Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.28974 del 08/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22691-2018 proposto da:

D.B., rappresentato e difeso MASSIMILIANO VIVENZIO e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO e COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO PROTEZIONE INTERNAZIONALE MILANO MONZA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2725/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 01/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/06/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

FATTI DI CAUSA

La Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano respingeva l’istanza dell’odierno ricorrente, volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria o in subordine quella umanitaria.

Con ordinanza del 21.4.2017 il Tribunale di Milano rigettava l’opposizione proposta da D.B. contro il provvedimento reiettivo della Commissione territoriale.

Con la sentenza oggi impugnata, n. 2725/2018, la Corte di Appello di Milano rigettava l’impugnazione proposta da D.B. avverso la decisione di prime cure, ritenendo in particolare che la storia raccontata dal richiedente la protezione, cittadino del Bangladesh che aveva dichiarato di aver lasciato il proprio Paese di origine in quanto perseguitato in ragione della sua religione *****, non fosse credibile, anche perchè il ricorrente non aveva dichiarato di essersi rivolto invano alle Autorità locali per ricevere tutela. Inoltre, la Corte territoriale riteneva che la situazione generale del Bangladesh, non oggetto di specifiche direttive UNHCR al momento della decisione, non fosse tale da comportare l’esposizione del ricorrente medesimo a rischio per la sua incolumità personale.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione D.B. affidandosi ad un unico motivo.

Il Ministero dell’Interno, intimato, non ha svolto attività difensiva in questo giudizio di legittimità.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 8 perchè la Corte di Appello avrebbe condotto la valutazione sulla credibilità del racconto del richiedente la protezione e sulla sua vulnerabilità considerando solo in astratto la situazione del suo Paese di origine, senza tener conto della condizione personale del ricorrente stesso.

La doglianza è fondata.

Risulta invero che la Corte di Appello ha condotto l’esame della condizione interna del Bangladesh in termini generali, senza considerare in alcun modo l fatto che D.B. avesse narrato di esser stato costretto ad abbandonare il Paese in conseguenza di una persecuzione di carattere religioso.

In proposito, va evidenziato che l’affermazione, contenuta a pag.4 della decisione impugnata, secondo cui “In ogni caso, anche a voler prescindere dai rilievi sulla credibilità della vicenda, è evidente che si tratta di una vicenda non ascrivibile nel novero delle condizioni richieste per il riconoscimento dello status di rifugiato” è in sè erronea perchè non tiene conto che la persecuzione religiosa è espressamente ricompresa tra le cause che giustificano il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra. Inoltre, la condizione di soggetto esposto a persecuzione religiosa è comunque rilevante, quantomeno ai fini della concessione della protezione internazionale sussidiaria, posto che la “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” è definita dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) come il “cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.

Dal quadro normativo nazionale e internazionale emerge pertanto che la persecuzione a sfondo religioso costituisce causa legittimante sia per il riconoscimento dello status di rifugiato, che (nei casi meno gravi) per la concessione della tutela sussidiaria. La differenza tra le due forme di protezione va individuata nelle modalità concrete con cui si esplica il trattamento persecutorio o discriminante. Laddove esso si atteggi con modalità che espongono in concreto il richiedente la protezione al rischio di subire un danno grave e diretto alla sua persona, sussistono certamente i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18353 del 23/08/2006, Rv.591535, secondo cui “Requisito essenziale per il riconoscimento dello status di rifugiato è il fondato timore di persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate”). Quando invece la persecuzione si manifesta con modalità tali da non causare il predetto rischio diretto all’incolumità del richiedente la protezione, ma tuttavia implica il pericolo di compromissione dei diritti fondamentali dell’individuo, essa può rilevare ai fini della concessione della tutela sussidiaria. Non può essere infatti trascurato che la libertà di professare il proprio credo religioso appartiene all’ambito più intimo dei diritti della persona umana e rappresenta una delle modalità principali in cui si esplica la personalità dell’individuo, espressamente tutelata dall’art. 2 Cost.

Vertendosi in materia di protezione internazionale, alla luce del consolidato principio di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, quest’ultimo è tenuto, quando il richiedente prospetta una situazione potenzialmente rilevante sub specie di persecuzione o trattamento discriminatorio a contenuto religioso, a svolgere accurate indagini al fine di verificare la fondatezza e la credibilità del racconto. E’ dunque necessario, quantomeno ai fini dell’eventuale concessione della protezione sussidiaria, condurre una disamina della situazione interna del Paese di provenienza del richiedente che sia espressamente diretta ad apprezzare se siano presenti fenomeni di tensione a sfondo religioso che possano confermare l’esistenza del rischio di persecuzione, o anche soltanto di trattamento umanamente degradante fondato su motivazioni esclusivamente religiose, paventato dal richiedente la protezione.

Laddove il giudice di merito rilevi l’esistenza dei fenomeni di cui anzidetto, non si può dare esclusivo rilievo, ai fini del diniego della protezione invocata, alla circostanza che il richiedente non si sia rivolto all’Autorità locale per chiedere tutela, poichè tale fatto può rappresentare uno degli elementi nei quali si articola, in concreto, il trattamento degradante e persecutorio cui il soggetto deduce di essere sottoposto. In una situazione di tensione religiosa, infatti, sarebbe irragionevole richiedere al soggetto potenzialmente esposto ad un trattamento ingiustamente discriminatorio di rivelare pubblicamente la propria fede religiosa, rivolgendosi alle Autorità, così esponendosi ad ulteriori rischi di persecuzione o discriminazione.

Ne deriva che, nel caso di specie, la Corte di Appello ha errato da un lato nel ritenere ininfluente, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato o quantomeno della protezione sussidiaria, la persecuzione o discriminazione a sfondo religioso, e dall’altro lato nel dare esclusivo rilievo, ai fini della valutazione della credibilità del racconto del richiedente la protezione, alla circostanza che egli non avesse dedotto di essersi vanamente rivolto alle Autorità del proprio Paese, senza considerare che tale mancata allegazione – o, più in generale, la decisione di non rivolgersi alle predette Autorità – potesse essere motivata proprio dal timore di essere soggetto a persecuzione.

Va quindi affermato, in conclusione, il principio secondo cui “Quando il richiedente la protezione internazionale o umanitaria alleghi il timore di essere soggetto, nel suo Paese di origine (o, se apolide, in quello di effettivo domicilio) ad una persecuzione a sfondo religioso, o comunque ad un trattamento umanamente degradante fondato su motivazioni a contenuto religioso (che rappresentano circostanze legittimanti lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria), il giudice di merito deve – nell’ambito del generale dovere di collaborazione istruttoria che contraddistingue i procedimenti in materia di protezione internazionale e umanitaria – condurre la valutazione sulla situazione interna del Paese di origine del richiedente indagando espressamente l’esistenza di fenomeni di tensione a contenuto religioso. Non assume, in tale valutazione, decisiva rilevanza il fatto che il richiedente la protezione internazionale non si sia rivolto alle Autorità locali per invocare tutela, o non abbia dedotto di averlo fatto, in quanto la decisione di non rivolgersi alle predette Autorità può derivare, in concreto, proprio dal timore di essere assoggettato, in ragione del suo credo religioso, ad ulteriori trattamenti persecutori o umanamente degradanti”.

Il ricorso va pertanto accolto e la causa va rimessa alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, affinchè riesamini la situazione alla luce del principio appena enunciato.

Le spese del presente giudizio di legittimità saranno regolate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 25 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019

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