LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DIDONE Antonio – Presidente –
Dott. FERRO Massimo – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 33089-2018 r.g. proposto da:
O.R., (cod. fisc. *****), rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Fabio Valerini, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Roma, Via Fonteiana n. 142;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del legale rappresentante pro tempore, il Ministro;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte di appello di Roma, depositata in data 26.4.2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/10/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.
RILEVATO
CHE:
1.Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Roma – decidendo sull’appello proposto da O.R., cittadino nigeriano, nei confronti del Ministero dell’Interno avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Roma (con la quale erano state respinte le domande di protezione internazionale ed umanitaria avanzate dal richiedente) – ha rigettato l’appello, confermando, pertanto, il provvedimento impugnato.
La corte di merito ha ricordato che il gravame si fondava sulla denuncia del mancato espletamento, da parte del primo giudice, di un’efficace istruttoria, non essendo stata considerata la condizione di particolare vulnerabilità sociale del richiedente e non essendo stati adeguatamente valutati i documenti prodotti e, segnatamente, i rapporti di Amnesty International.
La corte territoriale ha dunque evidenziato che il Tribunale aveva correttamente valutato le dichiarazioni rese dal richiedente dinanzi alla commissione territoriale, avendo proceduto anche alla nuova personale audizione dell’odierno ricorrente; che quest’ultimo aveva peraltro ribadito la vicenda così come narrata nella fase amministrativa della richiesta di asilo, raccontando di essere fuggito dalla Nigeria soltanto in ragione della riferita circostanza dell’esistenza di conflitti etnici che avrebbero reso pericolosa la permanenza nella zona dell'***** e di essere a conoscenza della uccisione, ad *****, di cristiani da parte di mussulmani (appartenenti agli “hausa”). Il giudice di appello ha, inoltre, ricordato che il ricorrente aveva narrato di essere giunto in Libia, con la madre, e che quest’ultima era stata uccisa in seguito ai disordini succedutesi nel paese nordafricano.
La corte di merito ha, dunque, ritenuto le dichiarazioni del ricorrente generiche e non credibili, e comunque non circostanziate e indimostrate, non idonee, pertanto, a provare la sola allegata situazione personale di potenziale persecuzione, essendosi il ricorrente limitato a riferire l’esistenza, in Nigeria, di una situazione di insicurezza, senza dettagli specifici o prove. Il giudice del gravame ha osservato che si era registrato, nell’ultimo periodo, un costante impegno di contrasto governativo nei confronti del gruppo ribelle *****, operante, comunque, nel nord del Paese, non potendosi riscontrare l’esistenza di un vero e proprio conflitto armato interno al paese, per lo meno nella regione dell'*****, anche secondo quanto ricavabile dagli aggiornamenti forniti da UNHCR. La corte di appello ha inoltre evidenziato, in ordine alla riferita appartenenza religiosa del richiedente alla fede cristiano cattolica, che quest’ultimo nulla aveva riferito e dimostrato anche in riferimento all’eventuale esposizione a rischio per ragioni collegate alla professione della predetta fede religiosa, non potendosi ritenere ravvisabili, dunque, i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria. La corte distrettuale ha, inoltre, ritenuto non provate nè dedotte eventuali diverse situazioni di fragilità personale del richiedente, il quale ha semplicemente asserito l’esistenza di un pericolo e, comunque, di non volere tornare nel suo paese per il fatto di non aver più nessun legame familiare, escludendo in tal modo anche la fondatezza della domanda di protezione umanitaria.
2. La sentenza, pubblicata il 26.4.2018, è stata impugnata da O.R. con ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
L’amministrazione intimata non ha svolto difese.
CONSIDERATO
CHE:
1.Con il primo motivo la parte ricorrente – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c, e, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 4, par. 1 direttiva 2004/1983, in relazione all’art. 2697 c.c., nonchè nullità della sentenza per violazione del potere-dovere officioso del giudice, ex art. 8 D.Lgs. n. 25 del 2008 e direttiva 2004/83/CE nonchè ex art. 101 c.p.c., comma 2, – si duole del mancato riconoscimento dell’invocata protezione sussidiaria. Si evidenzia la mancanza di attualità delle fonti informative sulle quali la corte di appello aveva maturato la decisione di diniego della detta protezione e che il dovere di cooperazione istruttoria avrebbe dovuto portare, invece, ad un approfondimento probatorio e dunque anche delle argomentazioni sottese alla motivazione impugnata.
2. Con il secondo mezzo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, vizio di violazione e falsa applicazione degli art. 132 c.p.c. e art. 111 Cost. per carenza assoluta di motivazione, in relazione al diniego della richiesta protezione umanitaria. Si osserva che, nel caso di specie, sarebbe stata necessaria, da parte della corte di merito, un’indagine rigorosa, oltre che ai profili di vulnerabilità psicologica derivata dal proprio vissuto in Nigeria, anche a quelli legati alla tragica esperienza in Libia.
3. Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, e dell’art. 32, comma 3, medesimo decreto, nonchè omesso esame di fatti decisivi e, comunque, violazione e falsa applicazione dell’art. 4, par. 1 della direttiva 2004/1983, in relazione all’art. 2697 c.c., sempre in punto di mancato riconoscimento della invocata protezione umanitaria.
Si evidenzia come fatto notorio l’esistenza di trattamenti violenti, inumani e degradanti cui sono sottoposti costantemente gli stranieri in transito dalla Libia, con la conseguenza che il ricorrente, arrivato in Italia, doveva ritenersi in condizione di particolare vulnerabilità psicologica, dopo tale esperienza.
4. Con il quarto ed ultimo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, nullità della sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 1, lett. b, e per l’omessa attivazione del dovere di cooperazione istruttoria. Osserva il ricorrente come la Corte di appello – invece di approfondire la dedotta questione di ***** – aveva invece verificato solo se lo Stato nigeriano fosse o meno tollerante con i cristiani, dovendosi al contrario ritenere che tale circostanza non era stata neanche fatta oggetto delle deduzioni difensive del ricorrente, con conseguente violazione, dunque, della normativa applicabile in materia di rifugio (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 1, lett. b).
5. Il ricorso è inammissibile.
5.1 Già il primo motivo non supera il vaglio di ammissibilità.
Le doglianze si appuntano sul diniego della richiesta di protezione sussidiaria.
Invero, la parte ricorrente pretende, ora, innanzi alla Corte di legittimità, di rileggere gli atti istruttori per richiedere a questa Corte una rivalutazione del contenuto delle fonti di conoscenza internazionale (peraltro, puntualmente e dettagliatamente indicate nella motivazione impugnata per sostenere la mancanza di pericolosità dell'*****), operazione quest’ultima che è inibita – come è a tutti noto – al giudice di legittimità.
5.2 Il secondo e terzo motivo, che si appuntano invece sul diniego della invocata protezione umanitaria, possono essere trattati congiuntamente e devono ritenersi entrambi formulati in modo inammissibile.
Da un lato, non si può non riscontrare, anche in tal caso, un’irricevibile richiesta del ricorrente di rilettura degli atti istruttori (ed in particolare del contenuto delle dichiarazioni del richiedente rese in sede di audizione innanzi al primo giudice) per fondare una diversa valutazione sul profilo di vulnerabilità del richiedente stesso.
Dall’altro, anche la denuncia di omesso esame di fatti decisivi e comunque di carenza assoluta di motivazione deve ritenersi formulata in modo inammissibile perchè si appunta su un profilo non decisivo della decisione, e cioè il transito in Libia del richiedente protezione.
Sul punto, giova ricordare come la giurisprudenza di questa Corte abbia già chiarito che, nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 31676 del 06/12/2018; Sez. 6, Ordinanza n. 29875 del 20/11/2018; Sez. 6, Ordinanza n. 2861 del 06/02/2018).
Situazione quest’ultima neanche prospettata da parte del ricorrente.
Va peraltro aggiunto come si rivelino del tutto generiche le considerazioni svolte dal ricorrente in ordine al profilo di vulnerabilità psicologica discendente dal transito in Libia, sicchè, anche sotto quest’ultimo profilo, le censure devono ritenersi inammissibili.
5.4 Anche il quarto motivo deve ritenersi inammissibile perchè il ricorrente, di nuovo, richiede una rivalutazione delle fonti di prova per una diversa considerazione della domanda di rifugio di fonte internazionale.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
Nessuna statuizione è dovuta per le spese dell’odierno giudizio di legittimità, stante la mancata difesa dell’amministrazione intimata.
Per quanto dovuto a titolo di doppio contributo, si ritiene di aderire all’orientamento già espresso da questa Corte con la sentenza n. 96602019.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2019