Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.29497 del 14/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20708/2017 proposto da:

F.S., N.P.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE CARSO 23, presso lo studio dell’avvocato MARIA ROSARIA DAMIZIA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZA CESCATTI;

– ricorrenti –

contro

ENTE ECCLESIASTICO ISTITUTO FIGLIE DI SAN CAMILLO OSP.LE GEN. LE DI ZONA SAN CAMMILLO TRENTO, in persona della procuratrice generale, B.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA C. COLOMBO 440, presso lo studio dell’avvocato FRANCO TASSONI, che lo rappresenta e difende;

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, V. ALBENGA 45, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO COLINI, rappresentato e difeso dagli avvocati GIANPIERO MIRANDI, FRANCO BUSANA;

– controricorrenti –

e contro

SOCIETA’ REALE MUTUA ASSICURAZIONI SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 603/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 28/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/2019 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per l’accoglimento del 3 motivo di ricorso p.q.r.;

udito l’Avvocato MARIA ROSARIA DOMIZIA;

udito l’Avvocato FRANCO TASSONI.

FATTI DI CAUSA

1.1 Avendo N.P.E. e suo marito F.S. convenuto davanti al Tribunale di Trento per ottenere risarcimento di danni M.G. – ginecologo che aveva seguito una gravidanza dell’attrice da cui era nata nel 1996 una bambina con malformazioni per infezione di cytalomegalovirus (CMV) – e l’Ospedale *****, il Tribunale con sentenza del 12 dicembre 2003 condannava il M. a risarcire gli attori del danno morale per il reato di cui all’art. 328 c.p., rigettando invece la domanda di risarcimento degli ulteriori danni, tra l’altro per assenza di nesso causale tra l’incompleta informazione del rischio di infezione primaria del feto del suddetto virus e il mancato esercizio del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza.

Sia il M. sia i coniugi N.E. e F.S. proponevano appello; e con sentenza del 18 gennaio 2005 la Corte d’appello di Trento accoglieva l’appello del M., rigettando quello di controparte.

1.2 N.E. e F.S. ricorrevano per cassazione, e questa Suprema Corte, con sentenza n. 2354/2010, cassava con rinvio la sentenza di secondo grado, confermando l’inesistenza (già dichiarata dal giudice d’appello) del reato ex art. 328 c.p. e dichiarando che il M. aveva violato il diritto della N. a essere informata sulla esistenza di indagini, pur pericolose per il feto, dirette ad accertare se questi aveva contratto il suddetto virus e se riportava anomalie/malformazioni; stabiliva altresì di accertare se, in rapporto a tale violazione dell’obbligo di informazione (inadempimento del contratto tra il M. e la N.), la conoscibilità di anomalie e malformazione del feto con i mezzi diagnostici disponibili all’epoca avrebbe causato (secondo una prognosi postuma), applicando la regola del “più probabile che non”, un grave pericolo di lesione del diritto alla salute della N., e di accertare se per tale violazione dell’obbligo di informazione fosse stato leso anche il F., pur terzo rispetto al contratto.

1.3 Riassunta la causa dai coniugi dinanzi alla Corte d’appello di Brescia, quest’ultima disponeva consulenza tecnica d’ufficio e poi, con sentenza del 28 aprile 2017, rigettava le loro domande ritenendo che, come sarebbe emerso dalla consulenza suddetta, le conoscenze dell’epoca non avrebbero consentito di diagnosticare la natura primaria dell’infezione da CMV. Sarebbe stata infatti necessaria la funicolocentesi, che però non avrebbe potuto essere espletata sulla base di un referto sierologico come quello risultato per la N.; e il mero sospetto che il M. avrebbe così rivelato alla N. se egli avesse adempiuto al suo obbligo informativo non avrebbe causato alla gestante un pericolo alla salute psico-fisica tale da indurla (erano stati oltrepassati i primi tre mesi di gravidanza) al c.d. aborto terapeutico.

2. Hanno presentato ricorso N.P.E. e F.S.. Con rispettivo controricorso si sono difesi M.G. e l’Ente Ecclesiastico Istituto Figlie di San Camillo. N.P.E. e F.S. hanno depositato memoria; memoria è stata depositata pure dall’Ente Ecclesiastico controricorrente.

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è articolato in quattro motivi.

3.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità del procedimento e della sentenza in relazione agli artt. 112 e 196 c.p.c..

Il giudice, peritus peritorum, nel caso in cui intenda aderire alla consulenza tecnica d’ufficio dovrebbe esaminare comunque le censure che le sono state mosse dal perito di parte e i rilievi del difensore. Nel caso in esame sarebbe stata criticata la consulenza, chiedendone il rinnovo o la sostituzione del consulente tecnico d’ufficio, per le seguenti ragioni:

a) non avere tenuto conto della sentenza di rinvio in ordine alla violazione dell’obbligo di informazione da parte del M.;

b) avere dato per certe quelle che sarebbero state convinzioni personali della consulente, tra cui il fatto che la funicolocentesi non sarebbe stata eseguita in nessuno dei centri italiani che all’epoca la praticavano, benchè nella consulenza tecnica disposta dal Tribunale ed effettuata nel 2001 si sarebbe affermato che già all’epoca delle due prime determinazioni virogiche si sarebbe potuto diagnosticare mediante appunto la funicolocentesi, che veniva eseguita nei centri di *****; e il consulente tecnico sarebbe stato proprio un medico di *****;

c) l’impossibilità, affermata dalla consulenza tecnica d’ufficio disposta dalla corte bresciana, non sarebbe stata “suffraga, da linee guida” dei centri italiani che effettuavano la funicolocentesi, nè da studi che l’avrebbero documentato. Si adduce che il consulente tecnico “deve sempre indicare le fonti dei propri accertamenti”, specialmente nel caso in cui la fonte non sia agli atti. Il consulente tecnico della prima consulenza svoltasi nel 2001 avrebbe affermato che, a suo avviso, vi era necessità o comunque si doveva fornire alla gestante “una concreta indicazione per un approfondimento invasivo (funicolocentesi)” necessario per sapere se il virus dal sangue materno era passato al feto, così da poter poi valutare statisticamente la possibilità di malattia. E il consulente tecnico di parte degli attuali ricorrenti avrebbe segnalato gli elevati valori di IgG emersi dall’accertamento di laboratorio che, secondo il primo consulente tecnico, fornivano una “diagnosi fortemente sospetta di infezione primaria”. Pertanto sussisterebbe violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sulla specifica censura alla consulenza tecnica d’ufficio.

3.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per omesso esame di fatto discusso e decisivo, rappresentato dalla esistenza nel 1996 del test di avidità delle IgG, evidenziata dal consulente tecnico di parte e che però non sarebbe stata considerata nella consulenza disposta dal giudice di rinvio, il quale non l’avrebbe considerata a sua volta, pur trattandosi di un test che avrebbe potuto diagnosticare con elevatissima probabilità (secondo il consulente tecnico di parte) e così condurre la N. a poter valutare se esercitare il diritto d’interruzione volontaria della gravidanza. La mancanza di motivazione al riguardo costituirebbe violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

3.3 Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nullità della sentenza per violazione dell’art. 2697 c.c. in ordine all’onere della prova e violazione dell’art. 115 c.p.c., in ordine alla disponibilità delle prove.

Secondo il riparto dell’onere probatorio indicato da S.U. 25767/2015, il M. avrebbe dovuto provare l’esistenza del nesso causale tra la sua condotta, omissiva, e il pregiudizio fisico e/o psichico subito dalla N.. La corte territoriale, invece, avrebbe implicitamente gravato proprio quest’ultima dell’onere probatorio che, anche per vicinanza, avrebbe potuto adempiere soltanto il medico.

3.4 Il quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c., per mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato e per omessa pronuncia su specifica domanda.

La corte territoriale avrebbe escluso che la violazione del diritto di informazione abbia causato danni risarcibili. Avrebbe invece dovuto il M., anzichè rassicurare la gestante, adempiere al suo obbligo di informarla dell’esistenza di centri dove il suo problema avrebbe potuto essere oggetto di indagine.

L’informazione del sanitario dovrebbe essere comprensiva di tutti gli elementi perchè la paziente effettui una scelta informata. Alla violazione dell’obbligo informativo consegue la violazione del diritto di autodeterminazione: e ciò non solo per l’interruzione volontaria della gravidanza, ma altresì in ordine alla ricerca di un ulteriore parere e di un centro più attrezzato per effettuare la funicolocentesi o “sperimentare nuove metodiche”. Gli attuali ricorrenti avrebbero denunciato il loro danno quale danno non patrimoniale da violazione dei diritti fondamentali come “diritto ad esprimere la propria personalità, la libertà personale, la salute” ai sensi degli artt. 2,13 e 32 Cost.. La sentenza di cassazione con rinvio non avrebbe escluso i danni da mancata o erronea informazione. I ricorrenti avrebbero chiesto tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, loro derivati dal comportamento del M.; e il primo consulente tecnico d’ufficio avrebbe riconosciuto che pativano un grave danno, esistenziale e non biologico. La corte territoriale avrebbe omesso di pronunciare sulla specifica domanda risarcitoria da violazione dell’obbligo informativo.

4.1 Va premesso che il primo motivo contiene due censure, cosicchè – non essendosi arrestato comunque a un livello di genericità/incomprensibilità, livello che lo avrebbe portato alla inammissibilità – deve esercitarsi il potere/dovere del giudice di legittimità di distinguerle e qualificarle esattamente (su quest’ultimo profilo, v. per tutti S.U. 24 luglio 2013 n. 17931).

Prima facie, il motivo parrebbe denunciare soltanto la non corretta valutazione da parte della Corte d’appello di Brescia degli esiti della consulenza tecnica d’ufficio da essa disposta, in contrasto con la sua qualità di peritus peritorum: di qui il richiamo in rubrica dell’art. 196 c.p.c.. Tuttavia una lettura completa e contestualizzante delle varie parti che compongono il motivo conduce anche a individuare quel che nella rubrica è già segnalato mediante il pur erroneo riferimento all’art. 112 c.p.c.: erroneo, dal momento che quella species di ultrapetizione che il motivo affianca come denuncia di error in procedendo alla censura relativa all’analisi della consulenza tecnica d’ufficio è piuttosto riconducibile all’art. 383 c.p.c..

4.2 Invero, il motivo – a pagina 13 del ricorso -, dopo l’immediato asserto che il giudice non avrebbe appunto valutato in modo corretto gli esiti della consulenza, rimarca che alla consulenza erano state mosse determinate critiche, tra cui quella che viene indicata sub a): “aver escluso qualunque responsabilità del sanitario (“il M. si comportò correttamente inviando la propria paziente all’ospedale *****” pag. 16) nonostante il chiaro pronunciamento della sentenza n. 2354 della Corte di Cassazione (“tale condotta del M. ha violato il diritto della N. ad essere informata che esistevano indagini prenatali più approfondite, pur se rischiose per la sopravvivenza del feto, che le consentivano di accertare sia se questi aveva contratto il virus sia se questi aveva contratto il virus di CMV, sia se era affetto da rilevanti anomalie o malformazioni”) (pag. 15), in violazione del giudicato interno della sentenza” (si rileva fin d’ora che il passo riportato, e definito “chiaro pronunciamento della sentenza” che ha cassato con rinvio, si rinviene effettivamente a pagina 15 della sentenza rescindente di questa Suprema Corte).

Dopo avere poi svolto argomenti relativi al contenuto della consulenza tecnica d’ufficio disposta dal giudice di rinvio, a pagina 19 i ricorrenti riprendono quanto già inserito nella prima parte del motivo, a pagina 13 del ricorso, per formulare una sorta di sua conclusione o comunque il suo ribadimento: “Nel procedimento si è determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ex art. 112 c.p.c., poichè, se il giudice avesse preso in considerazione gli atti sopra indicati (quelli del difensore, la CTU assunta dal Tribunale di Trento e la CTP) in conformità all’accertamento contenuto nella sentenza di questa Corte n. 2354/2010, non solo avrebbe dovuto confermare la sentenza di legittimità in ordine alla colpevolezza del Dott. M., ma avrebbe dovuto tener conto che dalle conoscenze della scienza medica dell’epoca vi era la corretta indicazione affinchè la N. venisse sottoposta a funicolocentesi…”.

Nonostante le “intrusioni” dell’ulteriore doglianza, relativa appunto alla critica sul contenuto della consulenza tecnica d’ufficio disposta dal giudice di rinvio, emerge allora una censura avente ad oggetto un asserito superamento, da parte di quest’ultimo, dei limiti assegnatigli nella sentenza rescindente, censura che logicamente esige di essere esaminata per prima tra le due inserite come submotivi nella prima doglianza.

4.3 E’ noto che la sentenza di questa Suprema Corte che opera un rinvio prosecutorio ex art. 383 c.p.c., comma 1, incide sul contenuto del susseguente giudizio, delimitando quindi i poteri del giudice di rinvio, che, se li oltrepassa, incorre proprio in error in procedendo. L’incidenza è conformata, a sua volta, dal contenuto della pronuncia rescindente.

Invero i limiti del potere del giudice di rinvio si differenziano a seconda che il ricorso per cassazione sia stato accolto per motivi di diritto stricto sensu oppure che sia stato accolto per vizio motivazionale o anche per vizio motivazionale cumulato a vizi di diritto: nel primo caso, il giudice di rinvio deve applicare il principio di diritto dettato dalla sentenza di cassazione, essendogli precluso di accertare e valutare i fatti acquisiti al processo; nel secondo caso, ovvero quando la cassazione con rinvio è stata pronunciata per vizio di motivazione, eventualmente insieme a vizio di diritto, si è in generale affermato che “il giudice è investito del potere di valutare liberamente i fatti già accertati ed anche d’indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo, in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata” (così, di recente, Cass. sez. 3, 6 luglio 2017 n. 16660; sulla stessa linea, tra gli ultimi arresti, Cass. sez. 6-5, ord. 2 febbraio 2018 n. 2652, Cass. sez. L, 29 maggio 2014 n. 12102, Cass. sez. 5, 5 aprile 2013 n. 8381; cfr. pure Cass. sez. 6 – 5, ord. 16 novembre 2016 n. 23335 e Cass. sez. L, 14 giugno 2006 n. 13719).

Peraltro, questa modulazione del potere del giudice di rinvio non può non rapportarsi al concreto contenuto della sentenza di cassazione, non potendo incidere la mera formale presenza, nella censura accolta, oltre a violazione di legge, anche di denuncia di vizio motivazionale qualora, in effetti, la cassazione presupponga la sussistenza di fatti pacifici. Pertanto, si è precisato che la sentenza di cassazione con rinvio enunciante un principio di diritto genera efficacia preclusiva sui fatti che di tale principio sono presupposto come fatti pacifici o comunque già accertati, non potendo quindi il giudice di rinvio prendere in considerazione nuovi fatti da apprezzare in concorso con quelli già dimostrati (Cass. sez. 2, 26 settembre 2018 n. 22989; Cass. sez. L, 23 aprile 2004 n. 7740; Cass. sez. L, 20 febbraio 2004 n. 3446; Cass. sez. L, 30 maggio 2001 n. 7379; Cass. sez. 1, 15 aprile 1995 n. 4299).

Il ragionevole principio dell’economia processuale – insito nel valore costituzionale della ragionevole durata del processo – porta il giudizio di rinvio ad essere il più possibile “chiuso”, così da non ripetere quel che è già stato correttamente compiuto e che, stabilizzato dalla sentenza rescindente, merita equiparazione al giudicato (cfr., da ultimo, Cass. sez. L, ord. 5 marzo 2019 n. 6344). Pertanto, la giurisdizione rescindente ragionevolmente non può non investire anche risvolti fattuali qualora questi siano insiti e inscindibili dal decisum di diritto che si giunge a porre in essere (così, ancora da ultimo, Cass. sez. 1, ord. 29 marzo 2019 n. 8971 afferma la vincolatività per il giudice di rinvio della natura decisiva dei fatti che è stata riconosciuta accogliendo il motivo denunciante vizio motivazionale).

Pertanto, in ultima analisi, per identificare l’ambito entro cui è racchiuso e anzi “recintato” il giudizio di rinvio occorre ricostruire l’effettivo contenuto della sentenza rescindente, ricostruzione per la quale questa Suprema Corte dispone anche di tutti i poteri di fatto (su questo v., p.es., l’appena citata Cass. sez. L, ord. 5 marzo 2019 n. 6344).

4.4 Nel caso in esame la sentenza rescindente – Cass. sez. 3, 2 febbraio 2010 n. 2354 – dopo avere disatteso il primo motivo del ricorso, esamina congiuntamente il secondo e il quarto motivo “perchè connessi”.

Il secondo motivo veniva rubricato come denunciante violazione di legge nonchè insufficienza e contraddittorietà della motivazione quanto al contenuto dell’obbligo di informazione gravante sul sanitario, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. La sentenza descrive il contenuto del secondo motivo, imperniato, in effetti, sul quadro normativo regolante il diritto all’informazione e il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, desumendone che la difficoltà di accertare un’anomalia fetale non avrebbe esonerato il sanitario dall’obbligo di informazione, non costituendo a sua volta un impedimento all’esercizio del diritto d’aborto. Nella parte finale si dava atto che la consulenza tecnica d’ufficio aveva affermato che “l’amniocentesi avrebbe consentito di accertare la trasmissione del virus al feto, mentre la funicolocentesi poteva essere effettuata già dopo le prime due determinazioni virologiche positive del gennaio 1996 per accertare il contagio del feto”, adducendo infine che al riguardo il giudice di merito aveva omesso di motivare.

Anche il quarto motivo veniva rubricato come denunciante, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione della L. n. 194 del 1978, art. 6 e vizio di insufficiente motivazione. In esso si ribadiva che il medico non aveva informato della possibilità di amniocentesi e funicolocentesi e si affermava che la ricorrente aveva dimostrato, tramite testimonianze, che avrebbe abortito se fosse stata informata delle malformazioni nel feto; si argomentava pure sulla interpretazione corretta dell’art. 6 invocato in rubrica.

4.5 Questa Suprema Corte ha ritenuto fondati i due suddetti motivi nel senso che la “condotta del M. ha violato il diritto della N. ad essere informata che esistevano indagini prenatali più approfondite, pur se rischiose per la sopravvivenza del feto, che le consentivano di accertare sia se questi aveva contratto il virus di CMV, sia se era affetto da rilevanti anomalie o malformazioni” (passo, come si è visto, invocato nel motivo in esame). Rilevato allora che, “per ottenere il risarcimento dei danni cagionati dalla violazione del diritto della N. ad interrompere la gravidanza, costei doveva dimostrare che, accertate rilevanti anomalie o malformazioni del feto, in lei sarebbe insorto uno stato patologico tale da mettere in grave pericolo la sua salute fisica o psichica” presupposto dell’esercizio del diritto d’aborto L. n. 194 del 1978, ex art. 6, la sentenza si sofferma sul contenuto dell’obbligo di informazione del sanitario in riferimento alle norme che lo configurano, e infine così conclude: “Quindi, nella fattispecie, il M…. aveva l’obbligo di adempiere, con la diligenza, la perizia e la prudenza qualificate dalla professione svolta, al contratto intercorso con la N. e di rispettare, non sottraendole la libertà di decidere, i suoi diritti inviolabili all’autodeterminazione nel sottoporsi o meno ad indagini ed accertamenti citogenetici, ancorchè invasivi e rischiosi per il feto – amniocentesi, villocentesi, funicolocentesi (eseguibili dalla diciottesima settimana) onde affrontare una maternità cosciente e responsabile, e tutelare la sua salute fisica e psichica… se il feto avesse contratto l’infezione da CMV e se di conseguenza fosse affetto da rilevanti anomalie o malformazioni che le avessero cagionato un processo patologico gravemente pericoloso per la sua salute”.

Non essendo stato richiesto il risarcimento di danni dei genitori “per esser stati privati della possibilità di un graduale adattamento” alla rivelazione che la figlia nasceva con malformazioni, ed essendo invece stato richiesto “il risarcimento dei danni cagionati dalla violazione del diritto della N. ad interrompere la gravidanza”, si giungeva a questo punto ad affermare la necessità che il giudice di rinvio, per stabilire se i danni richiesti derivassero dall’inadempimento all’obbligo della completa informazione da parte del M., accertasse, con prognosi ex ante e seguendo la regola del “più probabile che non”, se la conoscibilità da parte della N. “delle rilevanti anomalie e malformazioni del feto secondo la diagnostica a disposizione all’epoca, in relazione alla possibilità di riscontrarla”, avrebbe determinato un grave pericolo di lesione del suo diritto alla salute; accertamento che avrebbe coinvolto anche la posizione del F..

4.6 E’ allora chiaro che la sentenza rescindente non ha soltanto affermato in astratto la sussistenza dell’obbligo di informazione del sanitario, ma altresì ha dato per accertati specifici presupposti fattuali nel senso che il M. aveva inadempiuto al suo obbligo di informazione impedendo così alla gestante di fruire della conoscibilità, già all’epoca sussistente, della situazione del feto, vale a dire che le aveva sottratto “la libertà di decidere, i suoi diritti inviolabili all’autodeterminazione nel sottoporsi o meno ad indagini ed accertamenti citogenetici, ancorchè invasivi e rischiosi per il feto – amniocentesi, villocentesi, funicolocentesi (eseguibili dalla diciottesima settimana) – onde affrontare una maternità cosciente e responsabile”. Quel che restava, dunque, ancora necessitante di accertamento fattuale non era il contenuto nel caso concreto dell’inadempimento dell’obbligo informativo – accertato nel senso che il M. non aveva informato la gestante del rischio e della concreta possibilità di accertare, seppure con strumenti invasivi, la situazione effettiva del feto -, bensì la sussistenza o meno di una lesione del diritto alla salute della gestante se questa avesse fruito della conoscibilità negatale dal silenzio del medico, vale a dire se fossero configurabili danni per mancato esercizio del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza.

Il che significa che è stata ritenuta certa la conoscibilità della situazione del feto mediante gli strumenti diagnostici “amniocentesi, villocentesi, funicolocentesi”, i quali d’altronde è stato espressamente rilevato che erano “eseguibili dalla diciottesima settimana”. Tutto ciò come dato fattuale assorbito e incluso nell’accoglimento della censura relativa alla violazione dell’obbligo di informazione del medico, accoglimento che, dalla valutazione astratta de jure, si è espanso ad investire anche la conformazione concreta del caso, reputata evidentemente come già del tutto accertata. La corte territoriale, quale giudice di rinvio, doveva quindi accertare se, dall’inadempimento del M. di suddetto contenuto, erano derivati danni nel senso di mancato esercizio del diritto d’aborto.

4.7 La Corte d’appello di Brescia invece ha, per così dire, riportato indietro il thema decidendum. Essa infatti si è spesa nell’accertare, tramite una ulteriore consulenza tecnica d’ufficio, se all’epoca in cui avvenne la vicenda sarebbe stata conoscibile o meno la situazione del feto. Ed è proprio questo regresso che ha condotto al rigetto delle domande di N. e F., perchè si è affermata l’inesistenza di tale conoscibilità, in particolare asserendo che la N. non avrebbe potuto fruire della funicolocentesi perchè l’esistenza di tale esame diagnostico non sarebbe stata “una corretta indicazione”, in quanto i centri che la praticavano all’epoca non l’avrebbero effettuata visto un “referto sierologico quale quello evidenziato dalla N.” (motivazione della sentenza impugnata pagine 20 ss.).

E allora, sotto due profili il giudice di rinvio smantella quel che è stato già “fermato” dalla sentenza rescindente: sull’esservi inadempimento da parte del M. – perchè la esecuzione di funicolocentesi non sarebbe stata una corretta indicazione, ovvero una corretta informazione: ergo, tacerne già di per sè non sarebbe stato inadempimento informativo -; sull’avere avuto l’inadempimento del M. come oggetto la mancata informazione di una sussistente conoscibilità delle condizioni del feto, seppur con strumenti invasivi – perchè gli esami diagnostici non sarebbero stati fruibili, e dunque non vi sarebbe stata conoscibilità

5. La corte, dunque, non ha tenuto in conto quel che già era stato cristallizzato nella sentenza rescindente ed è pertanto equiparabile a giudicato, per cui la censura risulta fondata.

L’accoglimento del primo submotivo inserito nella prima doglianza investe tutto il contenuto della sentenza di rinvio – che infatti si è completamente incentrata nella regressione tematica che essa ha denunciata – e conduce, con conseguente assorbimento tutte le altre censure, alla cassazione della sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese del grado, alla Corte d’appello di Trento.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo per quanto di ragione, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Trento.

Così deciso in Roma, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2019

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