Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.29595 del 14/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21344/2018 proposto da:

S.K., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Antonio Fascia, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, domiciliato per legge in Roma Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale Dello Stato che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BRESCIA, depositato il 22/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/10/2019 dal Cons. Dott. LUCIA TRIA.

RILEVATO

CHE:

1. il Tribunale di Brescia, con decreto pubblicato il 22 giugno 2018, respinge il ricorso proposto da S.K., cittadino della *****, avverso il provvedimento con il quale la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha, a sua volta, rigettato la domanda di protezione internazionale proposta dall’interessato escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria);

2. Il Tribunale, per quel che qui interessa, precisa che:

a) il racconto del richiedente con riguardo ai motivi che l’hanno indotto a lasciare il proprio Paese si riferisce ad una vicenda familiare ed è generico, quindi intrinsecamente inattendibile;

b) le incongruenze e la vaghezza della vicenda narrata portano senz’altro ad escludere la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b) non essendo emerso che, in caso di rimpatrio, il ricorrente corra il rischio di subire un “danno grave”, del tipo ivi indicato;

c) con riferimento all’ipotesi di cui al medesimo art. 14, lett. c, va rilevato che il ricorrente si è limitato a ribadire di non voler tornare in ***** per paura dello zio, senza allegare il timore per la propria incolumità personale a causa di una situazione di violenza indiscriminata o di conflitto armato che possa coinvolgerlo;

d) il richiedente ha richiamato la situazione di incertezza socio-politica del Paese di origine, ma le notizie raccolte da fonti affidabili aggiornate evidenziano che nella ***** si riscontra, in generale, una situazione tranquilla e comunque certamente non corrispondente a quella prevista dalla lettera c) dell’art. 14 cit.;

h) infine, non sono state neppure allegate o documentate dal ricorrente particolari condizioni di vulnerabilità per motivi personali o di salute che consentano di accordare la protezione umanitaria, non potendo, a tale riguardo, considerarsi sufficiente il tentativo di inserimento nel contesto sociale del Paese ospitante, effettuato nel periodo compreso tra la richiesta di protezione internazionale e il suo rigetto, come si desume da Cass. n. 4455 del 2018;

3. il ricorso di S.K. domanda la cassazione del suddetto decreto per un unico motivo; il Ministero dell’Interno, resiste con controricorso.

CONSIDERATO

CHE:

Profili preliminari.

1. Va, in primo luogo, precisato che la “sollecitazione” contenuta nel ricorso a sollevare una questione di legittimità costituzionale del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 6, comma 13, convertito dalla L. n. 46 del 2017 – da intendere riferita al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, (inserito dall’art. 6, comma 1, lett. g indicato D.L.), che sancisce la non reclamabilità del decreto contestata dal ricorrente – non può essere accolta, dandosi seguito ad un orientamento già espresso da questa Corte e condiviso dal Collegio, in base al quale è stata considerata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, artt. 24 e 111 Cost. (parametri invocati anche nella specie), “nella parte in cui stabilisce che il procedimento per l’ottenimento della protezione internazionale è definito con decreto non reclamabile in quanto è necessario soddisfare esigenze di celerità, non esiste copertura costituzionale del principio del doppio grado ed il procedimento giurisdizionale è preceduto da una fase amministrativa che si svolge davanti alle Commissioni territoriali deputate ad acquisire, attraverso il colloquio con l’istante, l’elemento istruttorio centrale ai fini della valutazione della domanda di protezione” (vedi, per tutte: Cass. 30 ottobre 2018, n. 27700; Cass. 30 maggio 2019, n. 14821; Cass. 13 agosto 2019, n. 21375);

Sintesi dei motivi.

2. con l’unico motivo di ricorso si denunciano: a) omessa, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia; b) violazione di plurime disposizioni del D.Lgs. n. 251 del 2007 e del D.Lgs.n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19 rilevandosi che il ricorrente era stato vittima di minacce anche di morte da parte di uno zio che, quando aveva quattordici anni, voleva costringerlo a sposare una cugina di appena dieci anni e che la costrizione ad un matrimonio non voluto integra di per sè un danno grave, meritevole di protezione (Cass. 18 novembre 2013, n. 25873);

2.1. si aggiunge che in Guinea i diritti umani non sono adeguatamente tutelati e anche la situazione politica del Paese dopo la fine della dittatura è tuttora in via di progresso verso la democrazia, obiettivo che non ha ancora raggiunto;

2.2. si precisa che sussistono quanto meno gli estremi per la protezione umanitaria in quanto il ricorrente, vittima di una grave ingiustizia, rischia di essere perseguitato al suo rientro in patria, per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale;

2.3. infine si osserva che, oltre alla violazione della normativa in materia di protezione sussidiaria e di protezione umanitaria, la motivazione del decreto impugnato sarebbe carente circa più punti decisivi della controversia;

Esame delle censure.

3. l’esame delle censure porta all’inammissibilità del ricorso, per le ragioni di seguito esposte;

4. il profilo di censura riferito ai vizi di motivazione va dichiarato inammissibile perchè il vizio della motivazione non costituisce più ragione cassatoria a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – nel testo successivo alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis – in base al quale la ricostruzione del fatto operata dai Giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. SU 20 ottobre 2015, n. 21216; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928; Cass. 5 luglio 2016, n. 13641; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20207). Evenienze che qui non si verificano;

5. anche gli altri profili di censura vanno dichiarati inammissibili, in primo luogo perchè essi finiscono con l’esprimere un mero – e, di per sè, inammissibile – dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze processuali effettuate dal Tribunale a proposito della condizione personale del ricorrente, basate sulla scarsa credibilità del racconto effettuato perchè generico e contraddittorio, inoltre con tali censure si pone l’accento sul tentativo di costrizione ad un matrimonio non voluto subito dal ricorrente, ma non si tiene conto del fatto che, in base alla giurisprudenza di questa Corte, la descritta situazione può costituire grave violazione della dignità e, dunque, trattamento degradante che integra un danno grave, la cui minaccia, ai fini del riconoscimento di tale misura, può provenire anche da soggetti diversi dallo Stato solo nell’ipotesi in cui risulti che le autorità pubbliche o le organizzazioni che controllano lo Stato o una sua parte consistente non possano o non vogliano fornire protezione adeguata (Cass. 18 novembre 2013, n. 25873 e Cass. 12 dicembre 2016, n. 25463), mentre nella specie dal decreto impugnato non si desume che, nel corso del procedimento, sia emersa la sussistenza dei suindicati elementi (per effetto di “ogni ragionevole sforzo compiuto” al riguardo dall’interessato, elemento che rappresenta la ineludibile premessa per la collaborazione istruttoria del giudice) nè nel ricorso si effettuano contestazioni in merito all’anzidetta mancata menzione;

5.1. nella descritta situazione – anche a prescindere dai seri e motivati dubbi sulla veridicità del racconto dell’interessato – quel che più conta è che si tratta di una narrazione riferita ad una persecuzione di tipo esclusivamente familiare;

5.2. come risulta anche dal documento dell’UNHCR cui fa riferimento il ricorrente, le vicende di natura privata e familiare sono in linea generale estranee al sistema della protezione internazionale;

5.3. in particolare, secondo la consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Corte le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello “status” di rifugiato, (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria, (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave soltanto ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi, comunque con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b) (tra le altre: Cass. 15 febbraio 2018, n. 3758);

5.4. nel ricorso, come si è detto, non vengono forniti elementi utili su tale questione che ha carattere decisivo in quanto ci si limita a fare riferimento al tentativo di matrimonio forzato, in modo del tutto generico e disancorato dalla motivazione del decreto impugnato, restando in particolare privo di spiegazione l’assunto secondo cui il ricorrente rischierebbe di essere perseguitato “per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale”;

5.5. il carattere familiare della persecuzione riferita, senza la dimostrazione che gli atti persecutori o il danno grave paventati non siano imputabili esclusivamente a soggetti non statuali (nella specie: familiari) ma siano da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b) è idoneo di per sè a giustificare la contestata decisione di rigetto di ogni forma di protezione internazionale, per le anzidette ragioni e comporta, quindi, l’inammissibilità del profilo di censura relativo alla ipotizzata violazione della normativa in materia di protezione sussidiaria.

6. inammissibile è anche il profilo di censura con il quale è stata dedotta la violazione della normativa in materia di protezione umanitaria perchè con esso si sostiene che – diversamente da quanto affermato dal Tribunale – il ricorrente avrebbe pieno diritto ad ottenere almeno la protezione umanitaria, in considerazione dell’insicurezza del Paese o della zona di origine del richiedente nonchè del suo percorso di integrazione in Italia, facendosi quindi riferimento ad elementi che sono inidonei, di per sè, a legittimare la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, che dipende dalla dimostrazione di specifici di vulnerabilità del richiedente, nella specie mancante, come ha rilevato motivatamente il Tribunale;

Conclusioni.

12. in sintesi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

13. le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza;

14. si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento dell’importo previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 2100,00 (duemilacento/00) per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 16 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2019

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