Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.28817 del 08/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19195-2018 proposto da:

D.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE N. 15, presso lo studio dell’avvocato STEFANO PICCOLO, rappresentato e difeso dall’avvocato NICOLO’ NONO DACHILLE;

– ricorrente –

contro

S.F.;

– intimata –

e contro

MINISTERO DELL’INTERNO, ***** in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 650/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 24/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/09/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

FATTI DI CAUSA VALORE D.G. propone ricorso per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Bari n. 650/2017, pubblicata il 24 maggio 2017, avvalendosi di motivi.

Il Ministero Dell’Interno si è costituito in data 20 aprile 2019 al fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1.

La vicenda trova la sua fonte nella relazione di servizio del 25 ottobre 1999, indirizzata al Dirigente del Commissariato di P.S., con cui l’ispettore S.F. riferiva che, in occasione della convocazione di Q.M., madre dell’odierno ricorrente, per comunicarle il contenuto della nota NR 123 del Ministero dell’interno, la donna si faceva accompagnare dal figlio, il quale, oltre ad intervenire “a sproposito nella vicenda consigliando o influenzando la madre” in merito alle dichiarazioni da verbalizzare, rifiutava di sottoscrivere il verbale, ove veniva dato atto della sua presenza, riferendo “io non firmo niente in questo ufficio perchè non avete nessun potere e le vostre firme non contano nulla quando firmerò qualcosa manderò le mie carte direttamente al ministero”; l’ispettore S., dettosi “a conoscenza della posizione clinica del D. accortosi che il predetto stava per andare in escandescenza”, si limitava a riportare nel verbale il rifiuto di sottoscriverlo.

L’odierno ricorrente, messo a conoscenza del contenuto di tale nota, ne otteneva copia e ritenendosi offeso per il contenuto gratuito e menzognero, conveniva dinanzi al Tribunale di Monopoli l’ispettore S. e il Ministero degli interni per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni derivatigli.

Sia il Tribunale (sent. n. 42/2011) sia la Corte d’Appello di Bari, con la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione, respingevano le richieste di D.G..

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denuncia l’omessa valutazione di un fatto storico decisivo oggetto di discussione, perchè la Corte territoriale avrebbe sì fatto riferimento alla sua cartella clinica, ma avrebbe omesso di leggerla, giacchè da essa sarebbe emerso che non era mai stato seguito dal servizio di igiene mentale di Monopoli e ciò sarebbe comprovato dall’attività di indagine dell’ispettore C., considerata irrazionalmente irrilevante dal giudice a quo, adottando un provvedimento viziato da incompletezza ed erroneità rispetto alle premesse di fatto.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. con riferimento alle prove legali o a quelle fidefacienti, perchè avrebbe escluso che le notizie contenute nella nota fossero destinate al pubblico, avendo come destinatari una ristrettissima cerchia di soggetti istituzionali costituita dalla procura della repubblica di Bari, dalla direzione centrale della polizia criminale e dalla questura di Bari e ritenuto indimostrato che le forze di polizia avessero effettuato indagini a seguito delle dichiarazioni contenute nella nota, nonostante la relazione dell’ispettore C., redatta su delega della procura di Lecce, avesse accertato che, pur esistendo una cartella clinica, il ricorrente non era mai stato in cura per problemi psichiatrici.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 323,594 e 595 c.p., perchè non avrebbe tenuto conto che la fede privilegiata della nota per cui è causa riguardava non solo fatti compiuti dall’ispettore verbalizzante da lui compiuti o avvenuti in sua presenza, ma anche dichiarazioni ricevute quando di queste ultime si dia attestazione nell’esercizio del potere di documentazione e nella contestualità della formazione dell’atto prescindendo dall’intrinseca veridicità delle dichiarazioni stesse. LA Corte avrebbe dovuto tener conto della mancanza di utilità di servizio e della incontinenza.

Con il quarto motivo il ricorrente censura l’omessa valutazione di un fatto storico oggetto di discussione e non contestato ex art. 115 c.p.c.

La Corte territoriale avrebbe escluso la lesività delle affermazioni contenute nella nota di servizio senza tener conto che essa era stata inviata alla procura di Bari e in particolare al PM Scelsi titolare del procedimento n. 16211 nel quale rivestiva la qualità di testimone del Pm nei confronti di un esponente di spicco di un clan mafioso, svalutandone l’attendibilità come testimone e che indirettamente essa era stata alla base della sentenza con cui la Corte regolatrice aveva annullato l’ordinanza cautelare nei suoi confronti per essersi opposto ad illegittime e violente modalità di notifica di un avviso di archiviazione nei suoi confronti.

Il ricorso non merita accoglimento.

I motivi, alcuni inammissibili, altri infondati, sottopongono all’attenzione di questa Corte una questione che può essere così riassunta: se un’informazione personale relativa allo stato di salute fissata su un supporto documentale, avente contenuto valutativo e non oggettivo, comunicata, per ragioni di servizio ad altri soggetti pubblici, per l’assolvimento delle medesime funzioni, abbia danneggiato il soggetto cui l’informazione valutativa apparteneva, tenuto conto del contenuto dell’informazione, della finalità per cui era stata trattata, delle modalità di comunicazione.

Deve rilevarsi che la Corte territoriale ha rigettato il gravame basandosi su un percorso argomentativo scandito da una pluralità di passaggi:

a) la conferma che la frase “a conoscenza della posizione clinica” non poteva considerarsi offensiva per la sua genericità e per il contesto nel quale era stata utilizzata;

b) l’esistenza di una affermazione così genericamente individuata trovava conferma nella documentazione clinica prodotta dal ricorrente, attestante due interventi del centro di igiene mentale della Asl, che rendeva irrilevante il travisamento attribuito al Tribunale circa il fatto che D.G. non fosse seguito dal dipartimento di salute mentale, anche in ragione di quanto emerso dagli accertamenti compiuti dall’ispettore C. su delega della procura di Lecce che concludevano escludendo che egli fosse mai stato seguito dal servizio di Igiene mentale di *****;

c) l’esclusione che l’ispettore S. avesse tenuto un comportamento arbitrario, doloso e/o colposo, perchè l’affermazione “a conoscenza della posizione clinica” era il frutto della conoscenza, per ragioni di servizio, della relazione del 25 agosto 1999 del vicequestore aggiunto F., indirizzata alla questura di Bari, con cui era stato reso noto che l’odierno ricorrente e la madre risultano da tempo, rispettivamente 17 e 2 anni, seguiti dal dipartimento di salute mentale della Usl Bari/*****;

d) il contenuto della nota di servizio del vicequestore aggiunto F., redatta nell’ambito della sua attività istituzionale in quanto agente della polizia di stato, fatta oggetto di una richiesta risarcitoria da parte dell’odierno ricorrente e della madre, proprio per l’indicazione relativa al fatto che essi fossero seguiti dal dipartimento di salute mentale, fatta oggetto di un precedente della Corte d’Appello di Bari, ormai coperto da giudicato, da cui era risultato che essa non fosse volontariamente falsa, ma imprecisa, perchè vi era agli atti l’attestazione rilasciata in calce ad una richiesta del 3 giugno 2000 inoltrata al dipartimento di salute mentale di ***** dalla Polizia di Stato, dalla quale si rileva che agli atti del servizio di salute mentale esisteva una cartella clinica relativa al nominativo D.”; di qui la “pacifica esistenza di un documento, oggetto del giudizio anzidetto, che è precedente alla nota di cui si discute, e che conteneva proprio l’affermazione che il D. era seguito dal Dipartimento di Salute Mentale della Usl BA/*****” e per la irrilevanza della circostanza che l’appellante fosse istituzionalmente seguito dal servizio di igiene mentale di ***** oppure no: l’irrilevanza di tale circostanza si rifletteva sulla relazione dell’ispettore C., il cui contenuto avrebbe dovuto proprio che l’odierno ricorrente non fosse seguito dal Dipartimento del servizio di Igiene mentale;

e) la mancata diffusione delle notizie contenute nella nota di servizio, in quanto confidenziali, non destinate al pubblico, bensì ad una ristrettissima cerchia di soggetti istituzionali;

f) la mancata prova che alcuna indagine avesse trovato causa nelle informazioni contenute nella nota di servizio e la inverosimiglianza di una conclusione diversa, data la presenza di una informazione di analogo contenuto, precedente, quella contenuta nella nota del vicequestore aggiunto F. che avrebbe potuto costituire il presupposto di eventuali indagini mirate che comunque sarebbero rientrate nei compiti istituzionali della Polizia.

A fronte di un percorso motivazionale che si è dipanato attraverso i suddetti passaggi logici, chiaramente e logicamente scanditi e supportati in fatto, il ricorrente, pur attraverso argomentazioni che si articolano in una pluralità di motivi astrattamente riconducibili ad altrettanti vizi cassatori, maschera nel complesso una richiesta di rivalutazione del merito della controversia, inammissibile vieppiù in ragione del fatto che in presenza di una decisione conforme a quella di primo grado e basata sui medesimi fatti, è preclusa la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 Di qui l’inammissibilità, sotto tale specifico profilo, del motivo numero uno e del motivo numero quattro.

Va chiarito che non è in discussione la legittima pretesa del ricorrente ad essere rappresentato con la sua vera identità, senza alterazioni, travisamenti ed offuscamenti, ma la ricorrenza dei presupposti per invocare una tutela risarcitoria per il danno asseritamente derivante alla utilizzazione di un’informazione inveritiera e/o comunque inesatta che ne abbia profilato la personalità descrivendolo come un soggetto affetto da disturbi mentali ed accreditando una distorta e travisante percezione di sè.

La tutela risarcitoria è subordinata, però, alla (prova della) ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi della regola di responsabilità.

Ora, nel caso di specie dalla sentenza impugnata emerge, ed i motivi di ricorso hanno solo parzialmente tentato di aggredirne le rationes decidendi, che l’ispettore S. non ha tenuto un comportamento antigiuridico. E’ risultato, infatti, che egli aveva espresso una valutazione relativa alla salute attuale e/o pregressa del ricorrente, mediante il riferimento a dati attinenti alla somministrazione di una terapia da parte del Dipartimento di igiene mentale, sulla scorta di notizia appresa per ragioni di servizio, e ne aveva fatto oggetto di segnalazione al proprio superiore. E’ stato escluso che avesse tenuto un comportamento non iure, in considerazione della finalità istituzionale che ha orientato l’informazione/giudizio, il suo trasferimento su supporto documentale, il suo utilizzo con attitudine indagatoria per la ricostruzione della personalità dell’odierno ricorrente mediante l’elaborazione di un profilo.

Non è stata ravvisata la riprovevolezza della sua condotta: la Corte territoriale esclude, senza censure da parte del ricorrente, alcun arbitrio da parte sua, così come la sussistenza di dolo e/o colpa.

E’ stata altresì esclusa la ricorrenza del contra ius, richiesto ai fini dell’azionabilità della tutela risarcitoria, giacchè il dato riportato tradottosi in un giudizio anche se suscettibile di attribuire all’odierno ricorrente una particolare qualità, non ha avuto, una volta espresso e comunicato ad altri soggetti pubblici ai fini dell’assolvimento delle loro finalità istituzionali, riflessi pregiudizievoli nella sfera del soggetto asseritamente danneggiato.

Gli assunti cassatori della sentenza si limitano a mettere in dubbio la corrispondenza al vero dell’informazione e il profilo relativo al contra ius, in ragione del novero dei soggetti venuti a conoscenza del dato.

Si tratta, nondimeno, di affermazioni assertive che non incrinano il fatto che l’informazione non sia stata diffusa, cioè trasferita a soggetti indeterminati, essendo stata comunicata da un soggetto pubblico ad altri soggetti pubblici nell’ambito dell’espletamento delle loro finalità istituzionali. E nessun rilievo pregiudizievole può essere attribuito al fatto che l’interessato ne sia venuto a conoscenza, perchè il trasferimento del dato all’interessato non integra un’attività di comunicazione nè di diffusione, secondo quanto espressamente previsto dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 4.

Ne consegue l’inammissibilità del ricorso.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

Si dà atto della ricorrenza dei presupposti per porre a carico del ricorrente l’obbligo di pagamento del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidandole in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione Terza civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019

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