Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza Interlocutoria n.30700 del 25/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso iscritto al n. 13147/2018 R.G. proposto da:

C.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Di Meo, con domicilio eletto in Roma, via A. Emo, n. 144;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO – COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI CASERTA, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 4542/17 depositata il 6 novembre 2017.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 ottobre 2019 dal Consigliere Dott. Mercolino Guido.

RILEVATO

che C.A., cittadino del Gambia, ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, avverso la sentenza del 6 novembre 2017, con cui la Corte d’appello di Napoli ha rigettato il gravame da lui interposto avverso l’ordinanza emessa il 14 gennaio 2017 dal Tribunale di Napoli, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dal ricorrente;

che il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

CONSIDERATO

che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2, 3, 5,7,8 e 11 e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, nonchè l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ha affermato la necessità che il persecutore ed il perseguitato appartengano a gruppi identitari contrapposti, senza considerare che il suo rifiuto di contrarre matrimonio con la vedova del fratello lo aveva posto in posizione di alterità rispetto alle tradizioni socio-religiose del suo gruppo etnico, esponendolo alla persecuzione del gruppo familiare della vedova;

che la sentenza impugnata ha inoltre omesso di verificare la riconducibi-lità della persecuzione alle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, e segnatamente a quelle di cui alle lett. a) e d), nonchè di compiere qualsiasi approfondimento istruttorio in ordine all’impossibilità di accedere ad efficaci forme di tutela statuale, rigettando l’istanza di audizione personale da lui avanzata e limitandosi a fare riferimento al nuovo contesto sociale e politico del Paese di origine;

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 4 e 14 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, nonchè l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che la sentenza impugnata ha omesso di verificare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, e segnatamente quelli di cui al citato D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e c), non avendo svolto alcuna indagine in ordine al rischio del suo assoggettamento ad una punizione per il rifiuto di onorare la tradizione del levirato ed alla situazione determinatasi nel Paese di origine dopo la sua partenza;

che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, e art. 19 e degli artt. 2 e 10 Cost., nonchè l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, senza svolgere alcuna indagine in ordine alla condizione di vulnerabilità in cui esso ricorrente verrebbe a trovarsi in caso di rimpatrio, per effetto della situazione politica esistente nel suo Paese di origine e delle sue difficoltà economiche;

che la Corte territoriale ha altresì omesso di tener conto dello stabile radicamento di esso ricorrente in Italia, derivante dal reperimento di una stabile occupazione e dalla frequentazione di corsi di formazione, trascurando inoltre le difficoltà materiali, economiche e sociali in cui verrebbe a trovarsi in caso di rimpatrio;

che, in tema di protezione internazionale, questa Corte ha già avuto modo di affermare che la costrizione ad un matrimonio non voluto costituisce una grave violazione della dignità umana, e quindi un trattamento degradante idoneo a giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b),, in quanto la minaccia di un danno grave richiesta da tale disposizione può provenire anche da soggetti diversi dallo Stato, allorchè le autorità pubbliche o le organizzazioni che controllano lo Stato o una sua parte consistente non possano o non vogliano fornire una protezione adeguata (cfr. Cass., Sez. VI, 12/12/2016, n. 25463; Cass., Sez. I, 18/11/2013, n. 25873);

che, in riferimento alla pratica del levirato, sono stati tuttavia ritenuti sussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, essendosi affermato che le limitazioni al godimento dei propri diritti fondamentali attuate ai danni di una donna, a causa del suo rifiuto di attenersi alla consuetudine religiosa locale che, in caso di vedovanza, impone il matrimonio con il fratello del marito defunto, si configurano come atti di persecuzione basati sul genere, riconducibili alla nozione di violenza domestica di cui all’art. 3 della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011, anche nel caso in cui le autorità tribali del luogo abbiano consentito alla donna di sottrarsi al matrimonio forzato, ma a condizione che si allontanasse dal villaggio, abbandonando i propri figli ed i propri beni (cfr. Cass., Sez. I, 24/11/2017, n. 28152);

che nella specie la domanda di riconoscimento della protezione internazionale trova anch’essa fondamento nell’allegazione del pregiudizio derivante da un principio religioso o consuetudinario che obbliga ad un matrimonio non voluto, la cui imposizione a carico di un uomo, se non consente di ricondurre la fattispecie all’ambito applicativo della Convenzione di Istanbul, potrebbe non escludere tuttavia il riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. a), il quale richiede l’accertamento di atti di persecuzione sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa, ai sensi dell’art. 15 CEDU, par. 2;

che tra i predetti diritti è compreso infatti quello, previsto dall’art. 3 CEDU, a non essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti, tra i quali, come si è detto, questa Corte ha annoverato anche la pratica del matrimonio forzato, in quanto costituente grave violazione della dignità umana, nonchè contrastante con il diritto al matrimonio consacrato nell’art. 12 CEDU, che implica non solo la libertà di decidere se contrarre o meno il vincolo coniugale, ma anche quella di scegliere la persona del coniuge;

che, in quanto imposta da convinzioni religiose o norme consuetudinarie tuttora vigenti presso alcune popolazioni asiatiche o africane, e dipendente quindi dalla professione di un determinato credo religioso o dall’appartenenza ad un particolare gruppo etnico, la predetta pratica deve d’altronde considerarsi riconducibile a motivi di religione o di razza, nel senso precisato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, lett. a) e b), con la conseguenza che anche la punizione imposta per il rifiuto di assoggettarsi alla stessa sarebbe configurabile come atto di persecuzione per motivi di religione o di razza, idoneo a giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato, anche se posta in essere da soggetti diversi dallo Stato, ove le autorità pubbliche o le organizzazioni che controllano lo Stato o una sua parte consistente non possano o non vogliano fornire adeguata protezione;

che la novità della questione, coinvolgente tra l’altro l’esatta individuazione del confine tra l’ambito applicativo del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 1, lett. a), e quello dell’art. 14, lett. b), giustifica il rinvio della causa alla Prima Sezione civile, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 3, ai fini della trattazione in pubblica udienza.

P.Q.M.

rimette la causa alla pubblica udienza della Prima Sezione civile.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.

Depositato in cancelleria il 25 novembre 2019

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