LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13800/2015 proposto da:
F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PARIOLI 27, presso lo studio dell’avvocato PAOLO SAOLINI, rappresentato e difeso dall’avvocato GENNARO TORRESE;
– ricorrente –
contro
M.G. & C. S.N.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato MARINO BISCONTI, rappresentata e difesa dall’avvocato UMBERTO TOSANO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6382/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 27/10/2014, R.G.N. 10731/2010.
RILEVATO
che:
Il Tribunale di Napoli, in parziale accoglimento delle domande proposte da F.G. nei confronti della s.n.c. M.G. & c. volte a conseguire il pagamento di una serie di emolumenti spettanti in relazione al rapporto di agenzia intercorso fra le parti, condannava la società preponente al pagamento della somma di Euro 33.137,06 oltre accessori di legge, a titolo di differenze provvigionali, FIRR ed indennità di mancato preavviso.
La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza resa pubblica il 27/10/2014, respinto l’appello principale proposto dal F., in parziale accoglimento del gravame spiegato in via incidentale dalla società, detraeva dal quantum liquidato dal primo giudice, la somma di Euro 1.337,84 corrispondente all’importo di cui alla fattura n. ***** cui risultava apposta per quietanza la sottoscrizione dell’agente.
Avverso tale decisione ha interposto ricorso per cassazione F.G. sostenuto da nove motivi ai quali ha opposto difese la società intimata, con controricorso.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si lamenta che la Corte di merito abbia omesso di pronunciarsi in ordine alla domanda di applicazione dell’IVA quantificata in Euro 6.627,42 sulle provvigioni maturate e corrisposte con la sentenza di primo grado. Pur avendo rilevato il diritto dell’agente a percepire le somme rivendicate per il titolo descritto e risultanti dalle fatture regolarmente inviate con raccomandata trasmessa alla preponente in data 20-23/6/2005, non avrebbe poi emesso una pronuncia di condanna, benchè tutte le fatture in relazione alle quali si chiedeva il versamento dell’IVA, fossero allegate al ricorso introduttivo.
2. Il motivo è inammissibile.
E’ assorbente rispetto ad ogni ulteriore rilievo, il difetto di specificità del motivo, il quale non reca la riproduzione del tenore della documentazione posta a fondamento della critica, che si assume allegata al ricorso di primo grado.
Secondo l’insegnamento di questa Corte, al quale va data continuità, i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3,4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (vedi ex plurimis, Cass. 13/11/2018 n. 29093).
Nello specifico la ricorrente non ha ottemperato ai ricordati adempimenti, omettendo di riportare il contenuto della documentazione richiamata, così non sottraendosi allo stigma della inammissibilità della censura.
3. Il secondo motivo prospetta violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Ci si duole della erronea quantificazione degli importi spettanti a titolo di provvigione, con detrazione della somma di Euro 2.103,39, in riferimento ad alcune fatture, ritenute dalla Corte territoriale corrispondenti ad ordini evasi nell’interesse della preponente a titolo di comodato d’uso e non di vendita.
4. Questo motivo, del pari, non è ammissibile, giacchè non reca alcuna motivata critica alla statuizione censurata.
Va, infatti, rammentato che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione.
Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (vedi Cass. 29/11/2016 n. 24298, Cass. 25/09/2009 n. 20652). Tale obiettiva carenza è ravvisabile in detta seconda censura, con la quale il ricorrente si è limitato a riportare la statuizione impugnata, rimarcandone l’erroneità, senza tuttavia in alcun modo illustrare in modo le denunciate violazioni di norme o principi di diritto.
5. Con la terza doglianza, il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2697 c.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Critica la statuizione con la quale il giudice del gravame ha escluso l’indennità di incasso perchè ritenuta assorbita dal compenso provvigionale originariamente pattuito fra le parti, deducendo che la lettera di conferimento dell’incarico del 5/9/2002 non recava alcuna specifica pattuizione al riguardo e che dalla copiosa documentazione prodotta, si evinceva lo svolgimento continuativo di tale attività da parte dell’agente, per conto della società M..
6. Come per il primo motivo, è palese il difetto di specificità della tecnica redazionale, che non reca la riproduzione del tenore del contratto in base al quale il F. ritiene dimostrato il diritto rivendicato alla indennità di incasso e ridonda in termini di inammissibilità della censura.
7. La quarta critica attiene, del pari, alla violazione dell’art. 2697 c.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento alla esclusione della indennità di cessazione del rapporto, spettante ai sensi dell’art. 1751 c.c..
Ci si duole che il giudice del gravame abbia denegato riconoscimento all’indennità di cessazione del rapporto, reputando necessaria la sussistenza cumulativa e non alternativa delle condizioni indicate nella norma codicistica, senza considerare che la prova per testimoni aveva fatto emergere la decisività dell’opera del ricorrente “per l’affermazione della ditta M. nel territorio campano”.
8. Il motivo non è ammissibile.
Innanzitutto la censura mira ad una rivalutazione del quadro istruttorio delineato in prime cure non consentita nella presente sede.
In tema di ricorso per cassazione, la deduzione del vizio di violazione di legge consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (cd. vizio di sussunzione) postula, infatti, che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito (cfr. Cass. 13/3/2018 n. 6035).
In tale prospettiva, deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando – come nella specie – alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (vedi Cass. 4/4/2017 n. 8758).
Nello specifico, la Corte di merito ha proceduto ad un accurato scrutinio delle acquisizioni probatorie, pervenendo al convincimento che, pur volendo reputarsi sussistenti gli indici dello svolgimento di una cospicua attività produttiva da parte dell’agente, non era risultato dimostrato che la preponente avesse continuato a trarne vantaggio, in relazione ai clienti procurati nel territorio campano; e detta statuizione non appare censurabile per i motivi anzidetti.
Peraltro, non può sottacersi che neanche risulta specificamente impugnata la statuizione – di per sè idonea a sostenere autonomamente la decisione con la quale la Corte di merito ha rimarcato la carenza di allegazione, prima ancora che di prova, in ordine alla circostanza dell’incremento degli affari della casa mandante con effetti perduranti anche successivamente alla risoluzione del rapporto.
Ed invero, secondo i principi affermati da questa Corte, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli – così come verificatosi nella specie – specifiche doglianze avverso una di tali “rationes decidendi”, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr. Cass. S.U. 29/3/2013 n. 7931, Cass. 4/3/2016 n. 4293); sicchè, anche sotto tale profilo la censura non si sottrae ad un giudizio di inammissibilità.
9. Con il quinto motivo è denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento al mancato riconoscimento dell’indennità suppletiva di clientela a seguito della risoluzione del rapporto ad nutum su iniziativa della società preponente.
10. Il motivo deve essere disatteso.
La Corte distrettuale – dopo avere osservato che l’indennità suppletiva di clientela era stata individuata in primo grado quale conseguenza dell’interruzione del rapporto ad nutum su iniziativa della mandante per una generica causa non imputabile all’agente, ed aver precisato che le prove espletate non avevano confermato la ricorrenza di questo presupposto – ha infatti rigettato l’impugnazione deducendo che non era stata specificamente censurata la statuizione del giudice di prima istanza il quale, esaminando il tema congiuntamente a quello della indennità di cessazione del rapporto, aveva rilevato che la materia era disciplinata dalla sola disciplina legale.
Con detto quinto motivo, non viene, tuttavia, confutata, la statuizione che rimane pertanto intangibile – con la quale si è ritenuta non provata l’iniziativa della casa mandante nella risoluzione del contratto e l’ulteriore accertamento del passaggio in giudicato della pronuncia emessa sul punto dal giudice di primo grado; onde, anche di tale censura, va dichiarata l’inammissibilità.
11. Con il sesto motivo si denuncia violazione dell’art. 2697 c.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “con riguardo alla compensazione con un credito vantato dalla resistente, oggetto di esame in sede penale e comunque non “certo, liquido esigibile” e con il settimo, sempre veicolato mediante la medesima censura di error in judicando, ci si duole della parziale compensazione delle spese di lite.
12. I motivi, da trattarsi congiuntamente per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, sono inammissibili giacchè, dopo aver riportato specificamente le statuizioni con le quali il giudice di appello aveva respinto la censura attinente alla disposta parziale compensazione dei rispettivi crediti da parte del giudice di prima istanza (sesto motivo), ed alla parziale compensazione delle spese di lite, non si formula alcuna critica avverso la pronuncia che risulta, quindi, solo formalmente impugnata (vedi Cass. cit. n. 24298/2016).
13. L’ottava critica prospetta sempre violazione dell’art. 2697 c.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento alla detrazione della somma di Euro 1.337,84 disposta dal giudice del gravame, che si ritiene erronea, non avendo il ricorrente giammai richiesto il pagamento di detto importo in atto introduttivo, ma avendolo solo riportato come indicativo del volume d’affari raggiunto.
14. Anche tale doglianza incorre nello stigma della inammissibilità per difetto di specificità, già riscontrato in relazione al primo dei motivi di ricorso, non essendo riportato specificamente il tenore del ricorso, nè quello dei conteggi allegati, non risultando neanche rispettate le prescrizioni sancite a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, in tema di deposito degli atti processuali, documenti e contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda.
15. Con l’ultimo motivo, si censura ex art. 115 c.p.c., la sentenza della Corte partenopea “con riferimento alla prova della sussistenza del contratto fra le parti in causa” che si deduce evincibile dalla copiosa documentazione depositata in atti.
16. Il motivo è inammissibile.
Ed invero, secondo i principi affermati da questa Corte, che vanno qui ribaditi, in tema di impugnazioni, l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., postula la soccombenza nel suo aspetto sostanziale, correlata al pregiudizio che la parte subisca a causa della decisione da apprezzarsi in relazione all’utilità giuridica che può derivare al proponente il gravame dall’eventuale suo accoglimento (vedi Cass. 29/5/2018 n. 13395).
Nello specifico, la ricordata condizione dell’azione non è concretamente ravvisabile, avendo la Corte modulato l’intero iter motivazionale sul presupposto della intercorrenza fra le parti, di un contratto di agenzia, così come già accertato dal giudice di prima istanza, con statuizione rimasta intangibile perchè non oggetto di alcuna impugnazione.
Nè può ritenersi scrutinabile la doglianza ove si intendesse riferita al diniego di riconoscimento delle indennità connesse alla risoluzione del mandato, formulata inammissibilmente in violazione del principio di specificità che governa il ricorso per cassazione ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4, 6.
In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso è da ritenere inammissibile.
La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, il comma 1 quater) – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 9 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2019
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