Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.29404 del 13/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12263-2012 proposto da:

B.A., B.F., BE.AL., G.F. DEI F.LLI B. & C. SAS, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEL POZZETTO 122, presso lo studio dell’avvocato PAOLO CARBONE, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI CUNEO, AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimati –

Nonchè da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro temcore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORICGHESI presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente incidentale –

contro

G.F. DEI F.LLI B. & C. SAS, AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI CUNEO, B.F., B.A., BE.AL.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 25/2011 della COMM. TRIB.REG. di TORINO, depositata il 24/03/2011;

udita la relazione della causa nella camera di consiglio del 24/09/2019 del Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO.

RILEVATO

che:

La G.F. dei F.lli B. s.a.s., nonchè B.F., B.A., Be.Al., hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 25/22/2011, depositata dalla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte il 24.03.2011, che, rigettando l’appello principale dei contribuenti e quello incidentale della Agenzia delle Entrate, aveva confermato l’accoglimento solo parziale dei ricorsi avverso gli avvisi di accertamento relativi all’anno d’imposta 2004, con i quali erano stati rideterminati l’Iva e l’Irap per la società, l’Irpef per i soci.

Hanno rappresentato che a seguito di verifica fiscale presso la società, fabbricante mangimi per animali da allevamento, era stato notificato l’atto impositivo con cui si erano accertati e ripresi a tassazione alcuni componenti negativi del reddito d’impresa, relativi a costi dichiarati e ritenuti invece dall’Ufficio indeducibili, con conseguente rideterminazione del reddito imponibile e delle imposte, oltre interessi e sanzioni. Successivamente erano stati notificati ai soci gli atti impositivi con cui erano recuperati a tassazione i redditi imputati alla società di persona, D.Lgs. n. 917 del 1986, ex art. 5.

Avverso gli avvisi di accertamento i contribuenti avevano promosso altrettanti ricorsi, con cui erano sollevate varie eccezioni, tra le quali, per quello che in questa sede ancora interessa, quella di inesistenza della notificazione, e contestato il fondamento dei rilievi dall’I. al 18, elevati con l’avviso di accertamento.

La Commissione Tributaria Provinciale di Cuneo, con sentenza n. 19/10/2010, aveva rigettato le eccezioni ed accolto solo in parte i motivi di merito dei ricorrenti. La pronuncia era stata impugnata tanto dai contribuenti quanto dall’Ufficio, ciascuno per quanto soccombente. Con la sentenza ora al vaglio della Corte erano rigettati entrambi gli appelli.

I ricorrenti censurano la decisione con tre motivi.

Con il primo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e L. n. 890 del 1982, art. 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver riconosciuto l’illegittimità dell’avviso di accertamento per difetto di notifica;

con il secondo per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, nonchè per contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perchè, nell’esaminare il rilievo sui costi per sconti, non riconosciuti dalla Amministrazione e ripresi a tassazione, il giudice regionale aveva fatto erroneamente riferimento al citato D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 4;

con il terzo per violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), nonchè per omessa motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per non aver fatto buon governo delle regole sulla prova presuntiva, e per aver formulato una motivazione omissiva.

Hanno dunque chiesto la cassazione della sentenza, con decisione nel merito.

Si è costituita l’Agenzia, contestando l’avverso ricorso del quale ha chiesto l’inammissibilità e nel merito il rigetto. Con ricorso incidentale ha inoltre a sua volta censurato la sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 109, comma 5, e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., nonchè per contraddittoria motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver erroneamente riconosciuto la deducibilità di costi dichiarati dalla società contribuente e relativi ad interessi passivi sostenuti per finanziamenti infruttiferi a terze società.

Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza.

E’ stata depositata memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

CONSIDERATO

che:

Esaminando il ricorso dei contribuenti, il primo motivo, con il quale si lamenta il mancato riconoscimento del difetto di notifica dell’avviso di accertamento e dunque l’illegittimità dell’avviso di accertamento, è inammissibile.

Pur diffondendosi nel motivo, i ricorrenti non accennano alla causa del denunciato vizio di notifica, lamentandosi esclusivamente del fatto che, secondo la ricostruzione prospettata, il giudice regionale avrebbe ritenuto superato il difetto di notifica per aver comunque impugnato l’atto impositivo, e dunque per intervenuta sanatoria della nullità ai sensi dell’art. 156 c.p.c..

L’inammissibilità è ancora più marcata quando si consideri che oggetto del contenzioso non è neppure un unico avviso di accertamento, ma più atti impositivi, e dalla articolazione della difesa non è dato neppure comprendere se il vizio di notifica abbia riguardato tutti gli avvisi o alcuni di essi.

D’altronde, a prescindere dal contenuto insufficiente del motivo, questa Corte ha affermato che in tema di ricorso per cassazione, ove sia denunciato il vizio di una relata di notifica, o comunque una questione che si relazioni alla notifica e alla sua relata, per il principio di autosufficienza del ricorso si esige la trascrizione integrale di quest’ultima. La sua omissione determina l’inammissibilità del motivo (Cass., sent. n. 5185/2017; sent. 17424/2005, 17145/2018). Infatti, ancorchè denunciata la violazione di una norma processuale, non sarebbe sufficiente ad attivare il potere-dovere di esame degli atti, al fine di accertare la sussistenza o meno della dedotta violazione, un generico richiamo alla relata, essendo invece necessaria, per il principio dell’autosufficienza, la sua integrale trascrizione, onde consentire al giudice il preventivo esame della rilevanza del vizio denunziato. Il principio, affermato in tema di vizi di notifica di un atto processuale, trova applicazione anche nel caso di specie, tenendo peraltro conto della mancata sufficiente esposizione dei fatti di causa.

Infondato, quando non inammissibile, è il secondo motivo, con il quale, trattando del rilievo con il quale l’Ufficio aveva recuperato ad imponibile la componente negativa dello “storno di ricavi” e delle due note di accredito, i ricorrenti censurano la decisione per aver confuso la previsione contenuta nell’art. 109 TUIR, comma 1 con quanto previsto dal comma 4 della medesima norma.

In sintesi i contribuenti sostengono che in ordine al recupero a tassazione della voce riportata nei costi (rilievo 17 dell’avviso di accertamento notificato alla società), il giudice regionale avrebbe disatteso l’appello, valorizzando il comma 4 della norma, secondo cui “le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico dell’esercizio di competenza (facendo poi seguito alcune eccezioni)”, laddove nel caso di specie i costi di cui al rilievo n. 17 risultavano palesemente “transitati dal conto economico nella misura in cui sono stati disconosciuti dall’organo accertatore.”. In tal modo, sempre secondo la prospettazione difensiva, il giudice d’appello avrebbe confuso il contenuto dell’art. 109 TUIR, comma 1, che fissa il criterio della competenza, nonchè quello della certezza e determinazione della componente (sia essa positiva o negativa) assunta a calcolo del reddito, con quello del comma 4, così incorrendo in ultrapetizione.

Il pur articolato motivo non coglie nel segno. A parte che il giudice incorre nella violazione del divieto di ultrapetizione soltanto ove sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio dalle parti (cfr. Cass., n, 5153/2019; 15925/2007), vicenda ben distinta dalla presente, nel concreto la pronuncia ora censurata ha condiviso la prospettazione della Agenzia proprio in merito alla certezza e precisione dei costi e ricavi, principio che ha evidenziato come comune tanto a quello generale contenuto nell’art. 109 TUIR, comma 1, quanto alla previsione (certo distinta) del comma 4. Quello che in altri termini il giudice regionale ha condiviso delle ragioni amministrative del recupero a tassazione è proprio la assenza di certezza della spesa, circostanza rispetto alla quale perde ogni rilievo il riferimento al comma invocato del citato art. 109 TUIR.

Infatti, proprio in riferimento alla spesa, formalmente rappresentata dallo storno di ricavi e dalle note di accredito, la sentenza individua gli elementi che ne evidenziano la dubbia sussistenza. A tal fine viene valorizzata la comunanza dei soci della Genta snc, che aveva provveduto allo storno di ricavi connesso alla riduzione dei prezzi già definiti con le due società beneficiarie, con quelli di queste ultime (cioè i soci delle due società clienti erano gli stessi della odierna contribuente); lo sconto era applicato a sole due società clienti, e non a tutti i clienti, il che appariva irrazionale e non improntato a logiche commerciali (considerazione ancor più valida se si considera che dagli atti difensivi emerge che i contribuenti avevano giustificato la scelta per via di un vantaggioso acquisto di materia prima sul mercato, il che rendeva ancor meno logica l’applicazione della riduzione del prezzo a soli due clienti e non all’intera platea di clienti); le note di accredito erano datate 31.12.2005, laddove lo sconto accordato riguardava la fine dell’esercizio 2004, mancando peraltro ogni documentazione a supporto della corretta rettifica al reddito dichiarato; l’operazione di sconto metteva in evidenza che mentre la perdita appostata in bilancio determinava una consistente riduzione dei ricavi sociali della odierna società contribuente, con conseguente riduzione dell’imponibile, per le società beneficiate, già in perdita, non emergeva alcun imponibile.

E’ allora evidente che la motivazione della sentenza, su cui può appuntarsi il vaglio critico di questa Corte, è concentrata soprattutto su una serie di indizi, gravi, precisi e concordanti, che portavano a dimostrare la insussistenza dello sconto, strumento artificioso dichiarato al fine di ridurre l’imponibile. La motivazione appare pertanto anche completa e logica.

Il terzo motivo, per quanto appena chiarito, e con il quale ci si duole del malgoverno delle regole sulla prova presuntiva e del vizio motivazionale, è assorbito dal rigetto della seconda censura, essendo la sentenza supportata, al contrario di quanto denunciato dai contribuenti, da motivazione fondata su indizi gravi precisi e concordanti, nonchè dotata di logica argomentazione.

In conclusione il ricorso principale va rigettato.

Esaminando ora il ricorso incidentale della Agenzia, questa si duole della pronuncia del giudice regionale perchè, in relazione al rilievo n. 16 dell’atto impositivo, diversamente dalla determinazione dell’Ufficio, che aveva recuperato a tassazione i costi dichiarati dalla società per interessi passivi sostenuti per finanziamenti infruttiferi concessi a favore di società terze, ne aveva invece riconosciuto la deducibilità.

Il giudice regionale perviene alla conclusione della riconoscibilità del costo per interessi passivi sostenuti dalla società per finanziare terzi sull’assunto che “seppur ragionevole” ritenere che la deducibilità di tali oneri debba ricondursi a finanziamenti coerenti con l’attività economica svolta, in assenza di espressa previsione normativa l’interpretazione restrittiva non trova riscontri oggettivi, e che d’altronde, rilevato che i suddetti finanziamenti sono stati concessi a favore si società clienti, essi possono comunque ricondursi nell’alveo della inerenza.

Il concetto di inerenza, secondo l’interpretazione tradizionale, trova allocazione nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, e in particolare è ricondotto al rapporto tra costo ed impresa. E’ stato affermato che, con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’inerenza all’attività d’impresa delle singole spese e dei costi affrontati, indispensabile per ottenerne la deduzione D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 109 (già 75), va definita come una relazione tra due concetti – la spesa (o il costo) e l’impresa – sicchè il costo (o la spesa) assume rilevanza ai fini della qualificazione della base imponibile non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (cfr. Sez. 5, ord. n. 20049 del 2017; ord. n. 11241 del 2017; sent. n. 4041 del 2015). Anche l’ampiezza dello spettro entro cui riconoscere un rapporto di inerenza è stata scrutinata dalla giurisprudenza, sensibile a non ridurre la relazione entro criteri meramente formali, ampliandone invece la portata mediante la valorizzazione del rapporto e delle ricadute concrete tra spesa e coerenza economica con l’attività di impresa. Così se per un verso si è negato che il rapporto trovi conforto nella mera contabilizzazione del costo (tra le tante, Sez. 5, sent. n. 21184 del 2014) e che al contrario sia necessario e incombente sul contribuente l’onere di allegazione della documentazione di supporto da cui ricavare l’importo, nonchè la ragione e la coerenza economica della spesa al fine della prova dell’inerenza (anche qui, tra le tante, anche recenti, Sez. 5, ord. n. 13300 del 2017; con specifico riferimento all’Iva cfr. Sez. 5, sent. n. 22130 del 2013), per altro verso è stato opportunamente e condivisibilmente avvertito come ai fini della deducibilità dei costi per la determinazione del reddito d’impresa non è sufficiente che l’attività svolta rientri tra quelle previste nello statuto sociale, circostanza che ha un valore meramente indiziario circa la sua inerenza all’effettivo esercizio dell’impresa, incombendo sul contribuente l’onere di dimostrare che un’operazione, anche apparentemente isolata e non diretta al mercato, sia inserita in una specifica attività imprenditoriale e destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore (Sez. 5, sent. n. 3746 del 2015). Il che introduce un criterio interpretativo non solo utilizzabile per negare inerenza a spese finalizzate esclusivamente al conseguimento di vantaggi fiscali (come per la fattispecie analizzata nella pronuncia da ultimo citata), ma anche, al contrario, per valorizzare spese che concretamente, in prospettive di ampia visione, si rivelino utili al progetto imprenditoriale.

Tale ultimo rilievo torna utile quando, con un più recente orientamento, la Corte, abbandonando il tradizionale criterio del rapporto tra costo e requisiti di congruità e vantaggiosità dello stesso e prendendo le distanze dall’art. 109 Tuir quale fondamento del concetto di inerenza, ha affermato che, in tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa, non dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 (già art. 75), comma 5, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili. Si è in particolare sostenuto che l’inerenza deve esprimere la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta, in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico, senza che assuma rilevanza la congruità delle spese, perchè il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Sez. 5, ord. n. 450 del 2018). L’impostazione da ultimo riferita assume tuttavia solo apparentemente una posizione di rottura con il passato, perchè -ad una piana lettura-è meno lontana di quanto sembri dalla tradizionale interpretazione. Infatti, quando si consideri che per un verso viene valorizzato il rapporto, caldeggiato da autorevole dottrina, tra spesa e sua riferibilità, immediata o mediata, alla produzione del reddito (con esclusione dunque di quelle spese afferenti la cd. disposizione del reddito), e per altro verso si instaura il rapporto tra spesa e reddito di impresa, l’abbandono dei requisiti della vantaggiosità e congruità del costo non vuol significare che essi siano del tutto esclusi dal giudizio di valore cui resta comunque sottoposta la spesa al fine del riconoscimento della sua inerenza e dei presupposti per la sua deducibilità. Qualunque sia il concetto di impresa, anche nelle teorie più socialmente orientate a svilirne finalità di utile economico, e, per le società, lo scopo del conseguimento di utili (ai fini del fisco elemento di manifestazione di ricchezza e dunque presupposto stesso della tassazione), e qualunque finalità voglia perseguirsi con l’impresa, non può certo negarsi l’esigenza di applicazione di buone regole di gestione dell’attività, che contrastano assiomaticamente con spese svantaggiose, incongrue e sproporzionate tali ovviamente non in rapporto all’esito del costo ma secondo un giudizio prognostico a monte, dovendosi altrimenti negare il rischio d’impresa-. Ciò perchè è ipotizzabile con sufficiente certezza che spese incongrue o svantaggiose conducano alla mala gestione dell’impresa -e da ultimo alla sua crisi e cessazione-, sicchè i criteri, apparentemente estromessi, tornano ad assumere indirettamente rilevanza, come d’altronde evidenzia lo stesso innovativo orientamento nella parte conclusiva dello sviluppo argomentativo, affermando che “l’antieconomicità e l’incongruità della spesa sono indici rivelativi della mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa”. (cfr. ord. n. 450 cit.).

D’altronde, anche considerando il tradizionale orientamento interpretativo sul concetto di inerenza, la valorizzazione della congruenza e vantaggiosità del costo rapportato all’impresa già prima, a ben vedere, implicava un giudizio di valore qualitativo della stessa spesa.

Tenendo presenti queste preliminari considerazioni sul concetto di inerenza, nella presente fattispecie l’Amministrazione lamenta che nel giudizio di valore espresso dalla Commissione regionale, che ha riconosciuto la deducibilità dei costi sopportati a titolo di interessi passivi pagati per concedere finanziamenti infruttiferi a società terze, ancorchè clienti, vi sia stata una erronea applicazione della disciplina sulla inerenza dei costi, nonchè una cattiva gestione dei principi di riparto dell’onere della prova, che in concreto si riflette sulla idoneità della documentazione a provare l’effettività e l’inerenza dei costi medesimi. A tal fine anzi va anche rammentato che sul piano dell’onere della prova, di essa è onerato il contribuente ai sensi dell’art. 2697 c.c., e che non è sufficiente che la spesa sia stata dall’imprenditore riconosciuta e contabilizzata, atteso che essa può essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste una documentazione di supporto, dalla quale possa ricavarsi, oltre che l’importo, la sua ragione e la sua coerenza economica, risultando altrimenti legittima la negazione della sua deducibilità, quale costo estraneo ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (Cass., Sez. 6-5, ord. n. 11241 del 2017; Sez. 5, ord. n. 13300 cit.; sent. n. 10269 del 2017; sent. n. 9818 del 2016, sent. n. 6650 del 2006).

Ebbene, la motivazione della sentenza, che peraltro per un verso, esprimendosi in forma perplessa, concorda con le ragioni sottese al recupero ad imponibile della spesa invece appostata tra i componenti negativi dalla società, ma per altro verso si trincera nella constatazione che non vi siano espliciti divieti normativi al riconoscimento della suddetta componente tra i costi, mostra di non tenere conto di nessuno dei principi appena espressi. Ciò si traduce in una motivazione del tutto erronea, sotto il profilo dell’error iuris in iudicando, con riguardo alla disciplina della inerenza, così come del vizio motivazionale, per la contraddittorietà dell’argomentazione, trascurando che il concetto di inerenza non può certo ricondursi ad elenchi pur latamente oggettivi, ma alla interpretazione delle componenti del reddito, secondo l’interpretazione della disciplina positiva.

In conclusione il motivo è fondato e trova accoglimento, dovendosi per conseguenza cassare sul punto la sentenza della Commissione Tributaria Regionale.

Non emergendo peraltro la necessità di ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa anche nel merito. A tal fine, mancando ogni prova del rapporto di inerenza del costo sostenuto per il pagamento degli interessi passivi maturati sulle somme necessarie per la concessione a società terze di finanziamenti infruttiferi, prova di cui la società era pur onerata, correttamente l’Agenzia ha recuperato ad imponibile il suddetto importo iscritto invece tra i costi dalla società (rilievo n. 16). Anche sotto tale profilo va pertanto rigettato il ricorso introduttivo dei contribuenti.

All’esito del giudizio i ricorrenti principali vanno condannati alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla Agenzia nel giudizio di legittimità, spese che si liquidano nella misura specificata in dispositivo. L’esito del processo dinanzi alle Commissioni, provinciale e regionale, giustifica la compensazione delle spese processuali relative ai gradi di merito.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale della Agenzia, cassa la sentenza impugnata nei limiti dell’accoglimento del ricorso incidentale e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo dei contribuenti anche in riferimento al rilievo n. 16 dell’atto impositivo; compensa le spese processuali dei gradi di merito e condanna i contribuenti alla rifusione in favore della Agenzia delle Entrate delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.000,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 24 settembre 2019.

Depositato in cancelleria il 13 novembre 2019

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