32 Cost., art. 8 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 23 ed all’art. 2059 c.c. Il mezzo deduce che alla O. era stato fatto firmare un modulo generico di consenso informato, con conseguente violazione del diritto all’autodeterminazione, autonomo rispetto al diritto alla salute, e sottoposizione ad un trattamento sanitario senza adeguata espressione di consenso. Il motivo censura altresì la sentenza d’appello per avere questa ritenuto prestato una sorta di consenso informato presunto. Il motivo addebita, inoltre, alla sentenza impugnata di non avere adeguatamente vagliato le risultanze istruttorie, giustificando l’operato del medico sulla base di uno stato di necessità di cu all’art. 2045 c.c.
Il secondo mezzo censura la sentenza d’appello ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione alla categoria del danno non patrimoniale ed alla determinazione del danno esistenziale ai sensi dell’art. 2 Cost. e art. 2059 c.c., per avere ritenuto, difformemente alla giurisprudenza nomofilattica del 2008, che il danno esistenziale si differenzierebbe da quello morale e da quello biologico, dovendo essere provato con riferimento non solo al fatto costitutivo dell’illecito, ma anche in relazione alle relative conseguenze, e non, invece, quale rientrante nell’ampia categoria del danno non patrimoniale. Il mezzo addebita alla sentenza d’appello la mancata valutazione del materiale probatorio versato in atti di causa con la citazione introduttiva del giudizio di primo grado e le risultanze della consulenza medico legale disposta in primo grado.
Il terzo ed ultimo motivo censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per “contraddittorietà della motivazione” con riferimento all’affermazione dell’autonomia dell’obbligo di informazione, gravante sul sanitario, che era rimasto inadempiuto, contrastante con quella dell’essere stato prestato un valido consenso informato all’intervento programmato di asportazione di neoformazioni alla mammella, ritenendo irrilevante la genericità del modulo sottoscritto ed ancora successivamente modificando l’orientamento affermando trattarsi di un consenso presunto.
Il primo motivo è infondato.
La sentenza della Corte territoriale ha correttamente distino i due profili, quello del danno alla salute derivante da inesatta prestazione medica e quello, autonomo, originariamente individuato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 02847 del 09/02/2010) derivante da mancanza di valido consenso informato. In ordine al primo profilo ha escluso che vi fosse un danno alla salute, in quanto l’intervento operatorio era stato del tutto correttamente eseguito e la O. aveva seguito, successivamente ad esso, i necessari cicli terapeutici in caso di patologia tumorale. Sul punto, peraltro, non vi è specifica impugnazione di legittimità.
In ordine al secondo profilo, quello relativo alla carenza di idonea autodeterminazione della O. a seguito della mancanza di adeguata prospettazione delle possibili ulteriori necessità operatorie si rileva che il motivo, e tutto il ricorso, non riportano il testo del modulo di prestazione del consenso sottoscritto dalla O., con la conseguenza che la denuncia di genericità del consenso rimane meramente apodittica.
La Corte di appello ha, peraltro, ritenuto correttamente che il consenso informato mancherebbe con riferimento alla frazione ulteriore, rispetto a quello originariamente prospettata e relativa ad alcune cisti, dell’operazione alla quale venne sottoposta la O. per l’asportazione dell’intera mammella sinistra. La Corte territoriale ha evidenziato, nelle pagine 7 ed 8 della motivazione, che l’asportazione dell’intera mammella sinistra fu dovuta alla scoperta, nel corso dell’intervento originariamente programmato di asportazione di alcune cisti, della natura non benigna delle stesse e di “un carcinoma lobulare infiltrante con aree di carcinoma duttale e sette linfonodi del primo livello, quattro dei quali metastatici” ed ha concluso affermando che la scelta operatoria ulteriore rispetto a quella originariamente divisata era stata compiuta in forza dello stato di necessità derivato dall’accertamento, in fase operatoria, mediante un esame istologico, della particolare gravità della patologia riscontrata, suscettibile di rapida estensione e della elevata probabilità che la diffusione ulteriore delle cellule cancerose rendesse vana, o comunque meno favorevole in punto di esposizione a rischio della stessa vita della paziente, le terapie chemio e radioterapiche.
L’impianto argomentativo della sentenza in scrutinio resiste, quindi, alle critiche mosse con il primo mezzo, in quanto vi è coerente affermazione di sussistenza del consenso informato in ordine all’asportazione delle cisti e condivisibile riferimento allo stato di necessità in cui il medico operante si è trovato ad agire, dovendo scegliere tra l’attendere il risveglio della paziente, in anestesia totale, per poterla informare della necessità di procedere ad un intervento operatorio comunque necessario, per effettuarlo con ritardo di diversi giorni, e nuova ed invasiva operazione (con reiterazione dell’anestesia totale), essendo notorio che il recupero della piena coscienza e consapevolezza dopo un’anestesia totale non è conseguenza immediata del risveglio e l’effettuare immediatamente l’asportazione del tessuto interessato dalle cellule cancerose, con riduzione al minimo dell’esposizione a rischio della vita della O. e ampia possibilità di riduzione delle necessarie conseguenti terapie.
La sentenza in scrutinio è coerente, in breve, agli stessi approdi alla quale è pervenuta più di recente questa Corte, laddove ha affermato (Cass. n. 16336 del 28/04/2018) che il “consenso informato al trattamento medico non può mai essere presunto ma deve essere espresso, impingendo esso nel diritto del paziente ad autodeterminarsi e, conseguentemente, ad esprimere egli stesso, personalmente e direttamente, le scelte che solo lui al riguardo pertengono e rispetto alle quali nessun automatismo è consentito (e tanto meno alcuna surrogazione da parte di terzi, ancorchè qualificati) in relazione alla convenienza o meno del trattamento sul piano strettamente medico-sanitario, salvo che ricorra uno stato di imminente necessità”. In tema, di recente, si veda pure il richiamo alla L. 23 dicembre 1978, n. 833 istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale, ed in particolare all’art. 33, che esclude la possibilità di accertamenti e trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo non è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. (Cass. n. 11749 del 15/05/2018). A ritroso di quasi un decennio, con affermazione meno ampia, ma non meno convincente, questa Corte (Cass. n. 16543 del 28/07/2011) aveva precisato che “…la mancanza di richiesta del consenso informato costituisce violazione del diritto della persona a vedere tutelato il suo diritto alla salute con la dignità propria dell’essere persona. La richiesta va sempre e comunque fatta a meno che non si tratti di un caso di urgenza o di trattamento sanitario obbligatorio”.
Il primo mezzo è, pertanto, rigettato.
Il secondo motivo di ricorso è incentrato sulla categoria del danno esistenziale e sulla sua configurazione nella giurisprudenza nomofilattica di questa Corte. Il mezzo censura la sentenza impugnata non più sotto il versante dell’autonomo diritto all’autodeterminazione, leso dalla mancanza di consenso informato bensì sotto il diverso profilo del mancato riconoscimento di un danno derivante dalla perdita dello stato pregresso della persona ed afferma che la O. aveva prodotto sin dal primo grado di giudizio “le certificazioni mediche comprovanti il disagio esistenziale vissuto e manifestato attraverso un radicale turbamento della propria identità personale, nonchè della propria vita familiare e sociale” ed evidenzia la possibilità di dedurre detto turbamento in via inferenziale, anche in considerazione della circostanza che si era sottoposta, dopo l’intervento del Dott. M., a un intervento ricostruttivo della mammella presso altra struttura sanitaria e che detto intervento era stato particolarmente complesso, non avendo l’originario operante provveduto ad idonea conservazione e consegna della pelle e del capezzolo asportati.
Il motivo non è adeguatamente formulato, in quanto omette del tutto di indicare il contenuto della documentazione medica prodotta in primo grado, o quanto meno in quale parte del fascicolo essa sia rinvenibile. Alla pag.13 del ricorso, ai fini della prova del detto danno esistenziale si fa riferimento alla consulenza tecnica di ufficio espletata in primo grado dopo la sentenza non definitiva del Tribunale, atto allo stato in alcun modo utilizzabile nella presente sede di legittimità, che ha ad oggetto lo scrutinio della sola sentenza di appello. Infine il motivo è infondato: la Corte di Appello ha affermato che il danno esistenziale da inadempimento del dovere di informazione non poteva essere ritenuto sussistente in quanto, pur essendo possibile, conformemente alla giurisprudenza di questa Corte, procedere alla sua liquidazione in via equitativa, è in ogni caso necessario un’idonea attività di allegazione della parte, cica l’alterazione delle proprie abitudini di vita, che era, viceversa, del tutto mancata.
Il terzo motivo è inammissibile.
Esso è formulato richiamando l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 evidentemente nell’attuale formulazione, risalente al 2012, ma in chiaramente denuncia una contraddittorietà della motivazione, in più parti, secondo il precedente paradigma normativo. La detta censura è, altresì inammissibile, in quanto non individua, così come richiesto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 il “fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti” reiterando, come già tratteggiato, una motivo di impugnazione non più esperibile, nella specie di sindacato di fatto sulla motivazione, in contrasto con la giurisprudenza formatasi in tema (Sez. U n. 08053 del 07/04/2014 e più di recente Cass. del 12/10/2017 n. 23940), secondo la quale: “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.”).
Il ricorso è, conclusivamente, rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, in favore di ciascuna delle parti controricorrenti.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Si reputa opportuno disporre che in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
PQM
rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida, per ognuna delle parti controricorrenti, in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario al 15%, CA ed VA per legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone oscuramento dati identificativi e generalità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di Cassazione, sezione terza civile, il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019