Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.29100 del 11/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13978-2017 proposto da:

TELONERIA P. S.R.L. CON SOCIO UNICO, (già TELONERIA P.

DI P.L. C. S.N.C.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CATANZARO 9, presso lo studio dell’avvocato MAFALDA MARONNA, rappresentata e difesa dall’avvocato DIANA PIOPPI;

– ricorrente –

contro

PA.MA., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 83/A, presso lo studio dell’avvocato WLADIMIRA ZIPPARRO, rappresentato e difeso dall’avvocato CORINNA BIONDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 260/2016 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 30/11/2016, R. G. N. 42/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2019 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato DIANA PIOPPI;

udito l’Avvocato CORINNA BIONDI.

FATTI DI CAUSA

Con sentenza in data 30 novembre 2016, la Corte d’appello di Ancona dichiarava illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato il 21 dicembre 2012 da Teloneria P. s.r.l. a Pa.Ma. e condannava la società al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece rigettato il ricorso del lavoratore.

Pur ritenuta l’effettività della crisi aziendale giustificante la soppressione del posto del lavoratore, la Corte territoriale escludeva tuttavia, sulla base delle scrutinate risultanze istruttorie, la prova dell’offerta di mansioni anche inferiori, con il conseguente mancato assolvimento dell’obbligo datoriale di repechage, configurabile pure per mansioni di tale natura, se rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore e compatibili con l’assetto aziendale.

Con atto notificato il 29 maggio 2017, la società ricorreva per cassazione con sei motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui il lavoratore resisteva con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5 art. 2697 c.c., artt. 115,116 c.p.c., art. 414 c.p.c., n. 3, per erronea ripartizione dell’onere della prova in ordine all’esistenza di un posto cui il lavoratore, gravato dell’onere della relativa allegazione non adempiuto, avrebbe potuto essere adibito.

2. Con il secondo, essa deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, artt. 2697,2729,2103 c.c., per esclusione della possibilità datoriale di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, nell’incontestata indisponibilità incontestata di altre equivalenti a quelle svolte, posto che l’attribuzione avrebbe comunque comportato l’inammissibile conseguenza del licenziamento di un altro dipendente in sua vece.

3. Con il terzo, la ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 115 e 116 c.p.c., quale l’inesistenza di posti di lavoro liberi, anche riguardanti mansioni inferiori.

4. Con il quarto, essa deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 5, artt. 115,116 c.p.c., artt. 2727,2729 c.c., quale l’esatta formulazione dell’offerta datoriale di demansionamento al lavoratore, con la specificazione (del tutto ignorata dalla Corte territoriale, al contrario del Tribunale) che ciò avrebbe comportato, in difetto di posti disponibili neppure per mansioni inferiori, il licenziamento di un altro lavoratore, in violazione dell’obbligo di repechage.

5. Con il quinto, la ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2727,2729 c.c., quale l’equazione, erroneamente operata dalla Corte territoriale in difetto di riscontri istruttori, tra demansionamento e attribuzione di mansioni inferiori rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore.

6. Con il sesto, essa deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, artt. 2697,2729,2103 c.c., art. 41 Cost., per il mancato accertamento, sia pure esclusa la prova dell’anteriorità o contestualità al licenziamento del patto di demansionamento, del consenso del lavoratore ad esso, meramente presunto.

7. Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione delle norme suindicate per inadempimento dal lavoratore dell’onere di allegazione dell’esistenza di un posto cui avrebbe potuto essere adibito, è infondato.

7.1. Secondo principio di diritto consolidato presso questa Corte, spetta al datore di lavoro l’onere di allegazione e di prova dell’impossibilità di repechage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri (Cass. 22 marzo 2016. n. 5592; Cass. 13 giugno 2016, n. 12101; Cass. 5 gennaio 2017, n. 160; Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882). Ed è stato piuttosto ritenuto che la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l’esistenza di una posizione lavorativa disponibile (ribadita l’insussistenza di un onere a suo carico in tale senso), una volta accertata anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti – l’impossibilità di un ricollocamento nell’impresa del lavoratore medesimo per indisponibilità di posti in azienda, ai fini del repechage (la cui prova grava sul datore di lavoro), valga a corroborare il descritto quadro probatorio (Cass. 23 maggio 2018, n. 12794).

8. Anche il secondo motivo, relativo a violazione delle suindicate norme di diritto per esclusione della possibilità datoriale di adibire il lavoratore a mansioni inferiori per indisponibilità incontestata di altre equivalenti a quelle svolte, è infondato.

8.1. In linea di diritto giova ribadire, quanto all’onere di repechage, che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore,’ il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale (Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 8 marzo 2016, n. 4509; Cass. 6 dicembre 2018, n. 31653).

L’art. 2103 c.c. si deve, infatti, interpretare alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, quali il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 7, comma 5, la L. n. 68 del 1999, art. 1, comma 7, il D.Lgs. n. 223 del 1991, art. 4, comma 11 anche come da ultimo riformulato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3, comma 2: senza necessità, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, di un patto di demansionamento o di una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento (come invece per Cass. 18 marzo 2009, n. 6552), essendo onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale (Cass. 19 novembre 2015, n. 23698).

Ebbene, al di là di un difetto di specificità del motivo, in violazione del principio prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, per omessa trascrizione delle autocertificazioni dell’organico aziendale (indicate al primo capoverso di pg. 11 del ricorso) citate a fondamento della censura (Cass. 3 luglio 2010, n. 17915; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 10 agosto 2017, n. 19985), la violazione delle norme di legge denunciate non si configura, in difetto dei requisiti suoi propri (Cass. 31 maggio 2006, n. 12984; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038). Ed è noto che essa consista nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, necessariamente implicante un problema interpretativo della stessa, non mediato dalla contestata valutazione delle risultanze di causa, riservata alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 12 ottobre 2017, n. 24054). Proprio su una tale mediazione con le risultanze di causa la ricorrente ha incentrato la censura, non tanto allora nel corretto alveo di un error in iudicando, quanto piuttosto in quello inappropriato di una contestazione (nella sostanza, per insufficiente motivazione) dell’accertamento in fatto operato dalla Corte territoriale, sulla scorta delle scrutinate risultanze istruttorie, approdato alla conclusione di una mancanza di prova dell’offerta datoriale al lavoratore di mansioni inferiori per impossibilità incontestata di adibirlo ad altre equivalenti (come in particolare esposto al p.to 2.2.2. di pg. 6 della sentenza). E per giunta, traendo argomenti di confutazione dall’apprezzamento della natura contraddittoria di puntuali allegazioni datoriali (al p.to 2.2.3. di pg. 6 della sentenza), sulla base di una prospettata valutazione ipotetica di inevitabilità in ogni caso di un licenziamento, se non a carico di Pa.Ma. di “un altro in sua vece” (così agli ultimi capoversi di pgg. 11 e 15 del ricorso).

9. I motivi dal terzo al quinto, tutti riguardanti denuncia di omesso esame dei fatti suindicati, possono essere congiuntamente esaminati, per la loro evidente connessione.

9.1. Essi sono inammissibili.

9.2. Con essi non vi è deduzione di alcun fatto storico, ma piuttosto di una (ri)valutazione di risultanze istruttorie (con il terzo motivo) o di una valutazione ipotetica, come già nel secondo (con il quarto) o di una questione di diritto (con il quinto): con evidente eccedenza dell’ambito devolutivo del novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis.

Come noto, esso ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (nel senso che, qualora esaminato, sia idoneo a determinare un esito diverso della controversia). Da ciò discende che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”; fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie: con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. s.u. 7 aprile 2014 n. 8053; Cass. s.u. 22 settembre 2014 n. 19881; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

10. Il sesto motivo, relativo al mancato accertamento del consenso del lavoratore ad un patto di demansionamento, è inammissibile.

10.1. Ribadita la legittimità di un tale patto, pur anteriormente alla riformulazione dell’art. 2103 c.c. disposta dal D.Lgs. n. 81 del 2015, in presenza di condizioni tali da legittimare il licenziamento del lavoratore in mancanza di accordo, purchè il consenso sia stato espresso liberamente, sebbene in forma tacita ma attraverso fatti univocamente attestanti la volontà del lavoratore di aderire alla modifica in peius delle mansioni (Cass. 26 febbraio 2019, n. 5621), la ricorrente difetta di interesse, avendo la Corte anconetana escluso la prova di un’offerta datoriale di mansioni inferiori al lavoratore: sicchè, manca il presupposto per l’accertamento di un consenso del lavoratore a quanto, appunto, neppure offerto.

11. Dalle superiori argomentazioni discende il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese secondo il regime di soccombenza e il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la società alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019

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