LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 13735/2017 R.G. proposto da:
P. C. S.r.l., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Roberto Cori e Lorenzo Grisostomi Travaglini, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Civitavecchia, n. 7;
– ricorrente –
contro
Pa.Ma., elettivamente domiciliato in Roma, via Costantino Morin, n. 45, presso lo studio dell’Avv. Michele Arditi di Castelvetere, rappresentato e difeso dall’Avv. Patrizia Di Micco;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 2357/2017, pubblicata il 5 aprile 2017;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 2 ottobre 2019 dal Consigliere Emilio Iannello;
udito l’Avvocato Costanza Spampinato, per delega;
udito l’Avvocato Patrizia Di Micco;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Fresa Mario, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. Il Tribunale di Latina con decreto n. 58/2013, su ricorso della P. C. S.r.l., ingiunse a Pa.Ma. il pagamento dell’importo di Euro 6.456,87, oltre interessi e accessori, nella sua qualità di garante per fideiussione del contratto di locazione in essere tra la società e un terzo, rimasto moroso nel pagamento di alcuni canoni di locazione ed oneri condominiali.
L’opposizione proposta dall’ingiunto fu dichiarata inammissibile per il tardivo deposito dell’atto di citazione introduttivo, avvenuto, con l’iscrizione della causa a ruolo, oltre il termine decadenziale di 40 giorni previsto dall’art. 641 c.p.c..
2. In accoglimento del gravame interposto dal soccombente, la Corte d’appello di Roma, con la sentenza in epigrafe, ritenuta, in rito, la tempestività dell’opposizione (e ciò per la ritenuta applicabilità alla controversia non del rito locatizio ma di quello ordinario e per la conseguente necessità di aver riguardo non alla data di deposito in cancelleria ma a quella di notifica dell’atto di citazione in opposizione), l’ha accolta nel merito, per l’effetto revocando il decreto ingiuntivo opposto.
3. Avverso tale sentenza la P. C. S.r.l. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi e illustrato da memoria, cui ha resistito l’intimato depositando controricorso, anch’esso seguito da memoria.
In vista dell’odierna udienza pubblica entrambe le parti hanno depositato ulteriori memorie ex art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 415 c.p.c., comma 1 e art. 447-bis c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto applicabile alla proposta opposizione il rito ordinario anzichè il rito locatizio.
Sostiene che, essendo stato il decreto ingiuntivo richiesto e ottenuto sia nei confronti del conduttore che del suo fideiussore, il fatto che il primo non abbia poi ritenuto di proporre opposizione, non poteva di per sè considerarsi sufficiente a modificare la disciplina che regola lo svolgimento del giudizio di opposizione.
Ciò in quanto, sostiene, l’oggetto del giudizio è rappresentato unicamente dalle obbligazioni sorte in virtù del contratto di locazione, non valendo a modificarne la natura la presenza, tra i soggetti legittimati passivamente, di un garante accanto al conduttore, debitore principale.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ancora ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 40 c.p.c. nonchè degli artt. 1936,1939,1942,1944 e 1945 c.c..
Sostiene in sintesi che, dato il carattere di accessorietà della fideiussione rispetto all’obbligazione principale, la domanda nei confronti del fideiussore deve ritenersi attratta sia dalla competenza sia dal rito previsti per il rapporto principale, dal momento che l’accertamento dell’obbligazione di garanzia presuppone il previo accertamento della fondatezza dell’obbligazione principale.
Rileva che pertanto erroneamente la Corte di merito ha fatto riferimento all’art. 40 c.p.c., comma 3, ritenendo impropriamente che nella specie fossero state cumulativamente proposte domande soggette a riti differenti.
3. Mette conto preliminarmente rilevare che la questione con riferimento alla quale la causa è stata rimessa dalla sesta sezione alla terza per la trattazione in pubblica udienza, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., u.c., circa l’idoneità, ai fini del rispetto degli oneri imposti dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, della produzione della relazione di notifica telematica della sentenza impugnata in copia analogica priva della asseverazione di conformità all’originale informatico, è stata successivamente risolta dalle Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 8312 del 25/03/2019, che hanno al riguardo affermato il principio secondo cui “il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica della decisione impugnata predisposta in originale telematico e notificata a mezzo p.e.c. priva di attestazione di conformità del difensore L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non comporta l’applicazione della sanzione dell’improcedibilità ove l’unico controricorrente o uno dei controricorrenti (anche in caso di tardiva costituzione) depositi copia analogica della decisione stessa ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale notificatogli D.Lgs. n. 82 del 2005, ex art. 23, comma 2”.
Quest’ultima è l’evenienza che nella specie si verifica, posto che la copia analogica della relata di notifica telematica della sentenza depositata dalla ricorrente non è stata disconosciuta dal resistente.
Alla luce dell’esposto principio, cui questo Collegio intende dare continuità, non sussistono pertanto le condizioni per l’applicazione della sanzione di improcedibilità ex art. 369 c.p.c., comma 2.
4. Il ricorso è però nel merito infondato.
La questione posta da entrambi i motivi di ricorso, congiuntamente esaminabili, circa il rito applicabile a controversia relativa al rapporto nascente da fideiussione prestata da un terzo a garanzia degli obblighi nascenti da rapporto di locazione di immobili urbani, risulta già affrontata da questa Corte, con sentenza n. 3525 del 13/02/2009, nel senso della applicabilità (non del rito locatizio ma) del rito ordinario.
Si è infatti del tutto condivisibilmente osservato che “l’oggetto di questo processo non è… un rapporto di locazione, bensì un rapporto fideiussorio nel quale non sono quindi coinvolte le parti del contratto di locazione bensì il locatore ed il terzo fideiussore. A questi ultimi, come non può applicarsi la disciplina sostanziale della locazione, così non può applicarsi la relativa disciplina processuale”.
In piena continuità con tale precedente mette conto qui soggiungere, in relazione agli argomenti svolti a sostegno del ricorso, che l’accessorietà che caratterizza il rapporto fideiussorio rispetto a quello principale opera interamente sul piano funzionale degli obblighi assunti dal fideiussore, ma non certo su quello morfologico e strutturale rispetto al quale resta netta e indiscutibile la distinzione e autonomia dei due rapporti. Di questi solo uno, quello tra il locatore (creditore) e conduttore (debitore principale), è connotato, in relazione agli interessi coinvolti e alle peculiari esigenze di tutela, da quella specialità che si riflette sia nella disciplina sostanziale che in quella processuale; l’altro invece riguarda soggetto estraneo a tali esigenze e persegue lo scopo di garanzia del credito che ne definisce e giustifica bensì l’accessorietà (resa evidente da taluni aspetti di disciplina – artt. 1941,1945 e 1957 c.c. che riguardano l’obbligazione del fideiussore quale che sia l’origine del rapporto garantito) ma non ne comporta anche l’attrazione nella medesima disciplina speciale del rapporto obbligatorio principale.
Che l’accessorietà del rapporto di fideiussione non faccia venir meno la sua autonomia costituisce del resto acquisizione pacifica nella giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di rimarcarla più volte sia pure ad altri fini.
Per tale ragione, infatti, già Cass. 09/07/2005, n. 14468, affermò che “la domanda proposta dal fideiussore del fallito nei confronti del soggetto garantito, allo scopo di ottenere l’accertamento della validità del recesso dal contratto di fideiussione, e la riconvenzionale eventualmente proposta dal garantito nei confronti del garante non sono soggette al procedimento ed al rito speciale di verificazione del passivo, in quanto non hanno ad oggetto crediti concorsuali, dato che riguardano rapporti intercorrenti tra soggetti terzi rispetto al fallito e l’accertamento di un credito che non è destinato ad essere soddisfatto sul patrimonio fallimentare” Anche in quella occasione la S.C. evidenziò, richiamando ancora più risalente giurisprudenza, che “la relazione di accessorietà dell’obbligazione fideiussoria rispetto a quella principale non esclude la reciproca autonomia delle due obbligazioni e si traduce sul piano processuale nell’inconfigurabilità del litisconsorzio necessario tra creditore, debitore principale e fideiussore (Cass. 17/07/2002, n. 10400; Cass. 30/01/1985, n. 579; Cass. 07/06/1974, n. 1709), litisconsorzio che, comunque, non potrebbe determinare la competenza del tribunale fallimentare, perchè, per quanto già osservato, la semplice circostanza che il debitore principale sia fallito non influisce sulla competenza a conoscere della validità delle fideiussioni e delle obbligazioni derivanti dal rapporto fideiussorio”.
Ma merita anche di essere ricordata Cass. Sez. U. 23/02/2010, n. 4319 (a sua volta poi richiamata da numerose altre conformi), che ha in motivazione rimarcato come costituisca “patrimonio consolidato della giurisprudenza di questa Corte il principio in ragione del quale l’obbligazione principale e quella fideiussoria, benchè fra loro collegate, mantengono una propria individualità non soltanto soggettiva (data l’estraneità del fideiussore al rapporto richiamato dalla garanzia) ma anche oggettiva, in quanto la causa fideiussoria è fissa ed uniforme, mentre l’obbligazione garantita può basarsi su qualsiasi altra causa idonea allo scopo, con la conseguenza che la disciplina dell’obbligazione garantita non influisce su quella della fideiussione, per la quale continuano a valere le normali regole, comprese quelle sulla giurisdizione (Cass. sez. un. 5 febbraio 2008, n. 2655, nella cui fattispecie, la S.C. – dichiarando la giurisdizione del giudice ordinario – ha rigettato il ricorso contro la sentenza che, in una controversia promossa dall’Agenzia delle entrate nei confronti del fideiussore di una società dichiarata decaduta dal contributo per la realizzazione di uno stabilimento industriale, aveva dichiarato l’estraneità del rapporto dedotto in giudizio rispetto a quello di finanziamento)” (ma v. anche, nello stesso senso, ancora più di recente, Cass. Sez. U. 08/09/2015, n. 17741, e ivi ulteriori richiami ad altri numerosi precedenti sempre nello stesso senso e senza distinzioni di sorta quanto alla natura del rapporto di garanzia).
5. Non si pone certo in contrasto con tali precedenti, ed è del tutto inconferente rispetto alla questione in esame, l’arresto, richiamato dalla ricorrente, di Cass. 07/01/2013, n. 180.
5.1. Quest’ultimo, infatti, pronunciava su ricorso per regolamento di competenza in un caso in cui, emesso decreto ingiuntivo dal Tribunale di Ravenna richiesto da una banca per il saldo passivo di conto corrente nei confronti sia della correntista (una società) sia del fideiussore:
a) l’opposizione, proposta da entrambi gli intimati, era fondata esclusivamente sulla eccepita incompetenza per territorio del giudice adito, per essere competente il Tribunale di Roma, quale giudice del luogo ove era ubicata la sede legale della società nonchè di residenza del fideiussore;
b) il Tribunale di Ravenna accolse parzialmente l’opposizione, declinando la propria competenza esclusivamente con riferimento alla posizione del fideiussore, ciò sul rilievo che: b1) il contratto di conto corrente indicava nel Tribunale di Ravenna il foro convenzionalmente stabilito dalle parti ex art. 28 c.p.c.; b2) tale determinazione vincolava solo le parti del conto corrente, non anche il fideiussore che non aveva sottoscritto lo stesso contratto; b3) la modifica della competenza prevista ai sensi dell’art. 18 c.p.c. per l’ingiunzione nei confronti del fideiussore in favore di quella convenzionale prevista nei confronti del debitore principale, non poteva ritenersi consentita nè ai sensi dell’art. 33 (che tale modifica prevede nell’ipotesi di cumulo soggettivo di domande solo in favore del foro generale di uno dei litisconsorti, non anche in favore del foro convenzionale), nè ai sensi dell’art. 31 c.p.c. (sia perchè l’operatività della deroga richiede che la domanda principale e quella accessoria siano rivolte verso la stessa persona, sia perchè si tratta di una norma eccezionale che non può essere applicata nel caso in cui il foro della causa principale sia stato convenzionalmente stabilito).
In quell’occasione la Suprema Corte, investita della correttezza della declinatoria della competenza per territorio in particolare sotto quest’ultimo profilo (applicabilità dell’art. 31 c.p.c.), la negò, in accoglimento del proposto regolamento, e dichiarò dunque la competenza del Tribunale di Ravenna, argomentando per l’appunto sul carattere di accessorietà della fideiussione rispetto al rapporto principale.
Osservò in particolare che tale carattere dell’accessorietà “trasferito sul piano processuale, costituisce uno dei criteri derogativi delle regole generali in tema di competenza per territorio nei rapporti obbligatori, favorendo il legislatore in tale ipotesi la soluzione del simultaneus processus (art. 31 c.p.c.)”, dovendosi in ragione di essa riconoscere “la connessione tra la causa relativa al rapporto principale e quella riguardante il contratto di garanzia, allo specifico fine di individuare un unico foro per entrambe”, nesso talmente forte da superare sia il limite, alla modifica della competenza, derivante dalla natura convenzionale del foro previsto per alcuno degli intimati, sia il risalente orientamento di legittimità che richiedeva per l’applicazione delle norme derogative degli ordinari criteri della competenza, ai sensi degli artt. 31 e 33 c.p.c., l’identità dei soggetti processuali.
5.2. Ciò precisato appare evidente l’inconferenza, come detto, di tale precedente rispetto alla questione qui esaminata, ove si consideri che detto precedente attiene non alla individuazione del rito applicabile alla causa di opposizione a decreto ingiuntivo proposta dal fideiussore, ma alla diversa questione della competenza per territorio e segnatamente alla derogabilità del foro generale previsto per l’emissione del decreto ingiuntivo nei confronti del fideiussore in favore del diverso foro convenzionalmente fissato nei confronti del debitore principale.
La connessione, per accessorietà, dell’una causa (quella relativa al rapporto fideiussorio) con l’altra (quella relativa al rapporto obbligatorio principale, derivante da contratto di locazione) non viene qui affatto negata, ma ben diversamente ne viene rilevata – per i motivi sopra detti – l’ininfluenza ai fini della determinazione del rito applicabile alla prima.
5.3. Irrilevanza che, mette conto precisare, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello (la cui motivazione va sul punto corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4), non discende dalla previsione di cui all’art. 40 c.p.c., comma 3, la quale invero, a ben vedere, non svolge nella specie alcun ruolo.
Detta norma, invero, dispone che “nei casi previsti negli artt. 31, 32, 34, 35 e 36, le cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l’applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli artt. 409 e 442”.
Essendo tale eccezione applicabile, per pacifica interpretazione, solo ove si tratti del rito del lavoro nel suo campo di applicazione istituzionale e cioè in quanto la causa sia tra quelle indicate dagli artt. 409 e 442 c.p.c., non anche ove si tratti di controversia locatizia soggetta al rito del lavoro per il richiamo ad esso previsto dall’art. 447-bis c.p.c., appare evidente che la detta connessione avrebbe semmai dovuto portare all’applicazione del rito ordinario anche, ove fosse stata proposta e all’altra fosse stata riunita, alla causa di opposizione a decreto ingiuntivo proposta dal conduttore: sarebbe stato cioè il rito speciale a cedere il passo a quello ordinario, non il contrario (cfr., in motivazione, Cass. 25/11/2010, n. 23914).
Tutto ciò peraltro con la precisazione che tale attrazione non avrebbe comunque potuto operare anche ai fini della valutazione della tempestività dell’atto di opposizione.
Come questa Corte ha avuto modo più volte di precisare, infatti, ove l’instaurazione di ciascuna causa soggiaccia a regole processuali distinte e dalla scelta di un rito erroneo per una di esse siano derivate conseguenze pregiudizievoli per la possibilità di trattare la domanda secondo il rito cui sarebbe stata soggetta, la suddetta norma non consente, a chi le abbia introdotte cumulativamente in base al rito non corretto, di pretendere che quella intrapresa con il rito sbagliato sia “salvata” dalla successiva trattazione delle cause cumulate con rito dell’altra che abbia funzione attraente.
L’art. 40, comma 3, tanto non prevede proprio perchè stabilisce solo una regola di trattazione congiunta.
E’ dunque possibile che l’attore introduca le due cause soggette a rito diverse con quello attraente, ma se tale introduzione per quella attratta ha determinato l’inosservanza di una regola che si sarebbe dovuta osservare ai fini della sua proponibilità e che era prevista dal rito ad essa applicabile, egli non può pretendere che la proponibilità sia regolata secondo il rito attraente (Cass. 25/03/2013, n. 7450; v. anche Cass. 25/11/2015, n. 24037).
E’ fin troppo evidente, infatti, che in tal modo verrebbe a sanarsi ex post una decadenza già verificatasi per effetto della scelta del rito sbagliato, ma tale risultato è precluso dalla non applicabilità dell’art. 156 c.p.c., che si riferisce esclusivamente all’inosservanza di “forme” degli atti in senso stretto, non alle decadenze processuali, per le quali vigono apposite e separate norme (cfr. ex plurimis Cass. 02/06/1997, n. 4894; 25/10/2000, n. 14068; 12/10/2004, n. 20183).
6. Il ricorso deve essere pertanto rigettato con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019
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