Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.29547 del 14/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22785-2017 proposto da:

GRUPPO A. COSTRUZIONI SRL, domiciliata in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, e rappresentata e difesa dall’avvocato ALBERTO MARTELLI giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLA GRANDE MURAGLIA 289, presso lo studio dell’avvocato ANGELO PALETTA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSANDRO PALETTA giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3851/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 08/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/06/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

Lette le memorie depositate dalla ricorrente.

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE C.C. e V.M. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Rieti la Gruppo A. Costruzioni S.r.l. per accertare l’intervenuta risoluzione del contratto preliminare di compravendita del ***** atteso l’inadempimento della convenuta, con il conseguente diritto degli attori a ricevere il doppio della caparra versata, per un importo di Euro 580.000,00.

Deducevano che il contratto aveva ad oggetto la vendita di una porzione di circa mq. 1160 di un edificio da costruire, che gli attori intendevano adibire a punto vendita al dettaglio di prodotti per l’infanzia, secondo l’allestimento che era stato demandato ad una serie di professionisti e di ditte specializzate.

La società avrebbe dovuto poi consegnare l’immobile, il cui definitivo sarebbe stato stipulato entro la data dell’8 dicembre 2003, in data 9 giugno 2004, prevedendosi che la mancata consegna entro tale termine non prorogabile avrebbe comportato la risoluzione del contratto per violazione del termine essenziale, con il diritto dei promissari acquirenti a ricevere il doppio della caparra versata.

Poichè il bene non era stato consegnato alla data prevista in contratto, agli attori competeva la somma indicata nel preliminare.

La società si costituiva contestando la fondatezza della domanda e deduceva che la mancata consegna era dipesa dalla condotta degli attori che non avevano mai comunicato il materiale con il quale si sarebbero dovute realizzare le tramezzature del piano rialzato, senza nemmeno conseguire il progetto di allestimento dei locali di vendita da parte del professionista di loro fiducia.

Concludeva quindi affinchè fosse ritenuto legittimo il recesso della convenuta, con il diritto a ritenere la caparra.

Il Tribunale rigettava la domanda attorea, accogliendo la riconvenzionale della società.

La Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 3851 del 9 giugno 2017, in riforma della decisione di prime cure, ha invece dichiarato la risoluzione del contratto per inadempimento della promittente venditrice, condannandola al pagamento della somma pari al doppio della caparra.

Dopo avere ricostruito l’atteggiarsi dell’onere della prova in caso di azione di risoluzione e di proposizione dell’eccezione di inadempimento, come stabilito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 13533/2001, rilevava che il contratto preliminare prevedeva che la società avrebbe dovuto consegnare entro il termine essenziale concordato l’immobile rifinito dei lavori di cui al capitolato allegato, opera la cui realizzazione era posta a cura e spese della promittente venditrice, essendo il loro valore ricompreso nel prezzo di vendita.

Quindi, dopo avere elencato le varie opere che l’appellata si era impegnata a realizzare, ricordava che in definitiva solo il materiale delle tramezzature avrebbe dovuto essere stabilito concordemente con i promissari acquirenti, essendo l’esecuzione delle altre opere rimessa all’autonomia decisionale della convenuta.

Tuttavia, alla scadenza del termine concordato, risultava essere stata eseguita solo la struttura in cemento armato, e cioè il bene era nelle medesime condizioni in cui si trovava al momento della stipula del preliminare.

Sebbene i promissari acquirenti avessero assunto l’impegno di comunicare il materiale per le tramezzature, le quali erano essenziali per il completamento del piano rialzato, emergeva che nella valutazione complessiva delle opere interne ed esterne, la mancata comunicazione assumeva una rilevanza parziale, in quanto non risultava impedita l’esecuzione dei lavori in altre zone dell’edificio così come al suo esterno.

La valutazione comparativa dei contrapposti inadempimenti fa assumere carattere prevalente a quello della venditrice, dovendosi altresì ritenere che il suo rifiuto di adempiere connoti la relativa eccezione ex art. 1460 c.c., come carente del requisito della buona fede, alla luce dell’inadempimento contestato alla controparte, dovendosi quindi addivenire alla risoluzione del contatto per inadempimento della società.

Avverso tale sentenza propone ricorso la Gruppo A. Costruzioni S.r.l. sulla base di due motivi, cui resistono gli intimati con controricorso.

Il primo motivo di ricorso denuncia la falsa applicazione dell’art. 1460 c.c..

Si deduce che pur essendo corretta la ricostruzione giuridica del contratto intervenuto tra le parti, e pur essendosi correttamente dato atto del carattere essenziale che rivestiva la comunicazione del materiale da utilizzare per le tramezzature in vista del completamento dei lavori del piano rialzato, tuttavia i giudici di appello non hanno considerato che esistevano termini diversi per l’adempimento delle rispettive obbligazioni, e che pertanto doveva essere adempiuta per prima l’obbligazione incombente sui compratori.

La valutazione del rifiuto di eseguire la propria prestazione secondo il canone della buona fede si impone nel caso in cui le prestazioni debbano essere adempiute contestualmente, essendosi altresì trascurato che nella specie la mancata collaborazione degli attori non aveva semplicemente portato ad un rifiuto di adempiere, ma ad una vera e propria impossibilità di adempiere.

Tale erronea valutazione ha quindi inciso anche sul riscontro della buona fede in capo alla società eccepiente, essendo altresì conseguenza di un’erronea ricostruzione dei fatti quanto all’individuazione delle opere suscettibili di essere realizzate in autonomia da parte della venditrice.

Il secondo motivo denuncia anche la violazione dell’art. 1460 c.c., comma 2, nella parte in cui la sentenza gravata ha ritenuto che il rifiuto di adempiere della società fosse contrario a buona fede, reputando che fosse necessario invece il previo invio di una diffida nei confronti della controparte.

I motivi che possono essere congiuntamente esaminati, per la loro connessione, sono inammissibili.

Appare evidente, infatti, che dietro l’apparente denuncia di violazione e falsa applicazione di legge, nella sostanza si sollecita una diversa ricostruzione dei fatti di causa in difformità di quanto operato, con giudizio non sindacabile in questa sede, da parte del giudice di merito, pervenendosi quindi ad una diversa soluzione, non già in ragione della corretta applicazione della norma in relazione ai fatti accertati, ma piuttosto auspicandosi un diverso approdo, ma sulla scorta di un diverso andamento delle vicende in fatto.

Tale intento traspare evidentemente dal tenore del ricorso, sia nella parte iniziale del primo motivo, laddove la parte, forse conscia del suo reale intento, rimarca che in realtà si vorrebbe denunciare un vizio di sussunzione, sia a pag. 24, laddove si dichiara esplicitamente che vi sarebbe stato un errore nella ricostruzione dei fatti da parte del giudice di appello.

Il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass., Sez. L., sentenza n. 26307 del 15 dicembre 2014, Rv. 633859). Al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass., Sez. 5, sentenza n. 8315 del 4 aprile 2013, Rv. 626129).

Va pertanto ribadito il principio secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 6035/2018) in tema di ricorso per cassazione, la deduzione del vizio di violazione di legge consistente nell’erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (cd. vizio di sussunzione) postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito.

Nella fattispecie, i giudici di appello dopo avere richiamato i principi in tema di riparto dell’onere della prova in caso di azione di risoluzione e di eccezione di inadempimento, come fissati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 13533/2001, hanno ritenuto che in realtà le obbligazioni gravanti sulle parti, e necessarie ad assicurare il completamento della realizzazione del bene promesso in vendita, gravassero, ed in maniera simultanea, su entrambe le parti.

In particolare hanno ritenuto che anche a voler riconoscere che il completamento del piano rialzato potesse dipendere dall’indicazione del materiale per la tramezzatura, che doveva provenire dai promissari acquirenti, tuttavia la società aveva assunto l’obbligo di eseguire anche altre e consistenti opere, che prescindevano dalla collaborazione delle controparti, sicchè, essendo emerso che in realtà le condizioni del bene erano rimaste identiche a quelle in cui versava al momento della stipula, hanno ravvisato, nell’ottica della valutazione comparativa delle reciproche condotte inadempienti, che rivestisse carattere decisamente più grave l’inadempimento della società, e che quindi, pur riscontrato il mancato inoltro delle indicazioni necessarie da parte dei compratori, risultava contraria a buona fede l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c..

Ne deriva che la violazione di legge nella ricostruzione di parte ricorrente è derivante dalla necessaria, ma non consentita, modificazione della ricostruzione dei fatti, in quanto presuppone l’adesione alla diversa tesi secondo cui le obbligazioni rispettivamente rimaste inadempiute non sarebbero simultanee, ma differite nel tempo, presentandosi come prioritaria in ordine cronologico quella dei controricorrenti, laddove invece emerge chiaramente come la conclusione della sentenza gravata si fondi sul fatto che la realizzazione delle opere diverse da quelle strettamente inerenti al piano rialzato (opere esterne, ed altre opere interne) poteva avere seguito indipendentemente dalla condotta degli attori.

Ne consegue che il principio di diritto affermato dai giudici di appello secondo cui (cfr. Cass. n. 22626/2016) il giudice ove venga proposta dalla parte l’eccezione “inadimplenti non est adimplendum” deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui, qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 c.c., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460 c.c., comma 2, (conf. Cass. n. 8880/2000; Cass. n. 11430/2006), risulta correttamente applicato sulla scorta della ricostruzione in fatto operata in sentenza, dovendosi quindi pervenire al rigetto delle censure mosse.

Analoga sorte coglie anche il secondo motivo non avvedendosi la ricorrente che in realtà la sentenza d’appello, lungi dall’avere subordinato la possibilità di eccepire l’inadempimento ex art. 1460 c.c., al previo invio di una diffida, ha piuttosto evidenziato come proprio in base al principio di buona fede, essendo la realizzazione del piano rialzato, alla quale era tenuta la società, legata alla previa indicazione del materiale delle tramezzature da parte dei compratori, la prima piuttosto che restare del tutto inerte, come accaduto, avrebbe dovuto quanto meno sollecitare la cooperazione delle controparti, e ciò proprio alla luce delle obbligazioni accessorie ed integrative del contenuto del contratto scaturenti dall’applicazione del principio della buona fede in executivis.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il esto unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 10.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2019

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