LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRECO Antonio – Presidente –
Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –
Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –
Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16788-2018 proposto da:
P.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI PIETRALATA 320-D, presso lo studio dell’Avvocato GIGLIOLA MAZZA RICCI, rappresentato e difeso dall’Avvocato VINCENZO ANTONUCCI;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1717/1/2017 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE del PIEMONTE, depositata il 27/11/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/07/2019 dal Consigliere Relatore Dott.ssa ANTONELLA DELL’ORFANO.
RILEVATO
CHE:
P.V. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti della sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, indicata in epigrafe, che aveva respinto l’appello proposto contro la decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Torino n. 679/2016, in rigetto del ricorso proposto avverso avviso di accertamento IRPEF IVA 2010;
l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
CONSIDERATO
CHE:
1.1. il ricorrente lamenta con il primo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, violazione di norme di diritto (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, D.Lgs n. 165 del 2001, art. 4, D.Lgs. n. 165 del 2003, art. 17), avendo la CTR respinto l’eccezione d’invalidità dell’atto impositivo del contribuente “in quanto privo della sottoscrizione del Direttore dell’Ufficio senza che fosse allegata delega alcuna e senza che fosse stata provata la qualifica di dirigente del delegato”, ed avendo la CTR affermato che fosse inammissibile “la domanda delle motivazioni della delega non richiesta in primo grado… (e che)… in ogni caso nella disposizione di servizio…(erano)… riportate le motivazioni della delega a pagg. 28 e 29”;
1.2. il ricorrente lamenta in particolare che la delega prodotta fosse priva della “motivazione del conferimento della delega” e del nominativo del soggetto a cui veniva rilasciata;
1.3. la doglianza è infondata;
1.4. questo Collegio intende dare continuità all’orientamento, recentemente confermato dalla Suprema Corte in fattispecie analoghe (cfr. Cass. nn. 11013/2019, 8814/2019), secondo cui, in primo luogo, non è richiesta alcuna indicazione nominativa della delega, nè della sua temporaneità, apparendo conforme alle esigenze di buon andamento e della legalità della pubblica amministrazione ritenere che, nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ufficio, l’attuazione della c.d. delega di firma possa avvenire, come nella specie, attraverso l’emanazione di ordini di servizio che abbiano valore di delega (cfr. Cass. n. 13512/2011) – cfr. disposizione di servizio prodotta in primo grado, come attestato nella sentenza impugnata – e che individuino il soggetto delegato attraverso l’indicazione della qualifica rivestita dall’impiegato delegato, la quale parimenti consente la successiva verifica della corrispondenza fra il sottoscrittore e il destinatario della delega stessa;
1.5. è stato poi specificato, quanto alla motivazione della delega di firma, che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, è riferibile a una delega per la sottoscrizione, e non può dunque applicarsi ad una figura, quale la delega di firma, la disciplina dettata per la delega di funzioni, dovendo, sotto tale profilo, osservarsi che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 17, comma 1 bis, si riferisce espressamente ed inequivocabilmente alla “delega di funzioni”, laddove prescrive che i dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni di servizio, possono delegare per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze ad essi riservate, a dipendenti che ricoprono le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici ad essi affidate (cfr. Cass. n. 8814/2019 cit.);
1.6. va inoltre evidenziato che in tema di accertamento tributario, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’Ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva, di cui non è richiesta, però, la qualifica dirigenziale in quanto l’espressione “impiegato della carriera direttiva”, contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, non equivale a “dirigente” ma richiede un quid minus, considerato che a seguito delle evoluzioni normative e contrattuali, succedutesi dal 1973 in poi, l'”impiegato della carriera direttiva” oggi corrisponde al “funzionario della terza area” (cfr. Cass. nn. 22800/2015, 959/2015);
2.1. con il secondo motivo di ricorso sì censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, denunciando violazione di norme di diritto (L. n. 4 del 1929, art. 24,D.P.R. n. 600 del 1973, art. 70,L. n. 212 del 2000, artt. 6, 10 e art. 12, comma 7, art. 41 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, artt. 24 e 97 Cost.) perchè, secondo il ricorrente, la CTR avrebbe errato nell’affermare che “nel caso di verifica a tavolino non è prevista la predisposizione di un PVC (ndr. in quanto)… le garanzie della L. n. 212 del 2000 non operano per gli accertamenti cosiddetti “a tavolino”, quale è il caso di specie”;
2.2. in particolare, si lamenta nel caso in esame, “trattandosi di accertamento che riguarda anche i tributi armonizzati (IVA) ed essendo l’atto unico fondato sugli stessi presupposti, l’illegittimità dell’avviso di accertamento per cui è causa per mancata instaurazione del contraddittorio”;
2.3. la censura è infondata atteso che: a) in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’amministrazione finanziaria è tenuta a rispettare, anche nell’ambito delle indagini cd. “a tavolino”, come nel caso in esame, il contraddittorio endoprocedimentale ove l’accertamento attenga a tributi “armonizzati”: la violazione di tale obbligo comporta l’invalidità dell’atto purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (cfr. Cass. n. 20036/2018); b) non sussiste per l’Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg (poi divenuto IRES) ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. “a tavolino” (cfr. Cass. SU n. 24823/2015); c) in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’amministrazione finanziaria è tenuta a rispettare, anche nell’ambito delle indagini cd. “a tavolino”, il contraddittorio endoprocedimentale ove l’accertamento attenga a tributi “armonizzati”, ma la violazione di tale obbligo comporta l’invalidità dell’atto purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (cfr. Cass. n. 20036/2018);
2.4. la sentenza impugnata è conforme a tali principi di diritto poichè, nel caso di specie, la vicenda riguardava accertamenti formali, mediante contestazione di spese per prestazioni professionali poste in detrazione dal ricorrente, senza alcun accesso presso i locali del contribuente;
2.5. pertanto, per la parte dell’avviso d’accertamento impugnato che si riferiva a tributi “non armonizzati” (IRPEF) non vi era alcun obbligo di contraddittorio, non essendo specificamente previsto nella legge istitutiva del tributo indicato, mentre, per la parte relativa il ricorrente è rimasto del tutto inadempiente all’onere “di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato” (in tal senso Cass. Sez. U. n. 24823/2015; sulla questione della c.d. prova di resistenza e del suo esito negativo, cfr., ex multis, Cass. n. 1969, n. 3408 del 2017, n. 3142 del 2014, n. 13588 del 2014 la quale, peraltro, richiama sul punto il tenore testuale della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 18184 del 2013);
2.6. va altresì evidenziato che: “la garanzia di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, si applica a qualsiasi atto di accertamento o controllo con accesso o ispezione nei locali dell’impresa, ivi compresi gli atti di accesso istantanei finalizzati all’acquisizione di documentazione, in quanto la citata disposizione non prevede alcuna distinzione ed è, comunque, necessario redigere un verbale di chiusura delle operazioni anche in quest’ultimo caso, come prescrive il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 6” (cfr. Cass. n. 15624/2014); “in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, impone la redazione del processo verbale di chiusura delle operazioni in ogni caso di accesso o ispezione nei locali dell’impresa, ivi compresi gli atti di accesso finalizzati alla raccolta di documentazione, e solo dal rilascio di copia del predetto verbale decorre il termine di sessanta giorni trascorso il quale può essere emesso l’avviso di accertamento ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7” (cfr. Cass. n. 7843/2015);
2.7. nel caso di specie risulta correttamente e compiutamente accertato in fatto dal giudice tributario di appello che l’atto impositivo impugnato non era stato preceduto da un accesso presso il contribuente, al che consegue che la sentenza impugnata ha fatto piena e corretta applicazione dei principi di diritto espressi nei citati arresti giurisprudenziali circa la mancata redazione e consegna del p.v.c.;
2.8. neppure possono condividersi le censure di incostituzionalità prospettate dal ricorrente con riferimento al diverso regime di tutela del contraddittorio procedimentale nel caso di accertamento effettuato mediante visita ispettiva in loco e accertamento effettuato mediante l’esame presso i locali dell’Amministrazione finanziaria dei documenti o dei questionari dalla stessa acquisiti (c.d. “a tavolino”), in quanto, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire con la sentenza 7598/14, la particolare garanzia del contraddittorio procedimentale costituita dall’imposizione di un termine dilatorio per l’emanazione dell’atto impositivo, decorrente dalla chiusura delle operazioni di controllo, è limitata all’ipotesi di accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali del contribuente perchè solo in tali ipotesi si verifica un’invasione della sfera del contribuente, nei luoghi di sua pertinenza;
2.9. con l’accesso in loco, infatti, è l’Amministrazione, in base ai propri poteri d’impulso, a ricercare gli elementi che reputa utili a verificare la sussistenza di attività non dichiarate a da ciò deriva una specifica esigenza (che non sorge quando l’emanazione dell’atto impositivo derivi dall’esame di atti già in possesso dell’Amministrazione, o a questa forniti dal contribuente, e da questa esaminati nella propria sede) di dare spazio al contraddittorio, al fine di correggere, adeguare e chiarire gli elementi in tal modo raccolti, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione.;
2.10. contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del ricorrente, dunque, le ipotesi del controllo eseguito presso la sede del contribuente e del controllo c.d. a tavolino non possono essere assimilate, in quanto nella prima ipotesi l’espansione della tutela del contraddittorio procedimentale è massima, tendendo tale tutela tende a bilanciare lo squilibrio tra contribuente e Amministrazione derivante dall’assoggettamento del primo ai poteri ispettivi della seconda, cosicchè, come pure questa Corte non ha mancato di precisare con la sentenza n. 20770/13, poi ripresa dalla sentenza 2593/14, il termine dilatorio in questione si applica in tutti casi di accesso presso i locali del contribuente, pur quando il relativo processo verbale non contenga rilievi o addebiti (dovendo infatti, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 6, richiamato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, redigersi processo verbale anche degli accessi che si risolvano in una mera acquisizione di dati, elementi e notizie), nella seconda ipotesi, per contro, la naturale vis expansiva dell’istituto del contraddittorio procedimentale nei rapporti tra fisco e contribuente non giunge fino al punto da imporre termini dilatori all’azione di accertamento che derivi da controlli fatti dall’Amministrazione nella propria sede, in base ai dati forniti dallo stesso contribuente o acquisiti documentalmente;
3.1. con il terzo motivo di ricorso il ricorrente censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, denunciando, in rubrica, “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 54, e dell’art. 2697 c.c.” perchè, secondo la ricorrente, la CTR avrebbe errato nel rigettare il terzo motivo di appello del contribuente, ritenendo la spesa, oggetto di detrazione, non inerente, affermando che “l’importo della spesa sostenuta sarebbe antieconomica ed eccessiva in rapporto ai compensi dichiarati e non provata”;
3.2. con l’ordinanza n. 18904/2018 questa Corte ha precisato che il principio di inerenza esprime una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata e si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sè, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo, ma il giudizio quantitativo o di congruità non è, però, del tutto irrilevante, collocandosi, invece, su un diverso piano logico e strutturale;
3.3. la questione, invero, si intreccia con il profilo dell’onere della prova dell’inerenza del costo, che, secondo la costante giurisprudenza, incombe sul contribuente, mentre spetta all’Amministrazione la prova della maggiore pretesa tributaria (Cass. n. 10269/2017; Cass. n. 21184/2014; Cass. n, 13300/2017);
3.4. l’inerenza è, come evidenziato, un giudizio e la prova dunque deve investire i fatti costitutivi del costo, sicchè, per quanto riguarda il contribuente, il suo onere è, per così dire, “originario”, poichè si articola ancor prima dell’esigenza di contrastare la maggiore pretesa erariale essendo egli tenuto a provare (e documentare) l’imponibile maturato e, dunque, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, ovvero che esso è in realtà un atto d’impresa perchè in correlazione con l’attività d’impresa;
3.5. nella sua esplicazione effettiva tale onere si atteggia diversamente a seconda dello specifico oggetto della componente negativa in quanto, in molti casi, le caratteristiche documentate del costo o dell’operazione sono tali da far ritenere semplicemente evidente la correlazione tra la spesa e l’attività d’impresa;
3.6. in tal senso si spiega la giurisprudenza che distingue tra beni “normalmente necessari e strumentali” e beni “non necessari e strumentali”, concludendo “nel ritenere a carico del contribuente l’onere della prova dell’inerenza solo in questa seconda evenienza” (cfr. Cass. n. 6548/2012);
3.7. in realtà, nella prima ipotesi si assiste, più che una modifica dei criteri di ripartizione, ad una semplificazione dell’onere del contribuente; per contro, quando l’operazione posta in essere risulti complessa o anche atipica od originale rispetto alle usuali modalità di mercato, tale onere si atteggia in termini parimenti complessi e la qualificazione dell’operazione come atto d’impresa (che, per scelta o ventura, ha un coefficiente negativo) deve tradursi in elementi oggettivi suscettibili di apprezzamento in funzione del giudizio di inerenza;
3.8. l’Amministrazione finanziaria, ove ritenga gli elementi dedotti dal contribuente mancanti, insufficienti od inadeguati ovvero riscontri ulteriori circostanze di fatto tali da inficiare la validità o la rilevanza di quelli allegati a fondamento dell’imputazione del costo alla determinazione del reddito, può contestare la valutazione di inerenza;
3.9. semplificando, si può dire che due (ferma la possibile variegata articolazione dei casi concreti) sono le possibili ipotesi: nel primo caso la contestazione si risolve, sostanzialmente, sulla carenza degli elementi di fatto portati dal contribuente e, dunque, sulla loro insufficienza a giustificare una positiva valutazione di inerenza, all’altro estremo, invece, l’Amministrazione adduce l’esistenza di ulteriori elementi tali da far ritenere – di per sè od in combinazione con quelli portati dal contribuente – che il costo non sia, in realtà, correlato all’attività d’impresa;
3.10. l’antieconomicità del comportamento imprenditoriale, quindi, richiede da parte dell’Amministrazione finanziaria la dimostrazione dell’inattendibilità della condotta, inattendibilità che va considerata in chiave diacronica tenuto conto dei diversi indici che presiedono la stima della redditività dell’impresa (v. Cass. n. 13468 del 01/07/2015; Cass. n. 21869 del 28/10/2016), a fronte della quale spetta poi al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate (Cass. n. 25257 del 25/10/2017);
3.11. pertanto, l’Amministrazione finanziaria, nel negare l’inerenza di un costo per mancanza, insufficienza od inadeguatezza degli elementi dedotti dal contribuente ovvero a fronte di circostanze di fatto tali da inficiarne la validità o la rilevanza, può contestare l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa ed in tal caso è onere del contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali;
3.12. il tenore della decisione dei Giudici regionali, nella ricostruzione della vicenda fattuale, mostra la piena consapevolezza del valore da attribuire al concetto di inerenza e di congruità, con logica inappuntabile, poichè avverte che la spesa per prestazioni professionali (spese per consulenza fiscale) oggetto di contestazione doveva ritenersi priva di inerenza e congruenza in quanto non dimostrata mediante documentazione, non essendo stati prodotti “contratti su cui…(aveva)… lavorato” il professionista o attestanti la relativa “attività gestionale”;
3.13. a fronte di tali valutazioni, consequenziali, logiche, rigorose sul piano della rappresentazione dei dati emergenti, le diverse prospettazioni cui aspira il ricorrente sono volte ad una diversa ricostruzione dei fatti che implicherebbe un riesame del tutto inammissibile perchè riservato al giudice di merito ed inibito al giudice di legittimità;
3.14. quanto sopra assorbe l’esame dell’ulteriore rilievo critico del ricorrente circa la contestata violazione del principio di cassa, atteso che l’affermazione della mancanza di inerenza e congruità della spesa, mal censurata sulla base di quanto sin qui illustrata, costituisce autonoma ratio decidendi, idonea anche da sola a sorreggere la decisione impugnata;
4. per quanto fin qui osservato il ricorso va integralmente rigettato;
5. le spese della presente fase di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a pagare le spese del giudizio in favore dell’Agenzia controricorrente, liquidandole in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, Sesta Sezione, il 10 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019